Impiegato di giorno, critico cinematografico di notte, ora anche autore di noir. Matteo Di Giulio, il nostro ospite di questo mese, è alla sua prima volta editoriale con La Milano d'acqua e sabbia (libri/8203), edito dai Fratelli Frilli.

L'opera e il suo autore nascondono molti aspetti interessanti e da indagare e proprio per questo sono molto felice di avere Matteo ospite del nostro salotto letterario.

Grazie dell'ospitalità. Sono contento che il romanzo ti sia piaciuto, e spero che anche i prossimi non deludano né te, né chi abbia apprezzato La Milano d'acqua e sabbia. La mia intenzione è di bissare quest'esperienza e, ora che ho trovato la vena giusta, di continuare con convinzione su questa strada.

Cominciamo allora questa intervista sfruttando, permettimi il termine, le tue conoscenze cinematografiche: prova a inventare un trailer del tuo romanzo.

Regia di Paolo Sorrentino (chiedere William Friedkin per un trailer immagino sia troppo), musiche degli Slint o dei Don Caballero. Un piano sequenza illumina il protagonista, un ragazzo alto e grosso, che si muove di corsa per Milano. Si guarda spesso in giro, cerca di catturare tutti i dettagli che lo circondano. Un ristorante etnico, una volante della polizia, un tram che corre sferragliando. Un lampo di luce introduce un flashback: Fedeli rivede le gambe di un cadavere che impediscono alle porte di un ascensore di chiudersi, la scientifica che fa i rilievi sul pianerottolo, ripensa al grattacielo nuovo di pacca in cui si è svolto il delitto. Musica a fare da ponte, una melodia dolce ma poco raffinata, come in Roman Candle di Elliott Smith. Nuovo stacco, si torna al presente. Quartieri degradati, strade trafficate, cemento ovunque. Volti stranieri che sfrecciano. Le riprese sono sincopate, come il primo Wong Kar-wai. La fotografia è al neon, brillante, fastidiosa. Fedeli, ripreso di spalle, avanza, la pistola in pugno ma la mano che trema. E all'improvviso, dopo tanto camminare, torna al palazzo dove hanno avuto inizio le vicende. Lì si blocca, alza lo sguardo e vede sopra di lui quindici piani che lo sovrastano. Lo fanno sentire una formica alle prese con un gigante. Titoli di coda, musica distorta, magari i Sonic Youth. Rumore di uno sparo sullo schermo nero.

Da dove nasce l'idea di questo romanzo?

Il soggetto è nato ribaltando, per assurdo, un'ipotesi reale. La storia del palazzo, che esiste veramente, è verosimile, come hanno dimostrato, diversi mesi dopo che avevo completato il romanzo, alcuni fatti di cronaca. Purtroppo è stata l'ennesima dimostrazione di quanto la realtà riesca a superare la finzione; anche quella che uno pensa non sia mai neanche lontanamente eguagliabile.

Proviamo ad approfondire quelli che sono alcuni degli aspetti portanti del libro. Il primo, secondo me, l'ambientazione. Il tuo romanzo, infatti, va a inserirsi in un gruppo, sempre più consistente, di opere che si svolgono nella tanto controversa Milano. Faccio riferimento ad alcuni autori emergenti quali Andrea Ferrari, Francesco Gallone, per dire i primi due che mi vengono in mente. La Milano di acqua e sabbia come si inserisce in questo panorama?

Milano è uno splendido affresco noir, dipinto a più mani. L'ambiente è lo stesso, i personaggi sono differenti. La città è l'unica vera protagonista dei nostri lavori: sono romanzi specifici, legati alla realtà in cui sono ambientati. Non potrebbero vivere altrove, non sono intercambiabili. Posto questo minimo comune denominatore, i personaggi della nuova scia nera milanese – aggiungo anche Antonio Zamberletti, Adele Marini, Massimo Cassani e Paolo Roversi – sono icone uniche. Nella tradizione del cinema poliziottesco italiano c'erano registi, sceneggiatori, attori ben riconoscibili, ognuno perfetto in una determinata situazione. E così, oggi, Zamberletti mi sembra la contropartita di un Franco Nero diretto da Castellari ne Il cittadino si ribella: azione e introspezione. Adele Marini fa rivivere l'impegno sociale di Damiano Damiani. Roversi è scorrevole ed empatico, come Duccio Tessari. Gallone è anarchico quasi quanto l'exploitation di Sergio Martino, un'altalena di emozioni e di follie, un'entropia sotto controllo. In un mosaico siffatto mi piacerebbe, un giorno, arrivare a rappresentare la controfigura narrativa di Di Leo,  ben sapendo quanto sia difficile volare a simili livelli. La nostra Milano è chiaroscurale, con tanti lati negativi di cui innamorarsi, come fosse una bella donna truccata e vestita per colpire; quando riesci a ottenerne le attenzioni scopri qualche ruga e l'ombretto sbavato. Ma ormai ne sei talmente preso che i difetti ti sembrano essenziali.

E tu che rapporto hai con Milano?

Di amore e odio. Sono nato e cresciuto a Milano, somatizzo ogni sua carenza e ne esalto i più piccoli pregi. Prima o poi questo rapporto potrebbe cambiare, soprattutto quando penso ai servizi che le metropoli estere sono in grado di offrire a fronte degli stessi difetti; ma per ora regge. Come si fa a non inchinarsi di fronte a una città ancora razzista e misogina, dove però ci sono il più grande festival di cinema africano e tanti locali gay-lesbici o ristoranti etnici di un'umanità sconvolgente? Dove Chinatown, odiata da tutti i benpensanti, è ormai un polmone d'acciaio dell'economia locale? Dove si respirano aria inquinata, traffico e brutture architettoniche, così kitsch da non potertici non affezionare? Milano è una contraddizione vivente, la sua imperfezione è un meraviglioso esempio di fallimento.

Questo mi fa venire in mente una frase di Andrea Pinketts, che in più di una circostanza, parlando del suo rapporto con Milano ha dichiarato "A Milano di notte c'è il mare", riferendosi proprio al fatto che a Milano tutto è possibile. Comunque che nel tuo romanzo la città rivesta un ruolo importante si capisce già dal titolo.

Nasce dall'ideogramma cinese per «cemento», che racchiude la parole «acqua» e «sabbia». Milano gigante dai piedi d'argilla, con grattacieli che, come i palazzi dell'Abruzzo terremotato, vengono giù perché l'impasto non è all'altezza della facciata. Amo la cultura cinese e ho voluto omaggiarla con questo piccolo vezzo.

E ora parliamo di coloro che in questa Milano si muovono: chi è Gianluca Fedeli?

Un poliziotto fatto in modo strano. Ricalcato sulla falsariga di un qualsiasi trentenne milanese, conscio del suo fascino, molto narcisista. Un personaggio al tempo stesso, parola dei lettori, tremendamente affascinante oppure orribilmente antipatico. Però è anche un insicuro, che sente spesso la mamma, di cui è parzialmente succube. Un uomo che non si decide a crescere completamente. Ribelle dentro, ha un passato che gli ha infuso un senso della giustizia tutto suo. Non è però Charles Bronson, e neanche l'ispettore Callahan, anche se di tanto in tanto gli prudono le mani. Finché qualcuno lo aiuta a riflettere sul suo ruolo nel mondo, a porsi dei quesiti, non deraglia. Il problema nasce quando si fa prendere dalle passioni. In quel caso, una volta innestata la marcia, come per William Chance in Vivere e morire a Los Angeles, sono guai per chi provi a ostacolarlo, da qualunque lato della barricata arrivi lo stop.

C'è una componente autobiografica?

C'è qualcosa di me in Fedeli, è vero. Credo che il processo di identificazione sia immediato, anche quando è involontario, per una persona che scriva e che, come nel mio caso, decida di adottare la prima persona. Ma non è uno specchio solo di me, semmai un mix di persone e situazioni che ho visto o vissuto, anche indirettamente. Fedeli è la biografia di un certo tipo di milanese, che corre dietro al lavoro e non ha mai tempo di pensare a vivere un po' meglio. La generazione di chi sia nato negli anni settanta, oggi tramutatasi in una classe sociale in bilico tra giovinezza e età della maturità: bozzoli che potrebbero finalmente, in ritardo, sbocciare in farfalle. Sovrastati dallo stress, dalle frustrazioni di un ambiente e di un'epoca asettiche, impersonali, cariche di inibizioni e dubbi. Persone forti eppure fragili.

Come molti famosi poliziotti, commissari e personaggi della letteratura, anche Fedeli legge molto. Nel romanzo fai riferimento a diversi libri letti dal protagonista, ma non citi mai i titoli. Ne avevi in mente qualcuno in particolare?

Cane rabbioso di Petrella, i titoli della collana VerdeNero, se devo fare qualche nome. Ma in realtà, da assiduo lettore, preferisco pensare che il mio alter ego narrativo abbia la mia stessa passione per la lettura, senza barriere. Polizieschi, gialli e romanzi noir in prima fila, ma non solo. Un bel modo per tappare quei buchi tra un pasto consumato di fretta, un viaggio in metropolitana e una delle rare pause di lavoro. Leggere aiuta a vivere meglio, il che vale tanto per me quanto, quando se ne ricorda, per il mio protagonista.

E accanto a Fedeli due donne: Teresa e sua madre.

Teresa è il personaggio femminile classico, quello che rispecchia i canoni del noir. La Fay Wray della situazione, attorniata da un mondo di duri e di scorretti. Ha le unghie come le donne di oggi, ma è facile da ferire. Jacques Tourneur le metterebbe intorno un mare di guai in bianco e nero e la farebbe crescere a dismisura, fino a contrapporsi al Robert Mitchum di turno. Io ho preferito tenerla a freno, come dimostrazione che la felicità, tutto sommato, non esiste veramente: né per lei, né per nessun altro, indipendentemente dal sesso. Insieme a lei ci sono la madre di Fedeli, una donna fantasma che quasi non si vede; e Svetlana, una prostituta che viene dall'Est. I personaggi femminili di La Milano d'acqua e sabbia non hanno vita facile: devono affrontare tempi cupi e probabilmente non sono adeguatamente preparate. A Hong Kong, negli anni ottanta, dominavano su grande schermo le cosiddette women with guns, poliziotte decise, giustiziere e combattenti implacabili. Da noi invece ci sono ancora tanti, troppi stereotipi. Aggressivi, sì, ma in modo differente. Teresa, di cui si intuisce la durezza da manager in carriera, ne è una fotocopia all'amatriciana. È in balia di un uomo che vorrebbe cambiare, ben sapendo di avere poche chance di farcela. Più che debole, direi che è stoica. E al tempo stesso ingenua. Dal mio punto di vista, dimostra così facendo un coraggio che non è comune.

Quello che mi ha particolarmente colpito del romanzo è la costruzione della trama poliziesca: matura ed equilibrata, come è difficile da trovare in un'opera d'esordio. La costruzione dell'indagine è attenta e calibrata e riesce perciò a tenere il lettore appeso a un filo. Questo lavoro ti ha richiesto particolare fatica?

La trama è nata su un binario unico. Un cadavere scoperto in un condominio di nuova costruzione, in un quartiere in via di riqualificazione in una delle zone meno strombazzate di Milano, la periferia Sud Ovest. Dove prima c'erano solo fabbriche abbandonate e macerie di una vita industriale precedente, oggi c'è un potenziale quartiere di lusso pieno di contraddizioni. Le stesse antinomie che volevo costellassero la storia, con tanti cambi di ritmo. Si parte lentamente, si accelera, ci sono nuove impasse e poi la sterzata finale. Nel frattempo, al binario centrale, la sceneggiatura e il montaggio hanno aggiunto nuove storie, nuove idee, nuovi personaggi, nuove svolte, saliti in corsa quando la carrozza era già in movimento. Milano, d'altronde, è una città fatta propria così, a strati: l'importante, a mio parere, è evitare i binari morti, altrimenti il viaggio rischia di diventare inutilmente prolungato e inevitabilmente noioso.

L'ambientazione del tuo romanzo, i tratti noir, il protagonista ricco di contraddizioni, la trama così ben congeniata, hanno portato alcuni a paragonarti a Scerbanenco e a vedere nel tuo lavoro echi del grande autore. Cosa pensi di questo confronto?

Ne sono onorato. Mi piacerebbe, prima o poi, arrivare ad avvicinarmi vagamente al suo stile e alla sua capacità di rendere vivi persone e luoghi. Al momento, forse, sono più vicino a un regista di genere che tenti, con buona volontà, di tradurre Scerbanenco in immagini. Non un autore, piuttosto un artigiano, che sa ciò che vuole e che punta al suo obiettivo con determinazione. Yves Boisset di Il caso "Venere privata", tanto per fare un nome. Il mio è un racconto di genere, intriso della Milano di oggi: finisce per fotografare ed evidenziare situazioni quotidiane, ma non nasce con intenti autoriali, né di denuncia. La mia macchina da presa riflette quello che personalmente vedo tutti i giorni quando esco di casa e mi scontro con la realtà, brutta o bella che sia.

Come dicevamo in apertura, Matteo, sei un autore dalle diverse sfaccettature: ti occupi di cinema, tanto che nella tua biografia si parla di una doppia vita. Come concili tutti questi aspetti? E cosa ti ha spinto a cimentarti anche nella scrittura? E ancora: come sei arrivato alla pubblicazione?

Sono impiegato di giorno e critico cinematografico di notte. O almeno così mi piace dire: in realtà la doppia professione ha un afflato molto meno romantico e molto più faticoso del previsto. Ho sempre amato scrivere e la mia passione mi ha portato a occuparmi di cinema, ma dall'altro lato del set, quello fatto di carta stampata. Ho scritto su internet, poi su riviste. Oggi collaboro con Film Tv, diverse altre riviste e qualche festival. Il mio amore per l'oriente e per il cinema asiatico, insieme alla passione per la letteratura noir, mi hanno poi spinto, desiderio che covava in me da tanto, a cercare un ruolo ancora più attivo. E così mi sono sfidato, poi ho imbustato tutto e ho indirizzato il manoscritto a una decina di editori che da lettore apprezzavo. In City on Fire di Ringo Lam, Chow Yun Fat è un infiltrato corroso dalle incertezze del mestiere. Parallelamente mi capita di sentirmi un alieno che vive due o tre vite contemporaneamente. Prima o poi spero di riuscire a far conciliare tutto in un'unica opportunità, ben sapendo quanto possa risultare utopica, a priori, l'idea.

Sei soddisfatto dei risultati raggiunti fino a oggi?

Sono soddisfatto di essere riuscito a scrivere il mio primo romanzo. E di avere la consapevolezza che non mi fermerò qui, visto che ho già elaborato altro materiale e che l'ispirazione, fortunatamente, sembra per il momento non volermi abbandonare. Per quanto riguarda il risultato del romanzo sono soddisfatto a metà: se dovessi voltarmi indietro ci sono tante cose che migliorerei. Lo stesso avverrà con il secondo libro, con il terzo, e via di seguito. Preferisco guardare avanti e trarre beneficio dalle critiche e dai giudizi per migliorare, che crogiolarmi al pensiero di essere completamente appagato.

La consapevolezza di non essere arrivato e la voglia di migliorarsi sempre credo che siano degli ottimi stimoli per continuare e per raggiungere risultati sempre migliori. Però mi hai messo la pulce nell'orecchio e la domanda sorge spontanea. Se scrivessi oggi La Milano d'acqua e sabbia cosa cambieresti?

Cercherei di tratteggiare ulteriormente alcuni dei personaggi secondari, in modo da far emergere in maniera ancora più viscerale l'universo pulsante in cui si muove Fedeli. Ci sono caratteri interessanti, come Teresa, come l'agente Lorenzi o come Svetlana, di cui mi piacerebbe occuparmi nuovamente, in futuro. Chissà che non decida di farli tornare. Non necessariamente in presenza di Fedeli.

Come hai anticipato tu stesso stai continuando a scrivere e alcuni punti in sospeso sulle vicende dei personaggi, lasciano intuire che presto ci sarà un sequel. E' così?

C'è, ha un titolo provvisorio che per scaramanzia non svelo ed è molto più cupo e introspettivo del suo predecessore. Fedeli dovrà affrontare di petto fantasmi che non pensava avrebbero potuto metterlo alla prova. Dovrà scavare ancora più a fondo nella melma del sottobosco criminale milanese. Non sarà una passeggiata, per niente. Se alla fine del primo romanzo scivola sempre di più nella perdizione, con il secondo dovrà cercare una nuova dimensione. Dall'inferno al purgatorio, conscio che il biglietto per il paradiso è ancora troppo costoso. Potrebbe uscire a fine anno, ma questa è una decisione che non dipende solo da me.

E tu? Non soffri di "ansia da prestazione" per il secondo romanzo?

In realtà sono stato cavato immediatamente d'impaccio dalla voglia repressa di scrivere narrativa che avevo dentro. Una volta tolto il tappo, è stato necessario solo controllare che non andassi fuori fuoco: per ora nessuna paura dei giudizi. Quelli ricevuti sono stati molto costruttivi, anche i commenti negativi. Il responso, alla fine, spetta sempre al lettore. Se non dovesse piacere quello che sto scrivendo, farò tesoro dell'esperienza per migliorare. Ho dalla mia la fortuna di avere una forte smania di scrivere. Ho completato di getto, oltre al secondo episodio con Fedeli, anche un romanzo breve – titolo provvisorio: Sinfonia a tre voci –, che ha per protagonisti tre personaggi disperati. Inoltre sto imparando a ricorrere alla formula del racconto per sperimentare, per mettermi alla prova. Di questi, uno – Il ragazzo cyborg, un ibrido di mélo e fantascienza – è stato pubblicato su Uomini e donne: maneggiare con cura; un secondo dovrebbe essere incluso in un'antologia natalizia che uscirà a fine anno per Frilli.

Facciamo insieme, ora, una specie di gioco: prova a pensare una mini trama se in un romanzo il tuo protagonista incontrasse Andrea Brandelli. Andrebbero d'accordo?

Di sicuro non all'inizio. Fedeli cercherebbe di portare Brandelli sulla cattiva strada, senza riuscirci. Ne invidierebbe le certezze. Probabilmente a lungo andare gli starebbe sulle palle. Un rapporto troppo altalenante per potersi concretizzare. Alla fine, spero possano trovare un modo di convivere. Anche se non è facile: Brandelli ama il calcio, Fedeli non lo tollera.

E con Lazzaro Santandrea?

Fedeli si farebbe traviare all'inizio, si godrebbe il momento e poi passerebbe ad altro. Lazzaro potrebbe consumare Fedeli, troppo emotivo per reggere gli stessi eccessi e uscirne indenne. Sarebbero buoni compagni di sbronze, se imparassero a vedersi solo di tanto in tanto, ma nessuno dei due ha l'autocontrollo come principale dote.

E con Duca Lamberti?

Duca Lamberti è l'animo saggio di Fedeli e oggi, a tante decadi di distanza, si chiama Tonioli, ovverosia il commissario che fa da balia al giovane ispettore inquieto. Duca Lamberti è, inconsciamente, il padre che Fedeli ha sempre ripudiato, pur sapendo di derivare dalla stessa costola e di non poterne fare a meno.

E per chiudere prova a convincere chi ancora non lo ha fatto a leggere il tuo romanzo: perché leggere La Milano d'acqua e sabbia?

Perché parla di Milano, vive Milano e muore a Milano. Per chi non conosca il capoluogo lombardo, è l'occasione di scoprirne, dal basso, i lati oscuri e le psicopatie. Per chi invece viva ogni giorno il caos metropolitano, ho fiducia che costituisca una fotografia credibile e avvincente, con una trama ammissibile e dei personaggi attendibili. C'è chi ha divorato il romanzo in una giornata: la mia speranza è che dentro di loro sia rimasto qualcosa di unico e non solo una storia poliziesca. Tanti riferimenti a fatti e posti sono voluti e non casuali. I ristoranti, le vie e più in generale le sensazioni che ho cercato di trasmettere non sono un compendio di Tuttocittà e stereotipi da cronaca dei quotidiani, ma realtà tangibili da scoprire e, a seconda di come vengono presentati, da apprezzare o evitare.

Grazie Matteo per essere stato con noi, grazie di cuore, perché io che conosco Milano sono felice di aver letto il tuo romanzo e spero che con questa intervista molti altri possano conoscerlo e amarlo.