“Ecco, adesso sai tutto”, disse l’uomo lasciandosi cadere all’indietro sul cuscino. Le frasi gli erano uscite quasi con rabbia. Non aveva mai spiato il loro effetto sulla faccia di lei, ma era come se l’avesse fatto, perché aveva immaginato nel mentre ogni movimento di muscolo e ogni battito di ciglia.

Il silenzio sembrò durare un’eternità. “A cosa stai pensando?”, avrebbe voluto chiedere Mario. Ma sapeva che tra due amanti è una domanda proibita.

“Bella botta.”, disse lei e queste parole suonarono a tutti e due inadeguate e fuori posto.

“Cioè…- si affrettò a rimediare Federica- E’ una storia pazzesca. Assurda. Tragica. Però sono contenta che ti sei confidato con me. In un certo senso, un po’ me lo sentivo che c’era qualcosa di strano nella tua vita, anche se non avrei mai potuto immaginare la verità.”

La voce di Federica nel frattempo aveva ripreso fiato e colore, come la sua faccia. Anche Mario stava recuperando salivazione e battito regolare.

“Non devi rispondere adesso: credi che questo cambierà le cose tra di noi? No! Non rispondere subito, ho detto.”

“Ti sembrerò sciocca, ma la cosa che mi sconvolge di più è sapere che il tuo vero nome è Mario e io ti ho sempre pensato e chiamato con un nome che non ti appartiene.”

“Puoi continuare a farlo, se preferisci. Anzi, è meglio, così non rischi di sbagliarti quando siamo in mezzo alla gente.”

“Gran casino!”, stava per dire Federica, ma si trattenne.

“Ma dopo tutti questi anni devi ancora fare una vita del genere?”

“Non voglio rispondere.”, pensò Mario, che in effetti incrociò le braccia dietro la testa e rimase in silenzio. Chiuse gli occhi e si sentì trasportare lontano dal presente. Gli sembrava di tornare a quegli anni, si rivedeva magro come un extracomunitario dei giardinetti sotto casa, i lunghi capelli lisci ai lati della faccia, il giaccone bicolore a scacchi rossi e neri e il collo di lana grezza. Un pischello. Gli sembrava di sentire l’odore acre dei fumogeni, penetrante delle molotov, e le voci dei compagni, spaventate o tese o decise nel dare ordini.

Ricordava il momento esatto in cui aveva trovato il contatto giusto, o meglio in cui loro lo avevano trovato. Stava giocando a flipper nella latteria dell’Oreste, proprio davanti al liceo, una mattina come tante che erano tutti fuori per manifestazione. Afferrata la situazione da poche battute un po’ surreali con il più anziano del gruppo, aveva avuto un tuffo al cuore come un innamorato e aveva risposto senza sapere cosa, ma si vede che era la parola d’ordine giusta. Tutto era terribilmente eccitante, niente in vita sua lo era mai stato di più, neanche la prima grande scopata con la squinzia che non la dava a nessuno… Basta, meglio non pensarci proprio ora! Ora doveva pensare al presente e alla sua donna. A non incasinarsi col lavoro proprio ora che poteva provarci col mutuo. Sempre che a noi ex sia consentito, si chiese. Poteva benissimo esserci un comma, un decreto attuativo, una tacita convenzione da tutti rispettata che imponeva di tenerli a vita ai bordi, come lebbrosi. Non sarebbero mai più stati come gli altri. Neppure nella tomba, pensava. Neanche se avevano ormai come lui l’aspetto slavato e bolso di un cinquantenne qualunque, non ricco né palestrato. Con pochi capelli grigi e occhiali da vista, che senza non avrebbe centrato più neanche una botte a pochi passi, altro che c’era una volta il west a Milano, io come Charles Bronson, il nemico come Henry Fonda.

Da qualche giorno, poi, tutto era ancora più assurdo e duro, da quando avevano ricominciato a parlare di quello là, il cocco di mamma rivoluzione.

 

Soprattutto gli aveva fatto male rivederlo così: snello, abbronzato, col ciuffo spettinato ad arte e il sorriso da gaglioffo. Una cosa specialmente: non sembrava sconfitto. Né troppo invecchiato. Né troppo infelice. Anche con le mani ammanettate e i due sgherri che lo conducevano per le braccia causa foto e riprese televisive. Era ancora quel fottutissimo estremista col ciuffo sugli occhi dal taglio vagamente orientale che era a vent’anni. Oltre che di gran lunga il più intelligente della brigata. Il più pericoloso: per gli altri, per sé, per il sistema. Solo lui stesso, l’ex compagno che l’aveva tirato in ballo da pentito, poteva capire la forza della scelta di mostrarsi in quel modo. Con la rossa camicia sottile aperta sul petto, quasi offerto a un possibile plotone, e lo sguardo ridente, tra la sfida e il piacere di essere tornato quello che era. Fosse pure per una breve recita a beneficio del mondo intero. Una recita che era come un riepilogo, un bignami dell’etica e dell’estetica rivoluzionaria a favore dei giovani che nulla sapevano di tutto ciò e dei meno giovani che dovevano solo rispolverare dentro di sé le armi di un tempo.

Si riscosse dai suoi pensieri ipnotici al fruscio delle lenzuola dalla parte di Federica, che si era messa a sedere sul bordo del letto girando verso di lui la schiena bianca.

"A cosa stai pensando?”, questa volta non era riuscito trattenere la domanda.

“Non so se chiedertelo.”

“Forse sarebbe opportuno, se hai dei rospi sullo stomaco, ti conviene sputarli.”

“Hai ucciso qualcuno?”

Non riuscì a trovare in nessuna corda vocale la forza di articolare una risposta.

“Ne hai uccisi tanti?”

“No”. Questa risposta era più facile

 

“Cosa si prova?”

“Che fai? Le domande da giornalista di Italia 1?”

“Scusa, ma è una cosa terribile.”

“Meno di quello che può sembrare.”

“Vuoi dire che si prova un certo gusto?”

“Cazzo, no! Non volevo dire quello!....Non io….almeno….gli altri però erano quasi tutti dei veri assassini nati. Natural born killers. Criminali dovunque e comunque.”

“E’ terribile.”

“Lo so. Anzi, solo io so quanto può esserlo portarsi per tutto la vita questo fardello di fantasmi insanguinati, come il macigno rotolante del mito di Sisifo.”

“Di chi?”

“Lascia perdere, Vieni qua.” 

La ragazza non si mosse. Mario allora si trascinò sul letto verso di lei. E l’abbracciò da dietro con tenerezza. Lei lo ricambiò con un bacio struggente sulle labbra che gli riaccese la speranza di aver fatto la cosa giusta per poter condividere con lei ancora un pezzetto della propria insostenibile esistenza. Rifecero l’amore. Alla grande. Come sempre. Anche di più. Federica si alzò per prima dal letto. Appena rimasto solo, fu ripreso con violenza dal solito terrore che anche tutto questo sarebbe finito. Male. Come tutta la sua vita prima di Federica. Tutto a puttane. Tutto per colpa di quelle quattro cazzate fatte a vent’anni. Non è giusto, aveva pensato milioni di miliardi di volte. Si ribellava con tutto se stesso all’idea di essersi fregato per sempre. Non riusciva proprio ad accettarlo e in quella ribellione riconosceva l’unica traccia rimasta della forza e della rabbia di un tempo. Il tempo in cui si sentiva un vendicatore, inesorabile come la giustizia proletaria. E il senso di essere un sopravvissuto allo sterminio, ma dalla parte degli assassini.

 

In un certo senso, l’idea di essere vittima di un’ingiustizia lo aveva tenuto in vita, sorretto nel mare di merda della galera, prima da terrorista poi da infame. Degli interrogatori e delle dichiarazioni spontanee al magistrato, due passi avanti gli sbirri che sapevano il suo grado di resistenza alle torture, dove il magistrato restava a fissarlo in silenzio, ma con una faccia che diceva chiaramente: “Tutto qua? Non crederai che sia sufficiente…vai avanti. Facci altri nomi, dettagli, testimoni attendibili. Lo sconto di pena te lo devi guadagnare, quindi non fare lo stronzo e imbastisci un bell’affresco storico completo di tutto.”

 

“A cosa stai pensando?”

Questa volta era lei a violare le regole, per imitazione.

“A niente.”

“Non vale come risposta.”

“Non vale come domanda.”

“Anche tu prima me l’hai fatta.”

“Hai ragione. Ti prometto che non succederà più.”

“Se vuoi ti dico a cosa sto pensando adesso.”

“Ok”

“Sai, penso alla definizione “veri assassini nati”.”

Mario si girò verso di lei soffocato dalla dolcezza della sua voce. Non riuscì a capire come si fosse materializzata nella sua mano la pistola. Chiuse gli occhi e sentì il freddo della canna sulla fronte.

“Penso che hai proprio ragione. Tanti saluti dai compagni.”