6. Il Gatto e la Volpe

Erano le 11 di sera, e la saletta principale de “Il Gatto e la Volpe”, adibita a saloon, era popolata da una fiumana internazionale di gente. Uomini di tutti i Paesi, dagli sguardi fuggevoli e le parole smozzicate, sembrava che sussurrassero mille segreti guardandosi sempre intorno alla ricerca di qualche portatore di guai da cui fuggire.

Solo tre personaggi si distinguevano in quel marasma multietnico: il giovane proprietario che, al di là del bancone che attraversava “coast to coast” le due salette del locale, parlava al cellulare; un quarantenne castano un po’ goffo che, seduto solo ad un tavolo, beveva un Cuba Libre; e un ragazzone sui venticinque anni dallo sguardo furbo e bonario che, appoggiato al bancone, parlava anche lui al cellulare.

Non si sa a chi o cosa stesse pensando il proprietario quando aveva deciso di chiamare il proprio locale “Il Gatto e la Volpe”, ma sicuramente lui non era una volpe. Tenendo il telefono pigiato all’orecchio, parlava piano e male, come se avesse un’arancia in bocca, curvo, gettando occhiate circospette dappertutto. – Come in Quefstura? – disse. – Mua puerché? –

– Per via dello spaccio di pasticche alla marijunana in cui Lei è implicato – rispose una voce altisonante al telefono.

– Puasticche alla marijuana? Mua guardi che è la pruima volta che le sento nominare! –

– Suvvia, poche storie; la aspetto domani in Questura! – Una pausa. – E ora portami la mia Tequila, che è da dieci minuti che la aspetto! –

Il proprietario, Silvestro, si alzò di colpo e si guardò intorno. Poco lontano da lui, appoggiato al banco, vide il ragazzone venticinquenne: un micione. Era Daniele, un suo affezionato cliente che, col cellulare nella destra, lo stava salutando sorridendo.

– Mua ke skerzi sono questi? – gridò Silvestro in direzione di gatton Daniele. Lui chiuse il cellulare, scuotendolo platealmente con due mani in segno di palese sfottò.

Silvestro lo mandò al diavolo, e lui scoppiò a ridere.

Silvestro smise di degnare il micione, e focalizzò l’attenzione sull’entrata del locale; Daniele seguì il suo sguardo, e si girò.

Silvestro non era una volpe, ma quella che entrò sì.

Con i capelli rossi e ricci che le fluttuavano lungo le spalle, gli occhi azzurri che sembravano illuminare l’intero locale, una canottiera nera e un paio di pantaloni neri attillati che le evidenziavano le curve, la donna entrò facendosi largo tra gli avventori e i tavoli del locale.

Un albanese la seguì, vigile, con lo sguardo.

La rossa girò la testa verso destra, alla ricerca di qualcuno; Daniele la intercettò. – Ciao, eccomi qua. Mi stavi cercando, vero? –

– No. A dire la verità stavo cercando qualcun altro – disse la rossa in tono sensuale, ancheggiando.

– Bene. Allora sei proprio fortunata. Cercavi qualcun altro, e invece hai trovato me: meglio di così non ti poteva andare! –

– No, non sono qui per te – disse, squadrandolo dall’alto in basso in tutta la sua stazza. – Considerati fortunato – concluse, dandogli due pacche sulla guancia, e si voltò verso l’uomo che beveva il Cuba Libre; un uomo che già conosceva; l’uomo che stava cercando.

Augusto Russo sollevò lo sguardo. Si erano conosciuti qualche sera prima, sempre lì, in quel locale. Lei l’aveva avvicinato e gli aveva proposto un affare: andare da un certo Mister Noir, detective privato, fingersi amico di un certo Guido Stagni, e assumere il detective per rintracciare l’amico scomparso; in compenso, lei gli avrebbe dato 1000 euro, 500 subito e 500 a contatto effettuato. Lui si stupì un po’ per la generosa offerta, ma comunque accettò: era un periodo che aveva problemi di denaro, aveva contratto un debito con gente poco raccomandabile.

E poi l’idea lo solleticava: sarebbero stati come il Gatto e la Volpe.

Ora lui era lì, a guardare gli occhi azzurri della donna dal basso in alto.

L’albanese seguiva la scena, pronto a scattare: quella donna lo inquietava!

– Ciao, bellezza. Sei venuta a pagarmi? – disse l’uomo con voce impastata.

– Sono venuta a saldare i conti – rispose la volpe; e, con un gesto fluido delle mani, estrasse due grosse pistole nere che teneva infilate dietro, nella cintola dei pantaloni; Russo si alzò colto dallo stupore, e lei gli sparò due colpi in rapida successione, facendolo volare all’indietro sopra un altro tavolo e poi rovinare a terra.

L’albanese scattò in piedi, brandendo la propria pistola, ma la rossa lo centrò, sollevandolo da terra con un proiettile di grosso calibro.

La saletta adibita a saloon si trasformò in un vero e proprio saloon: pugni e proiettili cominciarono a partire, tavoli e sedie a ribaltarsi, bicchieri e bottiglie a frantumarsi.

La donna balzò sul bancone sparando a semicerchio su tutto e tutti, senza prendere la mira ma facendo a pezzi tutto ciò che capitava. Risparmiò solo Daniele, al quale, rannicchiato dietro un tavolo, strizzò l’occhio.

– Sì, sì. Ho capito. Sono fortunato. Sono stato molto fortunato che non stessi cercando me. –

In quel momento, due energumeni di Puglisi entrarono nel locale, e furono subito falciati dai proiettili della killer.

Intanto, in fondo a Viale Sarca, altri due energumeni, a bordo di un’auto, tenevano d’occhio il locale aspettando il ritorno dei loro compagni e della donna.

Quando videro la folla di clienti terrorizzati eruttare fuori dal locale, si catapultarono fuori dall’auto e  si precipitarono verso l’entrata.

 La donna non doveva scappare, assolutamente!

Si fecero largo a spintoni tra i clienti urlanti che si riversavano fuori dal locale, ed entrarono, scavalcando i corpi dei loro due compagni.

Si guardarono intorno.

Della donna, nessuna traccia!

Andarono nella saletta attigua e, quindi, nel cortile; ma niente da fare!

La donna era fuggita, e loro erano nei guai!

A qualche isolato di distanza, la donna aveva nascosto la voluminosa parrucca sotto il maglione, raccolto i lunghi capelli castani sopra la nuca, e infilato le lenti a contatto azzurre nella tasca anteriore destra dei pantaloni. Ora stava camminando tranquillamente, trasformatasi in una dinamica ragazza incinta.

Ora doveva trovare il modo di sistemare quella faccenda!

Non aveva più una casa dove andare.

O meglio: ce l’avrebbe avuta, la casa di un amico su cui contare, ma era sicura che, appena si fosse avvicinata al portone, qualcuno nell’ombra l’avrebbe eliminata.

Di telefonargli per avvertirlo non se ne parlava: gli uomini di Beppe Puglisi le avevano sequestrato il cellulare.

Non poteva nemmeno andare in giro in quel modo, perché comunque gli scagnozzi di Puglisi l’avrebbero riconosciuta e braccata. E non aveva neppure un’auto!

E così, cominciò a camminare e a pensare alacremente.

La fortuna le venne incontro sotto forma di ristorante. “RISTORANTE DA  TONI” informava l’insegna.

Il locale era chiuso, ma quella era la soluzione.

Ci sarebbe tornata l’indomani, all’ora di pranzo.

Quella notte l’avrebbe passata alla diaccio da qualche parte.

 

7. Sulle tracce della Cacciatrice

Beppe Puglisi, sedutosi già alla sua scrivania di primo mattino, brandiva una matita con la sinistra, e la spezzò col pollice. – Quella fìmmina ha ucciso due dei miei òmini, ed è scappata! Mi ha babbiato!… Trovatela, e riportatemela ca! – disse alla coppia di energumeni sopravvissuta, che stava in piedi con le mani dietro la schiena di fronte a lui, dopo un’intera notte di ricerche vane.

I due salutarono il capo col capo, e se ne andarono.

Il boss tornò a osservare l’articolo sul giornale, rigirandosi nella mano destra il cellulare che aveva fatto sequestrare alla killer.

Fissò l’articolo, e meditò. Sì, certo, la morte di quel quaquaraqua gli procurava piacere, ma c’era un particolare che non quadrava: il colore della parrucca.

La donna dalla parrucca bionda entrò in un bar, infreddolita: aveva passato la notte nel cortile di un palazzo, approfittando di una coppietta che entrava, lontano dagli energumeni di Puglisi e dalla polizia.

Ordinò al banco un cappuccino e una brioche, e andò a sedersi ad un tavolino dove poteva vedere il televisore, acceso su un telegiornale del matino, e la strada.

Il cappuccino e la brioche arrivarono subito, il cameriere si raschiò leggermente la gola, e la donna, bella ma dallo sguardo fosco, guardò il prezzo sulla ricevuta e pagò.

Cominciò a mangiare, inzuppando la brioche nel cappuccino, tenendo gli occhi fissi sul televisore. E la notizia che sentì, anche se già la sospettava, non le piacque affatto: Mister Noir ed Elena Fox stavano aiutando la polizia, ed erano di nuovo sulle tracce di Serena Bonita!

La donna smise di masticare, col boccone ancora in bocca.

 Era ora di contrattaccare, e di chiudere i conti una volta per tutte!

Guardò fuori, e vide una scena che non le piacque affatto.

Due pischelli, che arrivavano a stento ai 18 anni, stavano confabulando, guardando di nascosto dentro il bar, all’interno di un’auto sportiva nera.

Anche lei era sportiva, aveva bisogno di un’auto, ed era di umore nero. Quindi, decise di fare una buona azione, impedendo ai due pischelli di finire in guai grossi, e di premiarsi.

Finì la brioche, trangugiò il cappuccio, e uscì dal bar. Anche il pischello che era a fianco del neo-guidatore uscì dall’auto: lei lo bloccò, gli sfilò la pistola ad acqua dai pantaloni, spruzzò un paio di schizzi in aria, e gli sparò un sonoro ceffone da farlo crollare a terra.

Andò all’auto, dalla parte del guidatore. – Fuori! – ordinò, puntandogli l’arma contro. Solo quando vide l’espressione strabiliata del ragazzo si accorse che lo stava minacciando con la pistola ad acqua. La gettò via ed estrasse la propria. – Questa è vera! Fuori! –

Il ragazzo obbedì di corsa.

Lei salì sull’auto, e partì.

All’interno del suo studio, Mister Nioir guardò la prima pagina del giornale. Un titolo a caratteri cubitali comunicava che un uomo era stato ucciso in un locale di Milano.

IL GATTO E LA VOLPE – Il locale dove sarebbe andato lui, la sera precedente, se Elena Fox gli avesse risposto al telefono.

La fototessera pubblicata sul  quotidiano ritraeva il viso serio della vittima. L’investigatore conosceva quel volto, ma il nome che gli era stato attribuito non corrispondeva.

L’uomo che si era presentato il giorno prima come Augusto Russo, e che aveva finito i suoi giorni, e le sue notti, al Gatto e la Volpe, secondo il giornalista si chiamava Alfredo Musso.

Elena Fox arrivò, e Mr. Noir disse: – Ho una buona notizia. A quanto pare, il nostro “impacciato” cliente soffriva di amnesia: non si chiamava Augusto Russo, ma Alfredo Musso –.

– E allora? –

– E’ morto – rispose lui, mostrandole il quotidiano. – D’ora in poi, tutto quello che scopriremo sarà la verità. –

Elena, aggrottando buffamente le sopracciglia, prese il giornale.

– E poi, ho scoperto un’altra cosa – disse l’investigatore, facendo apparire sul monitor il file PDF dell’articolo scannerizzato che aveva visionato la sera prima. – Quella donna… non la riconosci? Non ti ricorda qualcuno? – disse, indicando la donna riccia che aveva identificato come l’attuale signora Stagni.

– Sì, ma voglio che lo dica tu. Sei tu il capo! –

– È Monica Giuffrida, moglie di Stefano Giuffrida… Hai presente? –

– Certo! – esclamò lei con un tono leggermente risoluto. – E’ stato quando non ho fatto la conoscenza della mia simpatica sosia… Comunque, mi ricordo bene quel caso; era luglio, e teoricamente dovevo essere in vacanza, io!… Perché invece mi sono trovata immischiata in un caso? –

– Semplice: hai presente il detto “Luglio e agosto, moglie mia non ti conosco”? –

– Sì, e allora? –

– Ecco: mica siamo sposati, noi! –

Elena gli scoccò un’occhiataccia.

– Comunque la killer… la Bonita… è gentile: avverte sempre tre volte prima di agire –.

– Già, come ha fatto con il giudice Anioni. –

Il detective era perplesso. – Serena Bonita dà la caccia a Stefano Giuffrida, alias Guido Stagni, suo unico contratto rimasto incompiuto, per vendicarsi; lo identifica, lo minaccia secondo le sue regole, e lui scappa. Nel frattempo, sempre la Bonita, decide di occuparsi anche del giudice Anioni, facendosi beccare. Dopodiché, un finto cliente, che ormai possiamo considerare insolvente, si presenta da noi sotto falso nome incaricandoci di ritrovare il suo “amico” Guido Stagni. –

– “Finto cliente” dici? –

– Certo. Ci ha dato nome e numero di cellulare falsi. Appena ci ha assunti è scomparso, dileguandosi. –

– Complice della Bonita? –

Mr. Noir la guardò di sottecchi, sorridendo. – Suona strano detto da te. –

Elena roteò gli occhi. – …Della Gertrude. Va bene se la chiamo Gertrude? –

– Meglio. Comunque, non penso che il tipo ne fosse consapevole. Ricordati che la nostra Gertrude è una maga dei travestimenti, e l’articolo parla di una donna dai capelli rossi e gli occhi azzurri. –

– Proprio come Gertrude con parrucca e lenti a contatto colorate. –

– Appunto. –

– E così il nostro Augusto Russo, o Alfredo Musso, dopo essersi beccato, con ogni probabilità, un acconto dalla Bonita, si è beccato, come saldo, un paio di pallottole. –

– Che comunque hanno un loro valore! –

Elena lo guardò male

Fu in quel momento che il detective se ne ricordò. Durante l’avventura a Misterbianco uno dei possibili bersagli della killer si chiamava proprio Augusto Russo, ed era il miglior amico di Giuffrida; Serena Bonita doveva essersene ricordata e aver assunto Alfredo Musso per impersonarlo.

Se il vero Augusto Russo l’avesse visto, probabilmente l’avrebbe eliminato lui stesso!

Era quasi mezzogiorno, e la donna che vide entrare nel suo ristorante era bionda e riccia, ma lui, Antonio Castri detto Toni, la riconobbe dagli occhi.

Avevano trascorso tante notti insieme, e lui le aveva fornito tante identità, donandole i documenti da lei richiesti: sempre splendidamente falsi.

Se Serena Bonita era lì, voleva dire che aveva bisogno di una nuova identità.

La donna andò nei bagni, e Toni la seguì.

Lui la prese per le spalle, la spinse dentro un vano, e la baciò. – Cosa ci fai qua? –

– Mi occorre il tuo aiuto. – E ricambiò il bacio.

– Ma perché hai fatto quel casino con il giudice? – E la baciò.

– Perché pensavo a te. – E lo baciò.

– Non capisco. – Bacio.

– A chi lo dici! – Bacio.

– Vieni a mezzanotte. Ti darò tutto. –

– Non mancherò. Contaci. – Lo accarezzò. Poi, a buon conto, lo baciò.

Per non far faticare la sua assistente, che comunque doveva essere sempre pronta a menar le mani, Mister Noir decise che quel giorno si sarebbero spostati col suo furgone nero, munito di pedana elettrica e cambio automatico, che guidava lui stesso.

Stavano recandosi, assieme al commissario Cordieri e all’ispettore Tommasi, al Ristorante Da Toni. Infatti, anche se non esisteva una rivista di gossip dedicata ai criminali, c’erano due cos che indipendentemente dalle prove, tutti sapevano: la prima era che Antonio Castri detto Toni era un falsario; la seconda era che Toni era l’amane di Serena Bonita.

Toni, dotato di una faccia di tolla incredibile, andò loro incontro con uno smagliante sorriso. – Commissaro!… Come va? Qual buon vento la porta? –

– Vento di tempesta!… Dov’è Serena Bonita? –

– È lì – disse, indicando scherzosamente Elena Fox.

– Senti, Toni, ieri mi hanno sparato addosso con un mitra, quindi sono di pessimo umore. –

–  Mi dispiace che le abbiano sparato, ma… –

– Va bene, per ora ti credo; ma se scopro che mi hai mentito, ti arresto e poi butto via entrambe le chiavi: quella del ristorante e quella della tua cella. Chiaro?! –

Toni assentì sorridendo.

I poliziotti erano andati via da pochi minuti, quando Toni telefonò a Bonita. Quando sentì che aveva preso la comunicazione, prima ancora di sentirla dire “Pronto?”, lui le disse: – Ciao, sono io! E’ venuta qui la polizia, mi hanno chiesto di te, ma io ho negato di averti vista. Ci vediamo a mezzanotte. Stai attenta! –

E riattaccò, senza farle pronunciare una sola parola, convinto di aver fatto una cosa giusta.

Le intenzioni di Toni erano buone: aveva telefoonato a Serena per avvertirla, non aveva fatto alcun nome, ed era stato velocissimo; aveva seguito tutte le misure per non farsi identificare.

Sì, Toni era stato bravo.

Solo l’interlocutore era sbagliato.

Beppe Puglisi stette fermo ancora per qualche secondo, col cellulare che aveva sequestrato alla killer attaccato all’orecchio.

Si concentrò per riconoscere la voce, e la identificò. Era quella di Toni, il falsario: in passato anche lui aveva usufruito dei suoi servigi, e sapeva dove trovarlo!

Mister Noir, in abito nero, alla guida del suo furgone nero, stava dirigendosi verso casa. Dato che quella sera sarebbero dovuti andare a Castelletto Ticino, e c’era il rischio di uno scontro con Serena, aveva conceso a Elena mezza giornata di riposo.

Ma, in realtà, sentiva che c’era qualcosa che non andava in quella faccenda.

Forse stava considerando quella vicenda dalla prospettiva sbagliata. Forse il vero bersaglio di Bonita non era Stagni; così come non lo era Anioni. L’unica cosa che avevano in comune Stagni e Anioni era… la loro conoscenza!

 Sì. Era vero! Erano loro, lui ed Elena, il vero bersaglio della killer!

Si voltò di scatto, per dirlo subito alla sua amica-assistente, ma il suo istinto lo fece trattenere.

Giunto a casa, Mr. Noir congedò subito Elena, raccomandandole di tornare quella sera alle 9 per andare al Circolo di Castelletto Ticino.

Andò nel suo studio e accese il computer.

Doveva riflettere!

E così Serena Bonita voleva vendicarsi di loro! Molto bene!… Ma come aveva fatto a trovarli?

In fondo, ai tempi di Misterbianco solo Elena era apparsa in televisione, mentre lui era sempre rimasto in incognito.

Andò a ritroso nel tempo, fino a 3-4 mesi prima, e allora capì.

 

Indice delle puntate del racconto Caccia alla Cacciatrice

1. rubriche/8825 (dal 2-11-2009)

2. rubriche/8826 (dal 3-11-2009)

3. rubriche/8827 (dal 4-11-2009)

4. rubriche/8828 (dal 5-11-2009)

5. rubriche/8829 (dal 6-11-2009)

La presentazione di Mister Noir di Sergio Rilletti è in rubriche/8901

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