Quanto del tuo mestiere di ingegnere informatico  convoglia nel tuo lavoro di scrittore?

Difficile da dire. Credo che – per il tipo di storie che scrivo – serva un certo schema di approccio. Sono tutte storie a molti personaggi che si snodano in vicende parallele. Nel riuscire a tenerle insieme l’ingegnere serve. In realtà fatico a vedermi così schizofrenico. Lavoro come ingegnere così come quando scrivo. Nel senso che sono sempre io.

 

In “Fragile” (Perdisa, 2007), oltre ai momenti veri e propri del mistero e dell’indagine, è presente una storia d’amore, di passione e delicatezza. Hai spiazzato i sostenitori della corrente secondo cui, letterariamente parlando, riescono meglio le storie d’amore infelici.  Come hai fatto, pur trattando un amore corrisposto, a mantenere comunque una certa tensione e a renderla palpabile nella narrazione?

Rendendo la storia di Alice e Gabriele parte della storia. In quel contesto e con quella trama la loro storia doveva per forza essere felice. Non sarà così nel seguito di Fragile, “Lentamente prima di morire”. E per gli stessi motivi.

 

Ancora “Fragile” e il tema della musica. É chiaro che nella tua vita l’elemento musicale ha un peso determinante. Raccontaci qualcosa in merito: la tua formazione, se suonavi, quale musica hai bisogno di ascoltare almeno una volta alla settimana, quale musica eviti.

Mai suonato, ma ho sempre voluto farlo. Il piano o la chitarra. Sono spesso in macchina e ho sempre la radio accesa.

Lo stesso vale per quando sono in studio. Non riesco, invece, a scrivere con la musica. Mi distraggo, seguo la canzone e non quello che faccio. Ascolto un po’ di tutto e non ho brani che devo per forza ascoltare, vado molto a periodi.

 

Cito un brano da “Fragile”:  «Questa città di merda non ti guarda. Bisogna avere qualcosa da dire nella vita. Bisogna avere un obiettivo. Una missione. Qualcosa. Qualcosa che ti renda unico perché ti possano guardare. Perché tu li costringa a guardarti. A non passarti sopra» (p.6). Il questo romanzo, al tema dell’ascolto si contrappone si contrappone quello dell’alienazione (ovvero il non-ascolto). A questa affermazione aggiungo il fatto che ho notato che il verbo ascoltare ricorre spesso. La mia domanda è: stiamo perdendo la capacità d’ascoltare gli altri?

Credo che l’abbiamo già persa. Fortunatamente non tutti, ma basta aspettare.

 

Si può dire che “Il tempo infranto” (Piemme, 2009) sia un romanzo dedicato alla storia e alla coscienza?

Alla storia e alla memoria. La coscienza, credo, venga dopo. Se non sai le cose non puoi nemmeno averne coscienza. E il nostro problema è proprio quello. Non le conosciamo. Non sappiamo cosa è successo in un periodo così vicino a noi. Non abbiamo le basi per capire e per scegliere. O per distinguere cosa succede quando, purtroppo, si ripresenta sotto altre forme.

 

Quali sensazioni hai provato mentre lo scrivevi e, soprattutto, mentre ti documentavi?

Curiosità, nel senso positivo del termine. Desiderio di capire e di sapere. Almeno nella fase di documentazione. Mentre lo scrivevo avevo solo voglia di scriverlo. E di scoprire se ne sarei stato capace.

 

Immagino che tu sia consapevole che alcune persone, leggendolo, si troveranno, per la prima volta, di fronte a vicende ignorate. La letteratura può costituire un piccolo tassello nella formazione della memoria collettiva?

Può essere uno stimolo a informarsi. Un modo per cercare di tenere viva la memoria e la curiosità.

Ho scritto un romanzo e può tranquillamente essere letto come una storia di fantasia, da parte di chi non conosce i fatti a cui faccio riferimento. Poi, mi auguro, dovrebbe scattare il desiderio di scoprire quanto di quello che ho scritto è vero e quanto mi sono inventato. Dalle mail che ricevo, fortunatamente, è successo in molti casi.

 

Fai riferimento, tra le altre cose, alla strage di Bologna del 1980. Perché questo pezzo di storia nera è così contestato? Perché, secondo te, si continua a mettere in discussione la verità giudiziaria?

Perché quella è l’unica strage italiana – ad eccezione di Peteano, che ha aspetti giudiziari diversi – per cui esistono colpevoli passati in giudicato. E, dall’altra parte, è quella per cui si cerca di tenere viva la memoria con più ostinazione e costanza. In più certe affermazioni sulla pista palestinese o mediorientale possono funzionare bene, dal momento che quasi nessuno ormai conosce i fatti come si sono svolti. In mancanza di informazioni corrette qualsiasi cosa detta con una dose sufficiente di convinzione ha possibilità di attecchire.

 

Cos’è l’ideologia?

Domandona. Semplificando al massimo potrei dirti che è un’insieme di idee che sviluppa una visione del mondo.

Presente, passato e futuro. E che, col tempo, ha assunto sempre di più un significato negativo.

 

Qual è lo scarto ideologico tra i due momenti storici in cui è intrecciato il romanzo: quello attuale e la fine degli anni ‘70?

Enorme. Trent’anni fa c’era il muro di Berlino, la guerra fredda, il PCI e la DC e una politica molto diversa. Anche fra la gente, come contatto diretto. C’era una partecipazione sociale molto più diffusa. Un interesse alla discussione molto più diffuso. Che ha portato anche guasti e derive, ma è un altro discorso. Oggi è tutto molto più ovattato, molto meno sentito. Non per niente i partiti sono per lo più grandi comitati elettorali.

 

Ci auguriamo che tratterai ancora di storia. Il nostro augurio è ben riposto?

Direi di sì. A metà maggio esce un romanzo breve per edizioni Ambiente – Verdenero, che parla di amianto. E sto preparando il prossimo romanzo che parla sempre di terrorismo, anni prima della storia raccontata ne “Il tempo infranto”