Non c’è bisogno di essere un appassionato di gialli per conoscere la figura del detective Sherlock Holmes. Ma se il suo creatore delineò le caratteristiche dell’investigatore sulla falsa riga di Dupin, questi avrebbe trovato maggior ispirazione se fosse entrato in una biblioteca orientale. Sir Arthur Conan Doyle però non poteva certo sapere che esistevano già dei Dupin nel celeste impero di quasi mille anni fa. Ecco che la millenaria civiltà cinese si annovera un’altra invenzione, accanto al compasso, la stampa e la polvere da sparo: l’invenzione del genere poliziesco, in cinese gong’an.

Fin da tempi antichissimi il popolo cinese mostra un fervido interesse per vicende a carattere legale-poliziesco. Già sotto il governo dei Qin, dinastia che unificò per prima il territorio cinese nel 221 a.C., compaiono i primi scritti che descrivono procedure legali; si tratta però ancora solo di elementi isolati, scarne descrizioni di carattere più che altro compilativo, forse a sostegno della politica legista perpetuata dai regnanti di questa dinastia. Le prime vere raccolte compaiono in epoche successive e diventeranno fonte inesauribile per novelle vere e proprie raccontate dai cantastorie di epoca Song (960-1279).

Allo sviluppo economico dell’impero nel XIII secolo fanno da sfondo sia un forte sviluppo urbano, con la nascita delle prime città cosmopolite, luogo di incontro e commercio per mercanti e artigiani provenienti da tutto l’Oriente, sia un certo fervore tra gli strati della nuova società  moderna cinese che, insoddisfatta della letteratura ufficiale redatta in una lingua e in uno stile incomprensibile alla maggioranza della popolazione, richiedeva nuove occasioni di svago e di divertimento.

Proprio quando le case editrici cominciavano a fiorire e nasceva la stampa a caratteri mobili, nelle strade si radunavano folle di pubblico intorno ai cantastorie che raccontavano di amori, apparizioni di fantasmi, imprese cavalleresche, spietati assassini e crudeli criminali. Tra i generi di cui si componevano gli huaben (letteralmente testi parlati), testi recitati di fronte ad un pubblico pagante, si distingueva il genere gongan (tradotto in italiano come storie di casi giudiziari o casi pubblici, probabilmente riferendosi alla natura pubblica delle sedute del tribunale). Questo genere popolare viene comunemente definito letteratura poliziesca cinese. La novellistica cinese di casi criminali aveva però caratteristiche peculiari dell’ambiente che l’aveva concepita, mancando quasi totalmente della suspence tanto cara al lettore occidentale. Il pubblico che si radunava intorno ai cantastorie faceva parte, nella quasi totalità, di quella classe popolare ignorante schiacciata dal peso politico dei funzionari, troppo spesso mandarini corrotti. Gente semplice che aveva perso completamente fiducia nel sistema giuridico e che si guardava bene dall’avvicinarsi al tribunale per non finire a confessare sotto tortura crimini non commessi. Lo spettatore cinese non identificandosi col funzionario protagonista, più che dall’intreccio degli avvenimenti era conquistato dall’onestà, elemento raro fra i vertici della macchina burocratica imperiale, con la quale il magistrato risolveva il caso.

Il lettore della novella cinese, quindi, a differenza di quello occidentale non resta col fiato sospeso fino alle ultime pagine che gli riveleranno l’assassino, ma conosce fin dal principio l’identità del malfattore. La sua attenzione è, tuttavia, catturata dalle vivide descrizioni dei dettagli, dalle apparizioni di fantasmi, oggetti parlanti e fenomeni naturali eccezionali, attraverso i quali il sapiente magistrato scioglie la matassa e condanna a torture strazianti il colpevole.

La presenza del soprannaturale e l’accuratezza con la quale vengono descritte le punizioni corporali a cui viene sottoposto il condannato sono due degli elementi caratterizzanti di tutta la letteratura poliziesca cinese, anche nelle epoche successive. A queste si aggiunge la prospettiva dell’aldilà, non inteso come un luogo dove le anime, in una sorta di contrappasso orientale, godono o periscono le conseguenze delle azioni compiute in vita, ma un mondo dove la società terrena è riprodotta in tutte le sue declinazioni. È per questo che spesso i giudici protagonisti delle novelle si avvalgono di una giustizia divina e a volte si recano personalmente a svolgere le loro funzioni persino nel regno dei cieli.

Le novelle gong’an cinesi sono pervenute a noi grazie a zelanti letterati che, nel XVI secolo, le raccolsero in volumi ritoccandole e spogliandole di quegli errori grammaticali e lessicali di cui erano colmi i brogliacci dei cantastorie illetterati. Questi mandarini, spesso al margine della carriera politica, tesero a spostare il ruolo del giudice, inizialmente relegato alle ultime pagine, al centro della narrazione, accentuandone le caratteristiche individuali e le capacità deduttive.

Questo è  il caso del famoso giudice Bao, ancora oggi protagonista di numerose serie televisive, del giudice Shi, Guo, e Di che, a differenza dei suoi colleghi, ha conosciuto particolare fama al di fuori dei confini della sua madre patria. Molti di loro sono in realtà personaggi storici, funzionari distintisi al servizio di antichi sovrani, ma i casi legali raccontati, anche se ispirati da reali testi giuridici, difficilmente si possono attribuire ai loro eroi.

Lavinia Benedetti

PhD in Foreign Languages and Literature Tsinghua University of Beijing

Research Fellow (Chinese Language and Literature)

University of Catania

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