L’horror deve mordere nelle parti molli. Perturbare. Provocare insonnia. E’ un lavoro sporco. Qualcuno lo dovrà pur fare. E così questo impegno se lo carica in spalla l’Alias dominante di Danilo Arona, per sua stessa consapevole ammissione nella breve introduzione di Ancora il vento piange Mary, la recente raccolta di racconti pubblicata dalle Edizioni Phasar. Anche se il termine antologia, o raccolta, forse non si addice del tutto, visto che lo stretto legame tra un racconto e l’altro fa sembrare questo lavoro più a un rapido susseguirsi di scene che, tutte insieme, e in piena autonomia, riescono a raccontare un’unica storia.

Come un romanzo. Forse.

Ma meglio ancora come le voci distinte di nove  attori (tanti sono i racconti), che si presentano sul palco con altrettanti monologhi narrati con diverse intonazioni.

Perché la sensazione che si prova con il libro in mano è che il lettore non legge. Si siede in poltrona di fronte a uno spettacolo da Grand Guignol. Assiste. Ma senza l’impatto con il sangue, con l’orrido, e il macabro, ma sempre con il fiato sospeso in attesa che succeda qualcosa capace di farlo ballare sulla sedia. Se lo aspetta ma non sa quando arriva. Sempre sul filo dell’incubo. Venato di malinconia. Incerto se aprire la porta dell’altra dimensione o restarsene tranquillo a godere della propria esistenza certa.

O magari il posto per il lettore è sotto un palcoscenico. Tra cavi e amplificatori. Meglio ancora. Questa è la morte sua.

Perché non solo le sensazioni sono amplificate (come credo imponga il genere horror), ma perché il tratto comune di questi racconti è la musica. Un rock elettrico, distorto, che taglia i pensieri dello spettatore/ lettore come una lama. Musica e brandelli di vita e di biografia. Un connubio perfetto. Cogliere l’essenza dell’una  (la musica) in relazione con l’altra (la vita). Che troppi consumatori di note spesso ignorano. E questa capacità di non ignorare vibra nelle corde di un Danilo Arona  che rievoca lo spirito di Jimi Hendrix (alla cui vita peraltro si legava anche il suo precedente lavoro, datato 2000, Il vento urla Mary). Uno spirito non distante dalla magia indiana del suo più recente Santanta, delle atmosfere d’oltreoceano di cui sembra nutrirsi con grande naturalezza. Della polvere del deserto, del rombo delle Harley Davidson, giubbotti di cuoio nero, e bandane al vento, spettatori scalzi ai grandi concerti sotto un cielo sconfinato. Un rombo malinconico. Merito della musica? Della sua musica? Forse.

Non è nemmeno un caso che la chiusura sia su una citazione da un malinconico e crudo Non è un paese per vecchi di Corman Mc Carthy e fratelli Coen.

Insomma, con Ancora il vento piange Mary il lettore perde la sua caratteristica di lettore, e lo scrittore si impossessa di uno strumento, sale sul palco e suona e racconta, come forse non siamo più abituati a raccontare e ad ascoltare, con quella voglia un po’ antica di trasformare pensieri in storie, di evocare ricordi, i ricordi di una terra (la Bassavilla dove affondano le sue radici) con i suoi frammenti di mondo che rimbalzano tra personaggi, credenze, avvenimenti storici. Che Arona ben conosce e ben sa tenere pronti all’uso. Come un vecchio rocker (che spesso dice di divertirsi di più con la chitarra e il suo gilè da jam session che con la penna), con lo spirito del narratore (come fa normalmente anche a voce quando la compagnia lo invoglia) che infila il naso nel mondo/altro, quello che sta nascosto sotto terra, dove vivono le radici, germogliano i semi, dove c’è l’odore vero della terra ma anche il verme che sguscia via. Dove c’è la vita, e dove si seppelliscono i morti, dove cresce il grano e dove ci si sporca le mani.

E riesce a mescolare il tutto, incubi, angosce, comportamenti, rituali magici in un calderone dalle dosi ben equilibrate che ruba l’attenzione dell’ascoltatore, tra la paura, l’incredulità e perché no, spesso, con divertimento. Decotti, sapientemente dosati nel vecchio antro del moderno stregone qual è. E il decotto è spesso amaro, ma anche benefico.

Da leggere: Il caso di Bobby Fuller, oppure Figlio del voodoo, o l’incubo di Codalunga. Ma il perno ruota attorno al lungo, inquietante, La stanza dei vetri rotti, racconto dallo stile vagamente tenebroso, che a tratti riesce a procurare quel leggero fastidio sottocutaneo (un brivido, forse?) con i suoi punti interrogativi altrettanto poco rassicuranti, per chiedersi se “oltre i confini delle apparenze che ci rimandano la nostra immagine non esista proprio dall’altra parte, la vera realtà”.