IL CINEMA DELLA YAKUZA

Questo potrebbe considerarsi il “capitolo perduto” di Dragons Forever. In realtà tra aggiornamenti e correzioni il volume raggiungeva già un numero di pagine ragguardevole. Lo yakuza–eiga, il cinema della mafia giapponese, non è poi - strettamente parlando - un filone del genere marziale anche se di spade e duelli abbonda. Consideratelo una ghiotta introduzione al genere che forse qualcuno non conosce o ha liquidato come un’accozzaglia di urlacci e sganassoni. Non è vero. Il cinema marziale ha molte facce e racconta storie. Complesse, terribili, affascinanti.

L’Oriente, il Giappone in particolare ma non solo, è da molti anni al centro della mia esistenza. Ho viaggiato molto tra il Sudest asiatico e il Giappone, ho vissuto esperienze formative sia sotto il profilo personale che professionale.

Di fatto il mondo della mala giapponese, la Yakuza, ha influenzato non poca parte della mia produzione come autore. Dapprima le conoscenze in questo campo erano ristrette a qualche articolo, un paio di film- occidentali per di più- e rari documentari. Immagini e flash, più che altro. Con l’esperienza diretta del viaggio ho avuto l’occasione di vedere i luoghi e da questi sono nate altre ispirazioni, tracce da seguire.

La riscoperta di questa tradizione mitica avvenuta in occasione dell’arrivo anche sul mercato occidentale di pellicole originali in seguito al successo di Kill Bill di Tarantino mi ha spinto a rivedere film, rileggere libri e fumetti ma, soprattutto a rammentare il mio di viaggio nell’impero del Sol Levante alla ricerca delle radici della Yakuza. Sgombriamo il campo da equivoci. La mala nipponica, come quella siciliana, russa, cinese o quant’altro è una faccenda da delinquenti e questi hanno sempre cercato di alimentare l’idea fuorilegge che ruba ai ricchi per dare ai poveri.

In Giappone tutto ciò s’è fuso con la tradizione del Bushido, il codice d’onore dei samurai e l’immagine idealizzata del guerriero orientale che in Occidente ha sempre avuto successo. Va bene, la finzione – narrativa e cinematografica - può consentirci di trastullarci in tali modelli, ammirarli persino, ma la realtà è diversa.

E, considerata la new wave dei registi giapponesi e l’occhio brutale e disincantato con cui affrontano l’argomento è necessario guardare questa realtà per capire il mito che si è sviluppato intorno a essa. Più di ogni altro Fukasaku Kinji (regista culto di Tarantino che a lui si è ispirato più che al Kung Fu come è stato - non del tutto correttamente - detto in Italia) ha saputo negli anni ’70 riassumere certi aspetti realistici della Yakuza pur mantenendo l’epicità del racconto. Di cinema parleremo più specificatamente più avanti ma film come Fight without Jingi (liberamente tradotto come “combattimento senza codice d’onore”) e Graveyard of Morality (il cimitero della morale) sin dai titoli esprimono quella brutalità che ha caratterizzato la storia della Yakuza e nello stesso tempo evidenziano la disperata necessità dei suoi appartenenti di divulgare un’immagine cavalleresca per acquisite un rango sociale negato loro dalla storia. Il Giappone è una terra di contrasti tra immagini d’ordine, purezza, ascetismo e violenza, rancore, passione incontrollata. È un mondo dove sono in perenne lotta concetti come il Giri, il dovere che Ruth Benedict nel suo saggio Il Cristantemo e la spada definiva “il peso che non può essere sopportato” e il Ninjo, la passione. Tutta la cultura nipponica è impregnata di questo contrasto che, molto spesso, sfocia in atti di violenza. Ricordate il film Gohatto di Naghisa Oshima? Raccontava la fine dei samurai e del loro mondo rigidamente organizzato secondo un’etica virile, sgretolato da passioni omosessuali e dalla consapevolezza che il privilegio di portare la spada aveva fatto il suo tempo. Ne L’ultimo samurai – film americano girato in Nuova Zelanda, piacevole ma infarcito di luoghi comuni di Hollywood – l’idealizzato capo dei ribelli afferma che “per duecento anni la casta dei samurai ha difeso il popolo”…in verità i samurai uccidevano per loro padrone e, quando non erano in servizio, si astraevano nello zen per non pensare alla più che probabile dipartita o si abbandonavano ad atti di barbarie verso gli henin, il popolino che non aveva nessun diritto. Se un contadino attraversava con la sola ombra il cammino del prode samurai, questi poteva provare la sua spada tagliandolo da parte a parte il poveraccio restando impunito. Il rituale, lo tsuji-giri, era cosa comune e accettata da tutti. Altro che cavalleria… e che ne dite della nobile arte del Ju Jitsu di cui oggi si parla come “dolce Via della cedevolezza”?… Era un sistema di lotta corpo a corpo studiato soprattutto dai nanushi, i buttafuori dei bordelli contro i samurai ubriachi che picchiavano le prostitute del quartiere Yoshiwara di Tokyo.

Il Giappone feudale era un luogo violento, pieno di contraddizioni e conflitti e, sin da quei tempi, percorso da ronin, samurai senza padrone e, peggio ancora da kabuki-mono, le bande dei pazzi, che scorrazzavano per il paese razziando villaggi e piccole città. Erano i banditi da strada che si vedono in I sette samurai di Kurosawa e costituiscono la prima forma di malavita organizzata nipponica. Ma Goro Fujita, ex gangster della Tosei-kai e prolifico narratore del mondo della mala (Il cimitero della morale che ispirò Fukasaku è un suo romanzo), afferma nel suo saggio Storia dei 100 anni, che la Yakuza ha un’origine differente. Ya-ku-za è una combinazione di numeri, 8-9-3, che in un popolare gioco d’azzardo, l’hanafuda, indica il punteggio più basso e, da qui, gli uomini senza valore. Era il modo in cui, nel Giappone pacificato dalla dittatura Tokugawa (1600-1868) i bakuto, i biscazzieri, chiamavano se stessi. Già si capisce che in questa umiliazione autoinflitta ci sia il desiderio di riscatto, di ammantarsi di una nobiltà inesistente. Eppure è proprio tra le bande di biscazzieri che nasce la vera Yakuza. Dai rituali di questa categoria di uomini “inutili” tuttavia presenti in ogni città, nei rioni malfamati, nascono usanze diventate leggenda. I tatuaggi sul corpo, comuni ai biscazzieri quanto alle prostitute, impressi con processi lunghi e dolorosi, una prova di resistenza fisica, lo scambio delle coppe di sakè come cerimonia di alleanza e, soprattutto, il rapporto oyabun-kobun.

In Giappone l’oyabun è il superiore, il mentore cui l’apprendista, il kobun, deve rispetto e obbedienza. Si tratta di un rapporto tipico di tutta la cultura nipponica ma che assume connotazioni quasi maniacali nella Yakuza. Non è solo un sistema gerarchico ristretto alla malavita, però. Se guardiamo al Giappone dell’Era Meiji e Showa che vanno dalla caduta dello shogunato Tokugawa alla Prima guerra mondiale, ci rendiamo conto che moltissime corporazioni e gilde che solo tangenzialmente avevano contatto con la malavita erano organizzate in questo modo. I carpentieri e i costruttori, ma anche i vigili del fuoco, rispettavano l’oyabun considerandolo un padre e spesso avevano nelle loro file “uomini di spada” che erano - o erano stati- Yakuza. Non c’è da stupirsene perché anche nel Giappone post feudale come in America i sindacati- o forme similari di associazioni di lavoratori edili o di pubblico servizio- avevano legami con la malavita. La Yakuza viveva di locali notturni, racket, contrabbando e prostituzione ma cercava di rifarsi una rispettabilità investendo nelle opere pubbliche, riciclando i soldi nelle costruzioni. In Oriente come in occidente e anche oggi la situazione non è molto cambiata. Non c’è da stupirsi d se la Yakuza ha esportato il formalismo della sua organizzazione e il suo “codice ‘onore” anche ad altri gruppi similari. L’oyabun è il capo famiglia, l’equivalente del padrino, il signore supremo del Gumi, l’organizzazione.

A lui è dovuto il Giri, la cieca obbedienza che arriva all’automutilazione, altro elemento mitico passato dalla realtà al cinema e alla letteratura. Il rito dello yubitsume, il taglio del mignolo, aveva anche un risvolto pratico. Nel Ken-jitsu, la scherma, spade e pugnali si serrano e si manovrano soprattutto con ultime dita della mano. Privo del mignolo – o di una falange – il kobun macchiatosi di disonore vedeva ampiamente diminuita la sua capacità di schermare e difendersi. Accanto ai bakuto presto si schierarono i tekiya, la casta degli ambulanti. Presto i due gruppi divennero indistinguibili e formarono enormi corporazioni che controllavano gioco d’azzardo, prostituzione, traffici d’ogni genere con spietata brutalità, ammantandosi però di un codice d’onore ispirato a quello dei samurai.

Con l’apertura del Giappone al mondo occidentale, l’impennata nazionalistica dell’inizio del ventesimo secolo gli Yakuza ereditarono lo status dei guerrieri di professione aboliti trent’anni prima. E nelle loro file entrarono tutti i livelli più bassi della società. I burakumin( becchini e coloro che lavoravano con gli animali morti) erano considerati non-umani dal resto della società, nelle file della mala trovavano un’occasione. E come loro i sangokujin, reietti di origine coreana, thailandese e cinese, costretti a lavorare in stato di semischiavitù nelle periferie.

Con l’inasprirsi della lotta di classe, l’avanzare dell’ultranazionalismo di destra società segrete come il Kokuryukai (la Società del Drago Nero, un po’ l’equivalente del partito nazista) strinsero legami sempre più stretti con la Yakuza inserendo un altro gruppo alla base dell’organizzazione, i gurentai, i teppisti impiegati contro gli scioperanti di sinistra e, in tempi più moderni i basuzoku, i motociclisti citati, almeno visivamente con una certa accuratezza in Black Rain di Ridley Scott.

È stato dopo il Secondo conflitto mondiale, con la forzata alleanza tra gangster, criminali di guerra e spie in funzione antisovietica che la Yakuza ha però avuto modo di modernizzarsi, acquistando da una parte una facciata di rispettabilità e dall’altra una diffusione capillare nella burocrazia statale. Il Giappone post bellico è un cumulo di macerie. Paradossalmente non sono tanto le tragedie di Hiroshima e Nagasaki a lasciare un segno più profondo nell’animo di un popolo sconfitto e umiliato. A Tokyo e Osaka le città sono coperte da un sudario di cenere e si vive nel degrado. Il mercato nero, la violenza spicciola diventano una presenza costante nella vita dei giapponesi. Da una parte si profila la malavita come unico mezzo per emergere dalla miseria, dall’altra il paese dapprima professa una nuova visione politica pacifista poi si schiera sempre più dalla parte dell’imperialismo americano. I criminali di guerra, i gangster con i colletti bianchi diventano i nuovi alleati dell’Occidente contro il comunismo sovietico. È in questa situazione sociale di forte discrepanza tra realtà e ideale che crescono alcuni dei registi più rappresentativi del cinema Yakuza.

Fukasaku dichiara in un’intervista di non capire i film americani a lieto fine. Da ragazzo, nell’ambiente degradato e privo di speranze del Giappone anni 50, Fukasaku ha imparato che il lieto fine non esiste. E anche il cinema, che dovrebbe essere sogno, non può esimersi dal rappresentare vicende cupe in cui i protagonisti, onesti o banditi che siano, sono destinati a un destino avverso.

È negli anni di Kodama, leggendario oyabun del dopoguerra, che nasce il mito del consiglio degli oyabun, del kuromaku, del sipario oscuro dietro il quale si cela il Kaisho, il capo di tutti i capi, che lega la malavita alle alte sfere della politica.

Vi ricorda qualcosa? Situazioni più vicine a noi, magari…

E qui comincia la mia personale esperienza, nel cuore di Tokyo, a Ginza, quartiere elegante con i negozi di moda italiana, le folle agli incroci e i grandi tabelloni animati. I locali del vizio sono vicini. A Shinjuku e a Roppongi, dove, alle nove di sera, ho visto una prostituta in tenuta sadomaso entrare in un fast food con un cliente in doppio petto, ubriaco e visibilmente soddisfatto di essere al guinzaglio.

È in questi quartieri dove a ogni angolo si aprono angusti locali di pachinko(una sorta di biliardino che rappresenta la versione locale del videopoker) che si aggirano bei giovanotti che avvicinano scolarette in gonnellino e calzettoni proponendo loro di girare, anche per una sola volta, un film porno, di vendere la loro biancheria intima ad attempati signori desiderosi di pagare migliaia di yen solo per annusare l’innocenza. Qui si trovano i locali di hostess, molte giapponesi ma anche tantissime iraniane, russe, scandinave, che fanno impazzire i sararyman, gli impiegati, per i quali la bevuta con i colleghi è un dovere irrinunciabile. A due passi da Roppongi c’è un locale dove si mangia il sushi sul corpo delle ragazze nude distese come piatti. Svoltato l’angolo c’è Ni-chome, il Secondo distretto, riservato ai bar gay e ai travestiti, una zona pericolosa. E, nel paese dove tutti lavorano a ritmi maniacali, dove il tasso di alcolismo delle mogli sole è tra i più alti del mondo assieme alla percentuale dei suicidi minorili, ci sono gang di ogni tipo. Le ragazze ganguro che si tingono la faccia di nero, ma anche le darku, vestite come damine dell’Inghilterra elisabettiana, i gruppi rock che s’ispirano ai Nirvana; ma non fatevi ingannare, malgrado la verniciatura di americanismo, è sempre la vecchia Tokyo, come diceva un personaggio di Yakuza di Sidney Pollack. Dietro al gaijin kumpurresku, il complesso d’inferiorità verso gli stranieri, il Giappone ha mantenuto regole sociali rigide, rituali, violenze a volte inconcepibili cui la realtà del mondo Yakuza si adatta perfettamente. Sasakawa, noto miliardario locale presidente per anni della World Union Karate Association era un esponente dell’ultra destra e probabilmente un oyabun. Oggi il Pride, una forma di combattimento importata dal Brasile ma capace di riempire arene da 40.000 persone è gestito dalla Yakuza. Attira milioni di fan tra televisione ed eventi in diretta. Massaie, studenti, impiegati: brava gente… Le regole sono semplici: si combatte in una gabbia e vale tutto. E non è una finta come per anni è stato il Wrestling, qui il sangue scorre davvero. Non basta: esistono circuiti clandestini dove si combatte per cifre altissime, in un garage. Duemila yen solo per vedere e avere la possibilità di scommettere. Uomini contro uomini. Donne contro donne ma anche duelli misti e, qualche volta, uomini contro animali. Tutto gestito dalla Yakuza. Neppure le arti marziali, così artificiosamente ingentilite per l’esportazione in Occidente, sono più le stesse. A Osaka sono stato in un dojo tradizionale di Karate. Altro che “contatto controllato”, qui si allenano energumeni gonfi di steroidi. Pochi saluti e contatto reale. Il Karate del rispetto dell’avversario dov’è finito?, chiedo. “Ah, spiritual Karate…No, ormai non interessa più a nessuno…” Mi dicono con un sorriso che ha qualcosa di sinistro. E magari dietro a tutto questo c’è davvero un kuromaku, il burattinaio che manovra tutto da dietro un sipario oscuro…

Il Giappone vanta una delle più antiche e raffinate cinematografie della storia. Documentarista, d’intrattenimento, sociale, il cinema nipponico ha raccolto lusinghieri successi, ormai i festival ci hanno abituato a nomi come Kurosawa, Ozu, Mizoguchi. Com’è accaduto a Hollywood e a Hong Kong la malavita ha da sempre proteso i suoi tentacoli nel mondo delle piccole e medie produzioni, per lucro ma anche per vanità. Insieme al Chambara-eiga (i film sui samurai chiamati così grazie a una riproduzione onomatopeica del clangore delle spade) tra gli anni 60’ e ’70 si diffuse una vasta produzione, lontana dai modelli di perfezione formale per cui il cinema nipponico va famoso nei cineclub, basata su sesso e violenza.

Gli Yakuza-eiga sono una forma di racconto popolare, dei western urbani dove immagini esplicite e violente erano al contempo un richiamo per il pubblico e lo specchio di una realtà, quella dei gangster, lontana dagli estetismi apprezzati dai critici occidentali. Sono film prodotti in serie da solidi professionisti e finanziati da studios di varie dimensioni. In quest’epoca- nella quale di cinema indipendente in Giappone ancora non si parla- Tohei è il marchio più forte, con maggiori possibilità finanziarie, ma s’impone anche la Nikkatsu Action, società che, sin dal nome è volta alla produzione di pellicole popolari di ogni genere dal musical a una curiosa forma di western giapponese dalle caratteristiche internazionali. Il cinefilo ricorderà una sequenza di uno di questi film bizzarri che scimmiottavano gli spaghetti western con attori giapponesi in una scena di Sol Levante, tratto dal romanzo di Michael Crichton. Naturalmente in questa girandola di generi i film Yakuza si ricavarono una posizione di rilievo seppure con film di maniera, spesso in bianco e nero e realizzati con budget ridotti. Eppure anche queste vicende di mafiosi tatuati, idealizzati nel loro codice d’onore ispirato a quello dei samurai, non mancavano di colpire l’immaginazione di molti spettatori e non solo orientali. In particolare c’è una serie di film nota come Showa-Zankyo-den prodotta da Thoei e interpretata da Takakura Ken, forse all’epoca uno dei più interessanti visi del cinema d’azione orientali che dipingeva un mondo di rituali ancestrali inseriti in un Giappone destinato al cambiamento forzato dal contatto con l’Occidente. È l’universo dei biscazzieri, dei debiti d’onore (il Giri di cui parlavamo nel capitolo precedente) e soprattutto degli uomini che, per risolvere le proprie questioni si affrontano viso a viso con la spada in pugno. È il cinema della celebrazione romantica della malavita, dei tatuaggi e dei tagli del mignolo come atto di contrizione. Makino Masahiro ne diventa uno dei più celebrati registi e, nella recente riproposta in DVD, film come Una cascata di sangue, L’inferno è il destino dell’uomo e Il dovere di un leone riacquistano dignità. Piccole opere noir dirette con mano sicura e affidate al carisma degli interpreti. In un universo maschile, dominato da rituali guerrieri e vagamente sadomasochistici, emerge però anche un viso femminile. Fuji Junko, figlia di un noto produttore della Tohei, presta il bel viso spesso a geishe e cortigiane ma piano piano diventa anche protagonista, giocatrice d’azzardo e spadaccina. In La giocatrice della peonia scarlatta, una partita di hanafuda di Kato Tai, Fuji Junko ruba la scena persino al suo abituale leading actor maschile, Takakura Ken. Questi, ancora oggi famosissimo in patria tanto da essere testimonial alla fine degli anni ’90 assieme a Steven Seagal e a Bruce Willis, di una nota campagna pubblicitaria di sigarette, rimane l’icona di questo cinema. Viene perfino chiamato da Sindey Pollack in Yakuza(1970) e da Ridley Scott in Black Rain(1989) come spalla asiatica rispettivamente di Mitchum e di Douglas. I due film citati sono solo un esempio del gusto occidentale di riprodurre un oriente favoloso e immaginifico, poco realistico ma perfettamente coerente con la mitologia dello Yakuza-eiga degli anni ’60. Se vediamo i film di Seijun Suzuki di quell’epoca, in particolare Tokyo drifter(1966) ritroviamo l’atmosfera ma, com’è naturale, tutto ci appare meno colorito e folkloristico. È un po’ come l’Italia dei poliziotteschi della trilogia del milieu di Fernando Di Leo (Milano Calibro 9, La mala ordina, il Boss), decisamente meno stereotipata delle immagini patinate di Coppola debordanti di cannoli, ceste di frutta, baschi neri e tutta la parafernalia che serve a Hollywood per identificare il nostro paese e la sua malavita. Eppure nei film di Suzuki ( de La farfalla sul mirino che rimane il suo capolavoro parleremo separatamente) si vede una Tokyo moderna, assolutamente “pop”, molto in linea con i canoni estetici del cinema internazionale di quegli anni (in Tokyo Drifter c’è una scena in un night interamente tappezzato di giallo, un arredamento monocromatico tipico da locale notturno anche nei polizieschi americani di quei tempi), nella quale si muovono idealizzate figure di gangster assieme a personaggi più bizzarri che Tarantino definirebbe… postmoderni. Il modello dello Yakuza imposto dagli studios per la produzione di massa è tuttavia legata all’iconografia classica.

In quella giapponese come in altre cinematografie il gangster idealizzato risponde a canoni piuttosto granitici. È un solitario, ribelle ma fedele al suo “padrino”, di solito s’innamora di una cantante di night e si mette nei guai contro i nuovi e più arroganti banditi privi d’onore e che non accettano di lui la capacità di vivere fuori dal branco. Sono queste caratteristiche “tragiche”, direi comuni all’eroe di Suzuki quanto al Luca Canali di Fernando Di Leo, al Frank Costello di Melville quanto allo Stone Killer interpretato da Charles Bronson nell’omonimo film di Michael Winner, che hanno ispirato Paul Schrader nella realizzazione della sceneggiatura di Yakuza di Pollack, a tutt’oggi, forse il miglior film del genere realizzato in Occidente. Questa è la scena del cinema yakuza sino al ’68, epoca di fermenti sociali e culturali dai quali il Giappone non è esente.

Il passaggio tra gli anni 60 e i 70 si presenta per il Giappone difficile e pieno di contrastanti correnti di pensiero che si riflettono sulla vita sociale, sulla cultura, alta o popolare.In particolare emerge una forte contraddizione tra i modelli tradizionali e piuttosto xenofobi e il nuovo stile di vita occidentale.

Mishima Yukio, scrittore, spadaccino, omosessuale, sostenitore dell’ultra destra e amico degli Yakuza, si suicida pubblicamente per rivendicare l’indipendenza culturale e politica del Giappone. Allo stesso tempo i suoi “amici” in Parlamento, nelle grandi Zaibatsu commerciali e nella Yakuza si rivolgono sempre più verso Occidente nella corsa al benessere economico.Per le strade esplode il fenomeno degli Zengakuren, giovani operai e studenti che caricano la polizia con il viso coperto, armati di aste di bambù. Le autorità rispondono con violenza, ma non solo. A fianco dei “crumiri” ci sono proprio i basuzoku e i picchiatori Yakuza.

I giovani odiano l’Occidente ma mangiano hamburger e si vestono all’americana, suonano il rock. Gli americani restituiscono il controllo di Okinawa al Giappone ma l’isola diventa feudo della malavita. Insomma il Giappone si trova in una situazione di caos totale. Ma, all’inizio degli anni ’70, il cinema ferveva anche di impulsi differenti. Esplodeva prima a Hong Kong poi nel resto del mondo(Giappone compreso) il filone Kung Fu di Bruce Lee. Nazionalisti com’erano i giapponesi trovarono subito il loro eroe nazionale. Sonny Chiba, stunman, seguace del Karate di Mas Oyama (quello del contatto reale, degli show dove si spezzano le corna ai tori e, tra le altre cose, impiegato nelle sequenze marziali di 007 Si vive solo due volte) si presentava come un Bronson orientale e i suoi film, spesso legati al mondo della Yakuza non possono però essere considerati realmente del filone. La sua serie più celebre The Streetfighter(vista e osannata da Tarantino ai tempi in cui faceva il commesso in un negozio di videonoleggio a Santa Monica) è oggi reperibile in una serie di cofanetti DVD ristampati in Inghilterra e in Francia. Sono film ingenui, proprio come erano quelli con Bronson o Burt Reynolds all’epoca, basati soprattutto sul Karate e con una rappresentazione della Yakuza che non si discosta molto dall’immagine della mafia nera dei film di Shaft. Siamo nella stessa epoca e sarebbe interessante vedere come, in culture diverse, il cinema popolare abbia sempre proposto semplici vicende d’azione dove accanto all’eroe difensore della legge e dell’onore si siano visti politicanti corrotti, gangster feroci e vecchi banditi, alla fine meritevoli di rispetto perché legati a un codice d’onore. Chiba ha avuto una carriera lunghissima e prolifica, passando dal gangster movie, alle storie di samurai, chiamato a Hong Kong non solo come maestro d’armi ma anche come interprete per finire in Kill Bill di Tarantino, consacrato a icona di tutto un cinema, proprio come Gordon Liu lo è del Kung Fu nel personaggio di Pai Mei. Ma Kill Bill, un film forse discutibile ma certamente un’operazione riuscita di ripescaggio di suggestioni culturali del regista, offre spunti di ricerca meno ovvi. La presenza di David Carradine, le coreografie delle arti marziali cinesi e la figura del vecchio maestro di Kung Fu hanno indotto la critica a citare tra le sue fonti tutto un genere conosciuto ormai anche in Occidente. Il cinema di Hong Kong, dopo John Woo sembra essere appannaggio di qualsiasi critico abbia visto due film e letto un paio di saggi.

Per la verità, soprattutto nella prima parte del film, Tarantino ripesca nella tradizione cinematografica giapponese anni ’70 quasi sconosciuta da noi. Lo fa da vero appassionato, prova ne sono i festival e le riedizioni di opere di registi semisconosciuti come Fukasaku Kinji.

Fukasaku ( che per la cronaca diresse le sequenze giapponesi di Tora, Tora, Tora!) fu (è morto nel 2003) un innovatore, un regista prolifico e coraggioso sin dagli anni ’70 in cui stravolse il genere yakuza decidendo di raccontarne il lato più crudo e realistico. Fight without Jingi, The Graveyard of the Morality e Gangwar in Okinawa raccontano la Yakuza con il piglio di de Palma in Scarface.

Si tratta di storie di piccoli gangster che al codice d’onore si sentono legati solo nominalmente, troppo occupati a sopravvivere a guadagnarsi la loro fetta di territorio con la violenza, a costo del tradimento dei loro stessi amici è capi. Ne è un brillante esempio Il ricatto è il mio mestiere(Koyatsu Koso Waga Jinsei, 1968) con la sua storia di giovani belli e dannati decisi a sfidare crimine organizzato e legge per ricavarsi il loro posto al sole. Simpatici e destinati alla sconfitta richiamano Godard e la Nouvelle Vague in salsa di soia. I film di Fukasaku sono però abitualmente dei noir cupi, realistici dove ogni romanticismo tra uomini e donne è solo abbozzato, schiacciato dalle “reali” brutalità che dominano il mondo dei gangster e delle loro compagne, di solito prostitute. L’eroe feticcio di questo filone è Sugawara Bunta con la sua faccia di pietra e gli scatti di violenza quasi maniacali.

Di tutto ciò nel film di Tarantino, a dir la verità c’è poco, più che altro la brutalità, il senso della vendetta che si va a mescolare con un altro genere riconducibile allo Yakuza-eiga molto caro a Tarantino. È nel personaggio di O-Ren I-Sihii (interpretato da Lucy Liu) che ritroviamo con maggior rilievo le citazioni di un filone di storie molto popolare nel Giappone anni ‘70/’80. Sono film che potremmo definire di “exploitation”, di sfruttamento del sesso e della violenza in cui assistiamo alle vicissitudini di angeliche giovinette stuprate e malmenate da gangster psicopatici sino a diventare loro stesse delle iene sanguinarie. Se il personaggio di O-Ren è ispirato a Lady Snowblood, spadaccina medioevale protagonista di un lungo serial richiamato nel duello sotto la neve tra Lucy Liu e Uma Thurman, la sua guardia del corpo Go Go Yubari (interpretata da Chiyaku Kuriyama, presa dal set di Battle Royale ultimo discusso film di Fukasaku) si rifà direttamente a una serie di film che avevano per protagonista Lady Scorpion, poliziotta specializzata nella “distruzione” fisica di maniaci e stupratori. Girati all’inizio degli anni ’70 i due film di Shuyna Ito sono reperibili oggi in una bella compilation curata dalla francese HKVideo (Femmes fatales: La femme scorpion e Menottes rouges) e fanno parte di un filone all’epoca molto popolare. Figlio sia dei film Yakuza che dei Pinku-eiga (dei soft-core a basso costo prodotti ancora oggi) questi racconti erano poco più che un pretesto per mostrare una serie di efferatezze sessuali cui veniva sottoposta la protagonista prima dell’inevitabile e sanguinosissima vendetta. Un meccanismo molto fortunato anche nel catch femminile che proprio in Giappone ebbe il suo massimo splendore, quanto al cinema. In Kill Bill è l’elemento caratterizzante sia nelle sequenze realizzate come un anime (un cartone animato) che si riferiscono all’infanzia di O-Ren, quanto nella psicopatologia del comportamento di Go Go e, alla fine, anche nella smania di vendetta della Sposa prima martirizzata e poi vendicatrice. Il film di Tarantino nel suo gioco di citazioni, però si ferma qui, ignorando o quantomeno sorvolando sulle ultime mode del cinema legato alla malavita nipponica. Questa trova comunque una originale rappresentazione in patria attraverso opere sino a oggi quasi sconosciute in Europa. Mi piace citare Hideo Gosha regista di un piccolo capolavoro noir.

Disponibile solo in edizione sottotitolata in francese, Quartier violent merita una riflessione. Hideo Gosha (1929-2002) è uno dei pochi cineasti che abbiano goduto di una quasi totale libertà di espressione nell’arco di tutta la loro carriera. Famoso soprattutto negli anni ’60 per i suoi film d’epoca ha diretto anche questo Quartier Violent ( Boryoku Gai,1975) che è il solo film “moderno”, della sua produzione.

Una storia che il commento francese definisce un riuscito mix tra Peckinpah e il polizziottesco italiano, è, a mio avviso, qualcosa di più. Una storia secca, senza fronzoli che riunisce tutti i temi classici del film di gangster di ogni paese. Il duro costretto a uscire dal giro (Norobu Ando)e a cedere la moglie al boss della potente famiglia che gli cede un locale al centro di Ginza, il quartiere dei divertimenti. Nel suo locale, curiosamente, si balla il flamenco, un altro sintomo dell’incertezza culturale attraversata dal paese in quegli anni. Anche in un contesto dove la tradizione si ritiene sovrana si affacciano mode e ammiccamenti all’Occidente.

Poi c’è una disputa tra vecchi e nuovi Yakuza, il rapimento della figlia di un boss e un sicario amico-nemico del protagonista. Non manca neppure un sicario en travestì e una resa dei conti in un pollaio. Tutto raccontato con il taglio secco ed epico al tempo stesso dei migliori film di Fukasaku e Suzuki. In pratica un vademecum per chi ama il cinema della Yakuza alle sue origini, ossia non visto attraverso la lente deformante del cinema americano.

Su Takeshi Kitano sarebbe opportuno trattare in sede separata, la sua poetica si distacca da ogni modello. I film che ha dedicato alla Yakuza( Sonatine, Boiling Heat, Hana-bi, Fiori di fuoco premiato a Venezia e il tutto sommato poco convincente Brother prodotto in America) seguono la sua idea di cinema che alterna momenti comici, tristi, scoppi di violenza cuciti da una narrazione sopra le righe.

Contributo al genere ripreso in varie occasioni anche da altri registi è la figura del gangster omosessuale, figura brutale che nulla ha di politicamente corretto.

L’oyabun che stupra i suoi sottoposti in Boiling heat torna in Gonin, (opera in cui Kitano è solo interprete e che riflette tutta la disperazione di un Giappone in piena crisi economica in cui quattro persone “normali” si alleano per un colpo ai danni della Yakuza con prevedibili ritorsioni) come figura tragica, il sesso omosessuale viene consumato come forma di spregio, di punizione umiliante verso il sottoposto, la vittima. È un’immagine forte, assolutamente lontana dal romanticismo degli Yakuza–eiga di Makino e anche da quelli di Fukusaku. Siamo in un’era nuova perfettamente riassunta nel delirante prologo della trilogia Dead or Alive di Takashi Miike regista prolificissimo, visionario e sgradevole in molte occasioni, ma che ha saputo creare un nuovo trend nel filone. Ogni romanticismo è perso, e anche la visione statica, tragica di Kitano lasca spazio a iperboli iperrealistiche, o persino surrealistiche dove si fondono tutte le icone Yakuza con il film di tortura(molto apprezzato in Giappone) e una visione certamente non gradita ai vecchi oyabun. Nelle immagini iniziali del film citato la macchina da presa si muove impazzita tra locali notturni, case da gioco, vicoli di Shinjuku, quartiere simbolo del vizio di Tokyo. Assistiamo anche qui a un feroce stupro omosessuale con tanto di droga e mattanza finale ma è solo l’inizio di una vicenda a tinte fortissime dove un vecchio capo della mala si procura godimento nell’affogare una giovane prostituta nei propri escrementi. È quel genere di perversione perfettamente realistica nel mondo della Yakuza moderna, riportata anche nella serie Black Angel di Takashi Ishii( un curioso serial con un’eroina vendicatrice vestita di nero che, pur portando abiti e nomi identici muore alla fine di ogni film come se fosse un’anima vendicatrice che passa da una donna a un’altra) che inizia con un gangster che s’informa presso i suoi uomini se le prostitute procurate per la serata possono essere fatte a pezzi e scaricate senza problemi. Ma non è finita, nel capolavoro di Miike, Ichi The Killer, un sicario psicopatico e autolesionista della Yakuza da la caccia all’assassino del suo capo non per vendetta o per onore ma solo per punire l’uomo che l’ha privato dell’unico essere in grado di farlo godere, sempre nell’ambito di un rapporto omosessuale sadomasochistico. Questa vena brutale dello Yakuza-eiga è chiaramente riservata a un pubblico ristretto e, malgrado, Miike abbia girato diverse saghe con le medesime caratteristiche, forse il suo film più esportabile rimane City of Lost Souls, opera relativamente meno cruda con una curiosa e originale ambientazione nei quartieri brasiliani di Tokyo. Ma nella produzione nipponica odierna esistono anche molti prodotti d’intrattenimento sulla Yakuza meno duri e adatti a tutti i palati. Val la pena di citare Tokyo gang (con Chiba ma anche Yukio Harada, interprete anche di La preda, film occidentale con Lambert, Joan Chen e John Lone), i due episodi di Score, Tokyo mafia e il folle Junk con uno scontro tra due bande Yakuza in una fabbrica di prodotti chimici contaminata popolata da orde di zombie… In Occidente al di là del film di Tarantino e ad alcuni divertenti B-movie (American Yakuza 1 e 2 con Michael Rooker e Viggo Mortesen e Blue Tiger con una sensualissima Virginia Madsen) il film più significativo viene dalla Francia, firmato da Chistophe Gans, regista, editore, appassionato del cinema orientale che iniziò la sua carriera giovanissimo dirigendo la rivista di cinema Starfix e ha finito per dirigere Il patto dei lupi, un’interessante rilettura di tradizioni avventuroso-popolari francesi in salsa Hong Kong. Gans che si è rivelato uno dei massimi artefici della riscoperta del cinema orientale prima con una rivista HKvideo, poi con collane in videocassette e DVD dei capolavori del genere, ha ripreso un fumetto yakuza di grande successo non solo in oriente, Crying Freeman, realizzandone una versione cinematografica patinata, dove ogni sequenza è un piccolo capolavoro. La storia del killer delle triadi cinesi(la gang dei Figli dei Draghi o dei 108 Dragoni nella versione a fumetti) che combatte contro la Yakuza ma piange dopo ogni omicidio, ha in sé tutti quegli elementi formali e sostanziali del filone. Merito anche degli interpreti dove troviamo Mark Dacascos, vero artista marziale, forse acerbo nella recitazione ma capace di bucare letteralmente lo schermo e soprattutto Joko Shimada, indimenticata interprete dello Shogun televisivo ma soprattutto idolatrata diva del cinema giapponese di oggi. Di fatto lo Yakuza-eiga si presenta con due volti, quello brutale, iperrealisstico, surreale a volte dell’ultima produzione nipponica e quello patinato, romantico, violento ma non schivo dalle suggestioni dei classici degli anni ’70.