Adesso che più niente ha senso posso riaprire un’ultima volta la scatola blu. Sta da anni dentro il vecchio armadio in camera di mia madre. Spostandomi con la sedia a rotelle riesco a estrarla da sotto il mucchio di vecchi golf. Roba che avrei dovuto buttare via da tempo se fossi una di quelle persone che riescono a separarsi dalle cose. Ma per me anche le maglie tarmate, odorose di canfora e vecchia lavanda, sono importanti. Tutto quello che è stato con me o su di me nel corso degli anni, lo è. E certi indumenti sono frammenti di vita, così come le pagine strappate da un libro sono brani del testo.

Apro la scatola sulle ginocchia. E’ grande, tonda. Una sorta di cappelliera che un tempo ha contenuto un panettone enorme in confezione di lusso. C’era anche il nastro in tinta ma non era pratico e l’ho sostituito con la vecchia cinghia dei libri.

Io appartengo alla generazione che i libri li portava sul braccio, legati assieme. Chi se la ricorda più quella striscia di gomma con i ganci alle estremità? A noi liceali pareva il massimo della libertà. Roba da universitari!

La scatola blu è grande ma non contiene molto. Una vecchia Rolleiflex ammaccata, chiusa dentro la custodia di cuoio. Una busta di carta marrone con diverse foto. Un cubetto di porfido, souvenir di un’intifada milanese. Cinque rullini fotografici, due dei quali contrassegnati da una x incisa sul fondo del contenitore di plastica. Un vecchio golf a girocollo color salvia, con la manica sinistra impregnata di una sostanza che l’ha indurita come cartone. Sangue.

Il sangue di mio fratello. Sergio.

Mi interessano solo le foto e i due rullini con la X. Gli altri sono vuoti: le pellicole sono andate distrutte dopo essere state esposte alla luce prima dello sviluppo. 

Li trovo al tatto. In realtà, non so perché senta il bisogno di prenderli in mano, di toccarli, dal momento che tutte le immagini che contengono sono state stampate e si trovano nella busta. Però sapere che ci sono, mi tranquillizza sempre. 

Con fatica mi sposto verso la grande scrivania di noce nell’angolo della stanza. Poso la scatola e allineo le foto rispettando la sequenza degli scatti.

Foto numero uno. L’angolo in alto a destra è bruciato ma per il resto l’immagine è abbastanza nitida.

In primo piano ci sono due uomini. Sono in piedi, ai lati di un immenso portone spalancato. Dai gesti si intuisce che stanno chiacchierando.

Uno è un vigile urbano. La divisa scura con la bandoliera bianca e l’elmetto sono inconfondibili. L’altro è un agente di pubblica sicurezza. Anche lui è in divisa: giacca scura e pantaloni più chiari con il profilo scuro lungo la gamba.

Si vede che la foto è stata scattata al mattino di una limpida giornata di maggio. Una mattinata di quelle che a Milano arrivano solo dopo i temporali e sono così inaspettate che si stenta a riconoscere la città sotto quel cielo così pulito, colorato, luminoso. Il cielo nuovo di una città che sembra nuova anch’essa, ma naturalmente non lo è.

La luce, nella foto, è cruda, senza chiaroscuri, senza velature. Profili netti e affilati, spigoli vivi, ombre come buchi nella carta.

Faceva caldo al momento dello scatto perché il poliziotto ha il berretto in mano e si sta asciugando il sudore. Il viso, in controluce, è una macchia scura senza lineamenti.

La fotografia ha campo lungo e mostra un tratto della via, che è ampia, lastricata da onde di sampietrini perfettamente disegnate. Sullo sfondo si intravede la chiesa gotica di San Marco sovrastata dal campanile con la guglia a pan di zucchero.

L’atmosfera sembra congelata. Pochi passanti e un’automobile soltanto: il teleobiettivo ha fissato sulla pellicola la parte posteriore di una fiat 127. Posso leggere la targa anche senza l’aiuto della lente.

L’orologio stradale, perfettamente visibile, segna le otto e un quarto.

Sul retro della foto c’è un timbro:  Agenzia fotogiornalistica Sel-in. E la data: 17 maggio 1973.

Guardo l’immagine passandola sotto la lente da lettura. Le foto sono gli attaccapanni dei ricordi: immagini e dettagli sono i ganci a cui stanno appesi, uno sopra l’altro, volti, nomi, episodi. Ne levi uno e da sotto ne spunta un altro e un altro ancora. Ciascuno col proprio colore, il proprio odore. E il proprio dolore.

Questa foto, nella sua fissità, più che un attaccapanni è un intero guardaroba. Una zavorra pesante della quale non sono riuscito a disfarmi. Sergio diceva sempre che la memoria non ha bisogno di immagini per sostenersi. E lo diceva lui, che si guadagnava la vita scattando fotografie. Io con gli anni ho capito che le immagini sono invece il nutrimento di tutto quello che la memoria racchiude: gioia, amore, rancore. E odio. Tanto, tantissimo odio.

Dopo il temporale della sera precedente, quel mattino Milano si era risvegliata sotto un cielo terso. Come se la bufera avesse lavato via anche il ricordo delle battaglie urbane che si erano combattute pochi giorni prima nelle vie del centro. Stando alla fotografia, quel diciassette maggio la città sembrava voler dare di sé un’immagine di efficienza quieta e organizzata.

Ordine, lavoro, operosità. Come al solito.

Era un giorno feriale. Se non ricordo male, un giovedì. La foto è stata scattata all’ora di massima punta. Io c’ero e so bene quel che dico: quindici minuti soltanto per attraversare la città. Praticamente il deserto. L’aria, infatti, sembra immobile, rappresa.

- Passami un rullino nuovo.

- Subito

- Tieni, metti via questo.

Ogni volta che guardo le foto, penso a Sergio. E ogni volta che penso a Sergio risento negli orecchi la sua voce. Nitida, imperiosa, tesa. Le parole volano nell’aria, restano sospese. E portano ricordi. Un mucchio di ricordi sporchi, aggrovigliati come panni dentro il cesto della roba da lavare.

La voce d Sergio è chiara. Ma il suo viso non c’è. Per quanto mi sia sforzato in tutti questi anni, non sono più riuscito a ricostruire i suoi lineamenti. O, piuttosto, non sono più riuscito a riconoscere, nei lineamenti ricostruiti a memoria o ritrovati nelle fotografie, la faccia di mio fratello.

Quel mattino eravamo riusciti a sistemarci sul terrazzo dell’edificio di fronte. Sergio aveva pagato il figlio del padrone del bar perché ci lasciasse passare dal seminterrato.

- Zitti eh! Non ditelo in giro. E comunque, io non vi conosco.

- Tranquillo, siamo solo noi due. Non lo saprà nessuno.

- Seee, finché non vi scoprono! Ricordate, io non vi ho mai visto, a voi due. Sul terrazzo, Sergio aveva individuato una posizione magnifica fra due enormi vasi di pitosforo. Aveva drizzato il cavalletto e sistemato il borsone multi tasche, in modo da avere l’attrezzatura a portata di mano: macchine, obiettivi, filtri e rullini. Tutto pronto.

- Tu sali là sopra.

- Sopra dove?

- Lassù, sull’altana. Quella, la vedi? Dietro ci sono le scale.

- Sì, e poi cosa faccio?

- Niente. Guardi giù e scatti. Portati le pellicole.

- Perché non ci vai tu a fare le foto là sopra?

- Perché il parapetto è troppo basso e io sono troppo alto. Mi vedrebbero.

- E me, no?

- Tu sei almeno mezzo metro più basso di me.

Bisogna tornare un po’ indietro per capire perché noi due, Sergio e io, quel mattino di maggio ci eravamo appostati su quel terrazzo, proprio di fronte al portone presidiato dal vigile e dall’agente di polizia: il portone della questura di Milano in via Fatebenefratelli.

Eravamo lì per scattare fotografie. Cioè, le foto le scattava Sergio. Io gli portavo il borsone, gli passavo i rullini, gli preparavo le macchine. Ubbidivo agli ordini perché il capo era lui. A volte però, quando diverse cose avvenivano contemporaneamente, fotografavo anch’io con la mia Nikon. Generalmente badando a riprendere la scena da un punto diverso. Cioè da dietro.

Il davanti e il dietro, diceva Sergio. Noi siamo quelli del davanti e dietro. Resta solo da stabilire chi di noi è cosa.

E rideva.

Era bravo, mio fratello. Bravo a fotografare e bravo a indovinare il momento gusto per ogni scatto. Lui era fotoreporter free lance. Aveva messo su, insieme con me, una mini agenzia fotogiornalistica, la Sel-in, e lavorava per diversi quotidiani. Nel nostro archivio c’erano foto che erano documenti. Come quelle che avevamo scattato il pomeriggio del 23 gennaio 1973. Tre mesi prima.

Quel giorno cento agenti della Celere agli ordini dei vice questori Paolella e Cardile e del tenente Vincenzo Addante, avevano circondato l’università Bocconi mentre era in corso un’assemblea del movimento studentesco.

Arrivo degli agenti. Clic.

Cordone attorno all’edificio. Clic.

Blocchi stradali che chiudono le vie di fuga. Clic. Clic. Clic.

Intimazione dell’alt. Clic sulle facce tese e sulla posizione di attacco degli agenti.  

Fronte degli studenti. Clic.

Carica! Clic sugli agenti in corsa con gli scudi sollevati e i manganelli tesi.

Dopo la carica erano volati i lacrimogeni. Clic sulla nube che si alza.

Eravamo lì quel pomeriggio, Sergio e io. Lui con la Nikon. Io dietro, col borsone. Risento la gola che brucia, gli occhi che lacrimano per l’aria satura di vapori urticanti. Manca il respiro. Sto tossendo come un disperato quando arrivano gli spari.

- Corri, mi fa Sergio.

- Non ce la faccio!

Panico.

Mio fratello si gira. Sento che mi afferra da dietro. Con uno spintone mi butta a terra. Io sotto e lui sopra. Le persone, attorno a noi, ci sfiorano correndo.

Ho paura.

Ore dopo, un comunicato spiega che ad aprire il fuoco è stato un poliziotto “in preda a raptus”: parole del questore riferite diligentemente dai media. Io che c’ero, posso giurare che, raptus o no, la mira era perfetta. Quando la nube si è sollevata, sull’asfalto c’erano due corpi.

Roberto Franceschi. Studente. Cranio trapassato. Per lui, fine della protesta, fine di tutto. Roberto Piacentini. Operaio. Polmone perforato. Gli restava un soffio di vita e lui lo tratteneva ansimando quando sono venuti a portarlo via in barella, ammanettato. Perché allora, protestare era un reato da galera.

Un altro salto indietro: dodici aprile, stesso anno, il 1973. Una giornata freddissima, bagnata. E non solo di pioggia. Mio fratello direbbe che l’onda lunga di quel che accadde allora, ci sta infradiciando oggi.

Di quella giornata, ricordo ogni minuto. Ricordo il vento che ci tirava in faccia manciate di pioggia. Ricordo il freddo, la stanchezza, la paura e le botte.

Noi del presidio eravamo in piedi fin dall’alba. Mio fratello aveva la Nikon appesa al collo, ben nascosta sotto il giaccone. Io mi ero imbottito le tasche di rullini. Tutti e due avevamo il nostro bravo fazzoletto annodato al collo, pronto per essere tirato su, a coprire naso e bocca.

Quel pomeriggio, in piazza Tricolore si sarebbe dovuto tenere il comizio del deputato missino Ciccio Franco, quello di “boia chi molla” della rivolta di Reggio del ’70. Una sommossa culminata con le bombe sul “treno del sole”.

Milano come Reggio? Mai più!

Il questore aveva vietato tutto: comizio e presidio democratico. Reggio nell’estate di tre anni prima era stata devastata. Stazione ferroviaria distrutta, botteghe saccheggiate, barricate per le strade, treni rimasti a cuocere sotto il sole intere giornate...  In quella circostanza si era sfiorata la catastrofe. Logico che a Milano non si volesse il bis.

Niente corteo, niente comizio. Ma l’atmosfera è rovente fin dal mattino. Appena si sparge la notizia che Ciccio Franco è in città ma non potrà parlare, il Movimento sociale suona l’adunata. I neri accorrono. Gli agenti li fronteggiano.

Avvertimento, carica, lacrimogeni, manganellate.

Solito copione.

Il caos.

Anzi, il kaos.

Approfittando della spessa cortina di fumo, i missini Vittorio Loi e Maurizio Murelli lanciano una granata. Mira perfetta. L’ordigno vola dritto, entra in un gippone ed esplode. L’agente alla guida si chiama Antonio Marino e ha poco più di vent’anni. Per recuperare il suo corpo i necrofori sono costretti ad arrampicarsi sugli alberi, a staccare i brandelli di carne che pendono dai rami. 

Quella sera, a battaglia conclusa, insieme con i feriti vengono raccolte dall’asfalto diverse tessere di appartenenza a partiti della sinistra. E il dettaglio non è di poco conto. Parla di disordine organizzato. Di premeditazione. Di depistaggio.

L’ordine di confondere le acque, impartito subito dopo piazza Fontana, non è stato revocato. E non lo sarà mai più.

Mio fratello diceva una cosa: sento puzza di Servizi segreti. Lo diceva allora, anno 1973. Oggi so che aveva ragione. La prova? Meno di una settimana prima, cioè il sette aprile, il missino Nico Azzi si era fatto molto male giocando con un detonatore. Chiuso dentro la toilette di un treno, lo stava applicando a una bomba ad alto potenziale. All’ospedale, l’unico documento trovato nelle sue tasche è una tessera dell’extrasinistra, simile a quelle rinvenute in strada il dodici aprile.

Me lo immagino, il Nico, aspirante bombarolo con la jella attaccata alle scarpe. E’ chiuso dentro una toilette di seconda classe del rapido Torino-Roma e cerca di collegare i fili, ma sbaglia un contatto e il congegno gli esplode in faccia. Se fosse stato più attento la sua bomba avrebbe anticipato la strage dell’Italicus e il massacro alla stazione di Bologna.

Foto numero due. E’ un po’ sovraesposta e il fondo è leggermente ingiallito.

Stesso portone, ma a piantonarlo adesso c’è solo il poliziotto. Il vigile è andato chissà dove. Più avanti si saprà che si era spostato in via Manzoni a chiamare il carro attrezzi per far rimuove un’auto parcheggiata in divieto di sosta.

Il viso del poliziotto qui si vede benissimo. Sui vent’anni, capelli neri, lineamenti, regolari, ma senza alcun dettaglio che li faccia ricordare. Una faccia qualunque.

L’obiettivo ha inquadrato anche un gruppo di persone. Passanti che si ritrovano a percorrere per caso lo stesso tratto di marciapiedi, tutti diretti  verso la questura. 

Ben visibile, in testa al gruppo, una ragazza. Lo scatto l’ha sorpresa di spalle, ma si intuisce che è giovane dalla corporatura snella e dall’abbigliamento tipico dei ragazzi di allora: jeans e casacca chiara di tela indiana, arricciata allo scollo e alle maniche. Praticamente un’uniforme.

La ragazza ha una borsa a tracolla. I capelli lunghi e scuri, sciolti sulle spalle in morbide onde, la fanno immaginare graziosa.

L’orologio stradale è preso un po’ di sbieco ma l’ora è perfettamente leggibile: sono le nove e venticinque.

E’ una strana calma quella che sale da questa foto.

Sì, mi ricordo che dopo l’uccisione dell’agente Marino, la città era stata blindata. Reparti della Celere e dei carabinieri presidiavano università, sedi di partito e tutti gli edifici considerati obiettivi sensibili. Gli agenti di polizia erano rabbiosi e non facevano più distinzioni. Destre e sinistre erano tutt’uno.

Di quei giorni mi è rimasta dentro una sensazione di confusione. Oltre naturalmente al rancore. Nessuno sapeva quando, ma tutti erano più o meno certi che prima o poi la Grande Rabbia  sarebbe esplosa. E avrebbe portato alla svolta. Autoritaria, naturalmente. Mio fratello diceva che avrebbe preferito non esserci quando fosse successo. E, beh, in questo è stato accontentato.   

Chi ha lanciato l’ordigno contro il gippone? Poche ore dopo c’è già una taglia. Cinque milioni di lire offerti dal Movimento Sociale, sicuramente cascato nella trappola delle tessere rosse. E così quella sera stessa saltano fuori i colpevoli: due teste calde.   

Loi confessa e poi ritratta. Né lui né Murelli spiegano come un ordigno bellico in dotazione alle forze armate fosse arrivato nelle loro mani. L’arresto dei due missini segna comunque una svolta: una pista di destra viene ufficialmente aperta e quindici giorni dopo, il 27 aprile, si apre un’inchiesta che viene affidata al giudice istruttore Guido Salvini.

Il dottor Salvini prende molto sul serio il compito di individuare i mandanti e la provenienza delle bombe, con ogni probabilità trafugate da un deposito militare.

Sento puzza di Servizi, diceva mio fratello. E infatti l’inchiesta del dottor Salvini si incaglia subito perché, nonostante stia indagando sulla morte di un agente di polizia in servizio, non ottiene la minima collaborazione dai vertici. Figuriamoci dal ministero.

Top secret.

Bocche cucite.

Archivi blindati.

E’ in questo clima di confuse turbolenze che si arriva a quel giovedì 17 maggio dell’anno 1973. Un giorno che avrebbe segnato la vetta di un’escalation, se una vetta ci fosse stata. Perché, come diceva Sergio, salita e discesa puntano sempre all’infinito.

Foto numero tre. Gli angoli a sinistra sembrano tagliati via bruciati dall’esposizione alla luce.  

Stessa strada, ma i passanti adesso sono più numerosi. Non ancora una folla, ma i marciapiedi sono discretamente animati, soprattutto quello sul lato del portone, che è ancora presidiato dallo stesso agente. L’obiettivo lo ha sorpreso nell’atto di sbirciare l’orologio che ha al polso, nonostante abbia quello pubblico proprio davanti agli occhi.

Ben visibile, quasi in primo piano, c’è un uomo stempiato. Ha i capelli scuri, ondulati, arretrati sulla fronte. Una corta barba gli scende dalle basette e gli circonda il mento. Porta un giubbetto di cotone chiaro e pantaloni scuri. Ha una borsa floscia a tracolla.

L’uomo è fermo in mezzo alla strada,  proprio di fronte all’agente. E si sta guardando attorno. L’obiettivo ne ha colto l’espressione un po’ incerta. La sua, è la faccia di chi non sa bene cosa debba fare. Sembra che stia cercando di individuare qualcuno nella folla, ma l’atteggiamento è un po’ perso. Lo sguardo, spiritato.

Le lancette dell’orologio stradale segnano le dieci meno un quarto.

Tutto tranquillo. La foto non mette in luce segni di nervosismo. Però qualcosa oltre quel portone, dentro il cortile, sta succedendo. Lo dice l’assembramento attorno all’edificio e lo dicono le facce delle persone che affollano i marciapiedi, tutte rivolte verso la stessa direzione.

- Ehi, lo sai chi è quello? - mio fratello si è alzato in piedi e scruta verso l’alto. Ma ha il sole negli occhi. Quando capisce che lo sto ascoltando indica col dito la folla in basso.

- Quello chi?

- Il tipo con la barbetta e il giubbino chiaro. Ha un borsone di tela militare appeso alla spalla. Lo vedi? 

- Sì, credo di sì. Chi è?

- Meglio per te se non lo sai. Sta giù, scemo! Non devono vedere che siamo qui.

- Cosa vuoi che faccia?

- Foto. Più che puoi. Cerca di prendergli la faccia e zuma su chi gli sta intorno.

- Ma si può sapere chi è?

- Spicciati perché dobbiamo sloggiare. Qui, fra poco, succede qualcosa. Poco ma sicuro. 

Sergio non scherzava. Sento correre un brivido lungo la schiena perché in queste cose lui ci prende sempre. Comunque, andando un po’ a ritroso, chiunque avrebbe potuto fare previsioni.

Era così alta in quei giorni la soglia del rischio che da settimane il comitato centrale del Partito comunista di Enrico Berlinguer chiedeva aiuto a Mosca. Ho conservato una copia in carta riso della bozza inviata al traduttore. E’ parecchio ingiallita ma leggibile. La cerco nel raccoglitore dei documenti importanti. Eccola La direzione del Partito comunista italiano, nella persona del compagno A. Cossutta, ha chiesto al Cc del Pcus l'assistenza per quanto riguarda l'avvio di collegamenti radio e la preparazione di documenti (carte d'identità, passaporti e altro) nel caso la situazione politica in Italia dovesse aggravarsi. La direzione del Pci chiede, fra l'altro, che vengano consegnati al partito tre radiotrasmettitori, cifrari per i collegamenti radio e miniattrezzature per la preparazione di documenti; chiede inoltre di ritrasmettere alle varie città italiane messaggi cifrati della direzione del partito nel caso che questo dovesse passare alla clandestinità”.

Quello che a sinistra si temeva era una nuova strage modello Peteano e piazza Fontana, che avrebbe portato alla svolta antidemocratica: il golpe di cui tanto si parlava nei salotti e nei circoli operai, nelle assemblee degli studenti e nelle sedi fatiscenti dei gruppuscoli.

- Ascolta me, - diceva mio fratello. – Da un parlamento pieno di ex repubblichini, tutti con la fiamma accesa sotto il sedere, cos’altro potremmo aspettarci? Ho paura che prima o poi quelli tornano.

Il timore di Sergio non era poi così infondato se l’11 maggio, al Cremlino, il Comitato centrale del PCUS mette all’ordine del giorno una nota intitolata Assistenza speciale al Partito comunista italiano.

Io ho capito solo molti anni dopo, quando gli elenchi della P2 e gli apparati di Gladio sono diventati pubblici, quando è trapelato qualcosa a proposito dell’esistenza nel nostro Paese di un apparato supersegreto chiamato in codice “noto servizio” o “Anello”, che la paura del golpe negli anni ’70 non era affatto immotivata.

Sergio invece lo aveva intuito prima. Gli avevo dato del visionario perché sospettava che da tempo in Italia si combattesse una sorta di guerra sotterranea a colpi di attentati e disordini menzogneri. Ma aveva ragione lui. Quella guerra era in atto davvero. Si chiamava Stay behind, “dietro le linee”, ovvero sotto copertura. E perseguiva una precisa strategia: istigare alla violenza le opposte fazioni di destra e di sinistra attraverso azioni di guerriglia, provocazioni e attentati che avrebbero dovuto generare nella popolazione instabilità, paura, voglia di ordine: tutte condizioni che avrebbero spianato la strada a un intervento militare modello Grecia 1967. Allora, finalmente, generali e colonnelli con la scusa di riportare sicurezza nelle strade avrebbero definitivamente sbarrato la strada alle sinistre.

Foto numero quattro. Molto sbiadita.

Ancora il portone. Accanto all’agente c’è lo stesso vigile di prima. E’ tornato al suo posto. Lo scatto lo ha sorpreso mentre sta parlando al walkie talkie.

Il numero delle persone in via Fatebenefratelli è aumentato. Qualcuno sta immobile sul marciapiedi in atteggiamento di attesa. La maggior parte è trattenuta da una barriera di cavalli di Frisia collocati in modo da formare un corridoio.

Auto blu. In corteo. Una delle berline sta entrando nel portone, altre la seguono. Il fatto che molti stiano invadendo le carreggiate fa supporre che il traffico sia stato deviato.

L’uomo con la barba non si vede.

Quello che invece si vede benissimo è l’orologio. E’ in primo piano e segna le dieci e trentacinque.

I timori della dirigenza comunista non erano affatto infondati. Ripensandoci mi viene da ridere. Come si è fatto a non capire che tutto era già scritto?

Due giorni prima di quel 17 maggio, alle sei e trenta del mattino, a Treviso succede qualcosa. Uno strano personaggio, un aristocratico con amici a destra e a sinistra, il conte Pietro Loredan Gasparini di Volpago del Montello, noto come “Conte rosso” non tanto per le sue frequentazioni a sinistra quanto per l’ottimo vino stivato nelle sue cantine, dopo una notte passata a tavola con gli amici fa una telefonata interurbana dal suo ristorante "La Falconera".

Va detto che il conte è molto amico di Franco Freda e il suo locale è il punto di ritrovo abituale dei camerati. Non degli esagitati che manganellano i rossi per le strade, ma dei personaggi di alto rango, gente che può pagare per una cena quello che un operaio guadagna in una settimana.

A quell’ora barbara di martedì 15 maggio, l’insonne Loredan sente il bisogno urgente di chiamare Ivo Dalla Costa a Roma. I due non sono amici, si conoscono appena. Costa è un funzionario del Pci e si scoccia non poco di essere stato tirato giù dal letto. Ma appena sente quello che il conte ha da dire balza su come una molla.

- Me spiase se ti go dato la sveglia, - dice il conte all’imbambolato Dalla Costa. - Ma xe una cosa seria...

- Che? Che stai a ddi? - Dalla Costa balza su dal letto. Frastornato.

- Un attentato, caro mio, - spiega Loredan agitato. - Fra quarantotto ore, minuto più minuto meno, a Milano salterà tutto in aria. Tireranno una bomba contro un'alta personalità del governo, Il botto si sentirà anche a Roma. Ne parlerà tutta l’Italia. Anzi, no, l’Europa, il mondo. Mi go dito tuto. Adesso savé voaltri cossa che xe da far. Me spiase ma l'è mejo averghe paura adeso che spaènto domàn.

Passato lo sbigottimento e bevuto un litro di caffè nero per schiarirsi le idee, Ivo Dalla Costa, che evidentemente sa quali siano le fonti di informazione del conte e quanto siano attendibili, avverte il deputato del Pci Domenico Ceravolo il quale, a sua volta, chiama Giancarlo Pajetta. I due saltano sui taxi. Destinazione aeroporto. Primo volo per Milano.

Sbarcano a Linate e non perdono tempo. Altro taxi. Tribunale. 

Ceravolo e Pajetta non sono sprovveduti. Sanno bene chi si sta occupando di cosa e chi sia la persona giusta da allertare. Non vanno dal questore e dal prefetto ed evitano come la peste i vari comandi dell’Arma.

Ah, ah, ah, mi viene da ridere se penso a chi c’era negli elenchi della P2! Mio fratello avrebbe ribadito il suo concetto preferito: alla fine tutto torna.

Dunque, i due deputati comunisti puntano dritti sulla procura. A riceverli è il giudice Emilio Alessandrini.

Che il magistrato li abbia ricevuti nel suo ufficio è un fatto assodato: ci sono diverse testimonianze in proposito. Ed è anche stato accertato che il colloquio non è durato più di una decina di minuti perché il magistrato quel mattino aveva in agenda un’udienza importante. Un usciere che li ha visti lasciare la stanza, dirà che tutti e tre avevano “le facce spaventate. Anche il dottor Alessandrini che, per come lo conosco io, non si impressiona facilmente”.

Facce spaventate, atteggiamento inquieto e frettoloso. L’usciere ne è rimasto così colpito che ricorda bene quell’incontro e più avanti testimonierà descrivendo con grande precisione i due visitatori.

«Uno era alto e magro, con la faccia scavata. Un bell’uomo: peccato che avesse così pochi capelli...  L’altro invece era moro... Mi ricordo la sua faccia perché aveva una bella fossetta nel mento... Erano vestiti di grigio, eleganti... due signori...».

Dopo la visita dei due parlamentari comunisti, si presume che il giudice non abbia perso tempo, abbia informato subito il capo della procura e successivamente il prefetto e il questore. Eppure di quei rapporti non si è trovata traccia. E in seguito Emilio Alessandrini, non ha potuto rendere alcuna testimonianza perché nel 1979 il commando di Prima Linea guidato da Marco Donat Cattin gli ha chiuso la bocca per sempre.

“Tutto torna”, diceva Sergio. “Tutto torna”.

Una cosa comunque è certa: due giorni dopo, nessuno in città si sveglia con la sensazione che ci sia più vigilanza del solito, anzi! Non sono presidiati nemmeno gli obiettivi sensibili. E le fotografie che ho sotto gli occhi lo dimostrano: quel mattino davanti alla questura c’erano solo due ragazzi in divisa: il vigile urbano che gioca col suo walkie talkie e il poliziotto che guarda l’ora.

Intanto la strada si sta intasando. La gente si accalca davanti ai cavalli di Frisia per sbirciare dentro le auto blu.

- Chi è?

- Mah, roba di politica...

- Ma quello là non è il sindaco?

- Sì. E’ l’Aniasi. E’ venuto anche il ministro. C’è una inaugurazione mi pare.

- Quale ministro?

- Ah non so. Par mi l’è tut l’istess. Io sono venuto per far una denuncia e adesso mi tocca aspettare, - brontola un signore anziano, visibilmente scocciato. 

- Io invece sono qui per il passaporto, - dice la bella ragazza in jeans. Quella con i capelli scuri sulle spalle. - Chissà quanto dovremo aspettare.

L’attesa non sarà lunga.

Foto numero cinque. Molto nitida.

Adesso nella via c’è più animazione. Quasi una folla. Una berlina blu dall’aria molto ufficiale spunta dal portone. La cerimonia dentro il cortile della questura è finita? Almeno, così pare. Le auto si stanno incanalando nel corridoio delimitato dai cavalli di Frisia. Più che incuriosite, le persone in strada sembrano infastidite. Osservando bene con la lente, si nota che molti, invece di guardare verso il corteo che si sta avviando, chiacchierano fra loro.

Non si può superare la barriera.

Non si passa.

Che seccatura!

In questa foto è ricomparso l’uomo con la barba e il giubbino chiaro. E’ pigiato contro il muro, proprio di fronte al portone. Ha il collo teso sopra il mare di teste e sembra che cerchi di guadagnare una posizione migliore.

C’è qualcuno accanto a lui.... ha il braccio destro teso all’indietro a ricevere qualcosa. O a farsi spazio. Ma è solo una sensazione perché la mano non si vede. C’è solo la torsione del busto a suggerire il gesto. E un viso che sovrasta la folla girato nella sua direzione. 

L’orologio, sempre perfettamente a fuoco, segna le dieci e cinquanta.

- Di’, l’hai visto? Hai scattato? - la voce di Sergio è concitata.

- Sto scattando. Ma chi è?

La risposta di mio fratello si frantuma come tutto il resto attorno a noi perché in quel momento arriva il boato.

L’uomo col giubbino ha appena lanciato la granata che aveva nella borsa o che, più probabilmente, qualcuno gli ha passato. Una bomba ananas a frammentazione che ha centrato il muro di fronte.

All’esplosione seguono l’onda d’urto e poi il risucchio. Infine cala il silenzio totale. Lunghissimi minuti senza alcun rumore, come se si fosse spento l’audio.

Sono ancora acquattato sull’altana ma a mani vuote perché la Nikon mi è stata strappata via dallo spostamento d’aria e si trova a qualche metro da me. A un tratto sento il silenzio che si anima. Rumore di passi. Qualcuno sta salendo sulla terrazza.

Recupero la macchina. Anche se sono frastornato ho ben chiara nella mente la raccomandazione di Sergio, che è anche il suo primo comandamento: “Metti in salvo i rullini”. 

La Nikon sembra a posto. Riavvolgo la pellicola. Ci metto troppo tempo e quando riesco a riporre il rullino nella sua scatolina nera, sulla terrazza sotto di me sono comparse due persone.

Alla mia sinistra c’è una vasca di cemento che contiene una pianta di pitosforo. Affondo il cilindretto nero contenente il rullino nel terriccio e ricarico la Nikon tenendomi accucciato. Da sotto mi arrivano voci concitate.

- Dammi la macchina. – Voce  nasale.

- State scherzando? – Mio fratello.

- No. Chi ti ha dato il permesso di salire quassù? - Voce rauca.

- Sono un fotoreporter, non potete... - Sergio.

- Sì che possiamo. - Ancora la voce rauca.

- Ma che fate? I rullini no!

- Quali rullini? Qui non ci sono rullini. Non ci sono mai stati. Hai capito, stronzo? - Voce nasale.

- Adesso tu scendi con noi.  Ancora la voce nasale.

- Non ci penso nemmeno. Non potete...

Ancora una volta le parole di Sergio si frantumano nell’aria perché quello che mi arriva nitido, secco, inaspettato, è lo schiocco assordante di uno sparo.

Sono così stordito e assordato dall’esplosione di poco prima che lì per lì non percepisco nemmeno la direzione del rumore. Ci metto un po’ a capire e resisto all’impulso di alzarmi per guardare perché le gambe non mi ubbidiscono.

- Via, via! - Voce nasale.

- Aspetta ‘n attimo. ‘Sto stronzo...

- Ho detto via!

- Se non era per il riflesso dell’obiettivo, questo qua ci faceva fessi...

- Ma cosa stai cercando?  

- Momento! Cerco i mie occhiali. — voce rauca. - ‘Sto stronzo di merda me li ha levati. Mo’... 

La realtà dei fatti mi colpisce come una frustata. Hanno ammazzato Sergio. Non mi passa neanche per la testa che fra un minuto potrebbero salire a cercare me. E comunque non c’è alcun riparo, a parte la vasca di cemento col pitosforo che però non serve a niente. Con fatica mi sollevo sul parapetto e li vedo. Sono proprio sotto di me. Sono in due, naturalmente. Voce Rauca e Voce Nasale. Mio fratello è a terra, a faccia in giù. Ha un braccio sollevato come per proteggersi la testa. L’altro è sotto il corpo. Attorno al capo si sta allargando una pozza d sangue. Uno dei due gli sta schiacciando collo e dorso con un piede, come se volesse tenerlo giù, anche se si vede benissimo che Sergio non potrà più alzarsi.

Vedo che mi voltano la schiena perché tutti e due stanno guardando in basso, verso il palazzo della questura. Immagino  che via Fatebenefratelli sia in macerie. Non so bene cosa sia successo. Una bomba come minimo.

Piazza Fontana numero due.

Morti. Chissà quanti. E feriti. Cominciano a salire urla e lamenti.  Sinceramente però in quel momento non me ne frega niente. Mio fratello è morto. Io sto per morire. Che altro?

I due non mi stanno guardando. Oso un po’ di più. Sollevo prima la testa, poi le mani con la Nikon quel tanto che basta e... proprio mentre sto per scattare, uno dei due, quello che ha il piede sulla schiena di Sergio, si volta. Forse ha sentito qualcosa. La foto lo prende in pieno viso, con la luce del sole in faccia che lo acceca.

Foto numero sei. Nitida, messa a fuoco perfetta.

Un uomo sui trentacinque, quarant’anni, non troppo robusto ma con il torace massiccio, è stato sorpreso nell’atto di sollevare il viso per guardar in alto. Il sole lo illumina in pieno scolpendone i tratti e facendo risaltare i lineamenti come se fossero disegnati a carboncino. Strizza gli occhi in due fessure contro la luce che lo acceca, ma è perfettamente riconoscibile. E anche se la foto presa dall’alto gli accorcia la figura alterandone la sagoma, si capisce che è molto alto. Ed è anche chiaro che tiene il piede premuto contro il dorso dell’uomo che ha appena assassinato perché nella destra stringe ancora l’arma.

Ha fatto carriera quell’uomo. E’ diventato un personaggio importante. Uno di quelli che stanno a cavallo fra informazione e politica passando di continuo, legislatura dopo legislatura, dal giornalismo alla camera dei deputati. Nel 1973 stava a sinistra. Era uno di noi. Poi, un lungo soggiorno al centro e infine l’approdo a destra. L’andirivieni è durato molti anni. Adesso fa l’opinionista blandamente schierato con l’opposizione. E’ spesso in tivù, ospite dei programmi di approfondimento. Ha una faccia rassicurante e si distingue perché durante le discussioni più accese mantiene sempre un tono pacato.

Io sono l’unico a sapere che è un assassino. 

Dopo lo scatto, sono venuti a prendermi. Ma ero pronto: con la Nikon appesa al collo, sono saltato oltre il parapetto, atterrando sul terrazzo accanto. Un salto di cinque metri che da un lato mi ha salvato la vita, ma dall’altro mi ha inchiodato alla sedia a rotelle. Frattura delle vertebre lombo sacrali. Lesione spinale irreversibile. Paralisi dall’ombelico in giù.

Non hanno osato inseguirmi oltre, perché ormai da sotto, cominciavano ad arrivare gli ululati della autoambulanze e le sirene dei pompieri. L’ultimo pensiero, prima di perdere i sensi, è stato che mio fratello ancora una volta ci aveva preso. 

- Inaugurano il monumento al Calabresi. Di sicuro qualcosa di grosso succede, - aveva detto un paio di giorni prima. - Ti va di venire con me in un posto sicuro a fare le foto?

Quel mattino, nel cortile della questura, si doveva inaugurare il busto del commissario Calabresi, assassinato un anno prima, alla presenza di tutte le autorità cittadine e del ministro degli Interni Mariano Rumor, arrivato apposta da Roma. A scagliare l’ordigno è stato Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico con la grande A di Anarchia tatuata sul braccio, in realtà informatore dei Servizi: Sifar e Sid. Il bersaglio è proprio il ministro, “odiato nell'ambiente di destra avendo ostacolato i progetti di mutamento istituzionale in Italia ed essendosi mostrato ostile alla destra”, così riferisce nel corso di uno dei tanti processi, uno degli imputati, credo Vincenzo Vinciguerra, reo confesso della strage di Peteano.

Ma forse non è la verità.

Non tutta la verità, almeno.

Di sicuro, lo scopo è fare più morti possibile.

Ecco cosa dice Carlo Maria Maggi, un altro imputato: “Bisognava utilizzare Gianfranco Bertoli che era una persona disposta a tutto.  Se si fosse riusciti a reclutarlo, ci sarebbe stata per l'azione una "copertura" anarchica dinanzi all'opinione pubblica, che avrebbe funzionato come aveva funzionato in passato e cioè per Piazza Fontana. Anche in questo caso, infatti, l'opinione pubblica, avrebbe continuato a dire "sono stati i soliti anarchici!".

Che non fossero stati i soliti anarchici, io lo so da sempre. Cioè, lo so da quando, recuperate con l’aiuto di un amico fidato le pellicole che avevo nascosto nel terriccio, ho scoperto che nella foto numero cinque, accanto all’uomo con la barba, identificato con assoluta certezza come Gianfranco Bertoli, c’è una persona di cui è ben visibile il volto. Una persona che, dalla posizione del busto, sembra che si stia allungando verso il braccio di Bertoli teso all’indietro.

Il gesto non è chiaro, ma si può facilmente intuire che l’uomo gli stia passando qualcosa.

Cosa, se non la bomba ananas?

Chissà!

Comunque, quell’uomo è la stessa persona che la mia Nikon ha catturato con il suo ultimo scatto.

E’ l’assassino di mio fratello.

L’attentato alla questura lascia sul terreno quattro corpi dilaniati. Federico Massarin, anni 30, l’agente di polizia che presidiava il portone; Gabriella Bortolon, anni 23, la ragazza del passaporto; Giuseppe Panzino, anni 64, il pensionato che doveva fare la denuncia; Bertolazzi Saida, anni 61, una casalinga capitata lì per caso.

Ai morti va aggiunta un’ottantina di feriti, alcuni dei quali molto gravi. Fra di loro c’è anche il vigile urbano Aldo Bernareggi, l’uomo con l’elmetto bianco e il walkie talkie che presidiava il portone della questura insieme con l’agente Massarin. 

Il bilancio dell’attentato è pesante ma, tutto sommato, piuttosto contenuto rispetto agli effetti che avrebbe potuto avere perché  Bertoli sbaglia mira e invece del corteo di auto blu colpisce il muro.

Pura fatalità? Forse, ma non soltanto. Vediamo i fatti. 

Il sedicente anarchico è alcolista. Il mattino del 17 maggio, gonfio di droga, arriva sul posto troppo presto.

C’è tempo, pensa.

E lì vicino occhieggia, irresistibile, l’insegna di un bar.

Forse, un goccio...

Non dovrebbe bere, e lo sa. Ma il bisogno è troppo forte.

Quando torna al suo posto con un bel po’ di alcol in corpo, non riesce più a riprendere posizione perché nel frattempo si è radunata la folla. Si accomoda dove può. Ma il lancio è troppo lungo.

Per questa strage, considerata a torto “minore” rispetto a quelle di piazza Fontana, Italicus, stazione di Bologna, nessuno, a parte l’esecutore materiale Gianfranco Bertoli, condannato all’ergastolo, ha pagato e pagherà.

L’iter processuale è interminabile perché le indagini si incrociano con quelle sulla strage del 1969. A indagare è il giudice Antonio Lombardi che, con una sentenza di primo grado arrivata nel 2000, condanna all'ergastolo per strage i neofascisti Carlo Maria Maggi, Giorgio Boffelli, Francesco Neami, Amos Spiazzi, e a 15 anni per depistaggio il generale del servizio segreto militare, Gianadelio Maletti. Segue una sentenza d'appello del 2002 che ribalta tutto, smentendo l'istruttoria-Lombardi e assolvendo i neofascisti.

Nel 2003 arriva la sentenza della corte di Cassazione, che annulla quella pronunciata in appello.

Infine, la sentenza del 22 febbraio 2005, conferma l'assoluzione per Maggi e i neofascisti per “insufficienza di prove” (art. 530 c.c.p.) anche se i giudici, nelle motivazioni, riconoscono che Bertoli “...non agì perché mosso dalla propria scelta ideologico-politica di anarchico individualista, come lo stesso ha sempre sostenuto, bensì fu solo l'esecutore materiale dell'attentato, in attuazione di un incarico da altri affidatogli”.

Altri, chi?

“È ragionevole e corrispondente a una valutazione logica dei dati di fatto accertati”, scrivono i giudici nella stessa sentenza, “ritenere «probabile» che la strage sia stata organizzata «dal gruppo ordinovista facente capo a Maggi [...]unica formazione in grado di agire concretamente, di compiere attentati”.

Dunque, non ci sono prove che colleghino Maggi a Bertoli, ma solo un ragionevole sospetto che siano stati “altri”, ovvero esponenti della fazione di estrema destra Ordine Nuovo, a incaricare il sedicente anarchico di lanciare la bomba.

Niente prove, tutti assolti.

Rimetto le foto nella busta trattenendo solo uno dei due rullini contrassegnati dalle X e precisamente quello che contiene la pellicola con l’ultimo scatto della Nikon.

Ieri se n’è andata l’ultima persona a cui ero legato su questa terra. Mia madre. Adesso sono libero.

Domani manderò il rullino allo studio fotografico per farne stampare tante copie. Intendo spedirle ai principali quotidiani europei, alle televisioni, alla procura della repubblica e, naturalmente, alla Commissione parlamentare Stragi.

Dopo le assoluzioni in Appello, il sostituto procuratore generale Laura Bertolè Viale ha presentato ricorso in Cassazione. Con questo nuovo documento e con le prove in mio possesso, consistenti in un golf macchiato di sangue e un paio di occhiali rotti, quelli che mio fratello ha strappato a uno degli assassini e che, in seguito, sono e che   (come li ha recuperatigli occhiali?) sui quali immagino che ci siano le impronte digitali, sono sicuro che il ricorso verrà accolto.

A Roberto Franceschi, a Claudio Varalli, a Giannino Zibecchi, Ad Antonio Marino, ai morti  di Reggio Emilia, alle vittime di tutte le stragi dal dopoguerra a oggi...

... y por las calles la sangre de los niños

corría simplemente, como sangre de niños. (Da Explico algunas cosas, Pablo Neruda, 1936.)

Questo lungo  racconto è, nel suo insieme narrativo, un’opera di fantasia. Quindi, benché sia inserito in un episodio reale della nostra storia, benché citi personaggi realmente esistiti e tuttora in vita, benché si rifaccia a documenti processuali ormai pubblici, non ha, per quanto riguarda i personaggi principali, alcun riscontro con la realtà. Quindi, ogni riferimento a persone reali è da ritenersi puramente casuale. A.M.