Nonostante il confine 

Il nostro corpo è una prigione. Un confine da superare - oppure da contenere – un serbatoio dentro cui restare per sentirci sicuri, al caldo.

Il consumo della corpo/reità, dell’ideaforma, per arrivare all’alterazione della stessa, porta all’allestimento di una nuova carne, qualcosa che ha a che fare con l’essere primevo. Che trascende da ciò che siamo stati e che siamo, da quello che diventeremo.

Tutto sfugge, tutto cambia e si sposta. Per questo cadiamo a pezzi.

E i frammenti che siamo diventati disgregano la nostra capacità di restare aggrappati a noi stessi. Briciole di carne si spargono sopra un sentiero di pelle, per ritrovare una strada per raggiungere i nostri sogni, i desideri, per rendere le illusioni degne di essere vissute.

Quando la certezza del nostro essere è messa in gioco, si può solo cercare di adempiere a un'unica legge di libertà: trovare diversità nello disfacimento.

Alterazione dello status quo, metamorfosi catartica della forma per crearne un’altra nascosta sotto.

Il dolore che ne scaturisce  fa parte del gioco e ci rende capaci di sentirci vivi.

Nonostante il confine.   

Primo frammento 

da Immagini collaterali  di Gianfranco Nerozzi:

Michele Santagata era riverso su una sedia con la te­sta reclinata da una parte: numerose passate di nastro adesivo intorno alla bocca, completamente nudo con il pancione eviscerato con cura. I tranci dei suoi inte­stini, srotolati per metri lo legavano stretto alla spal­liera; di fronte a lui, sopra a un treppiedi, la vi­deocamera che lo aveva ripreso mentre se ne stava lì a pensare se fosse meglio crepare stando buono buono a svuotarsi dalla merda e dal sangue e a sentire un male indicibile per otto ore e passa, oppure se sarebbe stato meglio trovare il coraggio di liberarsi stracciandosi via quei cordoni sangui­nolenti. Evidentemente, delle due, aveva scelto di morire così: spe­gnendosi a poco a poco imprigionato da sé stesso; e non c'era niente di diverso in fondo da ciò che capitava a tutti quanti giorno per giorno… 

C’è questo mio personaggio che viene imprigionato in quel modo pazzesco, posto di fronte a una terribile scelta: cercare la libertà nella sofferenza, oppure restare fermo, immobile, dissanguarsi lentamente, una goccia alla volta, nello scandire impietoso dei secondi.

Non è facile capire, prendere posizione. Perché c’é del sangue da versare e dolore da sopportare.

Ma che cosa siamo disposti a perdere di noi stessi per trovare un minimo di redenzione?    

Secondo frammento

C’è questo film bellissimo. Di un giovane regista esordiente: James Wan.

Dal titolo emblematico: Saw, (che significa semplicemente: sega; un arnese che taglia ma nello stesso tempo corrode, sbriciola), dove si parla proprio di quanto possiamo essere inutili e deboli al cospetto della sofferenza e di come non si possa pretendere cambiamenti senza sanguinare.

C’è chi ha fatto paragoni con Hitchcock. Wan si dice ispirato da Lynch e dal nostro Argento. Il film risulta sconvolgente. Spaventoso. Un thriller, un horror, un giallo, una storia che prevalica i generi. A tratti grottesca, ma in modo calibrato, funzionale. La struttura della trama: semplicemente perfetta. Con un finale a sorpresa di quelli che ti lasciano a bocca aperta.

In Saw tutto torna, tutto funziona. Tutto cade a pezzi.

Una discesa negli inferi: nuda e cruda. C’è un assassino che colpisce ponendo le vittime in condizione di scegliere. E le scelte sono sempre dolorose, e sempre lasciano il segno di dentro e di fuori. Un rebus, un anagramma da risolvere attraverso la distruzione sistematica di tutto quello che siamo nel corpo e nella mente.

Un esempio fra tutti: una donna si risveglia con una tagliola applicata alla faccia, collegata ad un timer, allo scadere del tempo, la tagliola si aprirà e la testa esploderà letteralmente. La chiave per aprire quella sorta di maschera di tortura è dentro la pancia di un cadavere e la giocatrice (perché di giocatrice si tratta, in fin dei conti), ha a disposizione solo un minuscolo temperino per eviscerare il corpo e recuperare lo strumento che potrà liberarla. Peccato che il cadavere non è un cadavere, ma un poveraccio drogato che non si può muovere. Il dilemma che si presenta: avere il coraggio di sezionare una persona viva e frugare nelle sue viscere per salvarti da una fine orribile. Cosa farà la povera ragazza? Cosa faremmo noi al suo posto?

Wan sa condurre il gioco perfettamente, senza cadute di stile. Passeggia sulla linea di confine, quella che piace a noi, senza barcollare mai. Se mai qualcuno tende a compiere passi esitanti, è lo spettatore, che socchiude gli occhi e sente di percorrere il filo di una lama tagliente come un rasoio e gli viene paura di tagliarsi.

Alla fine ci si ritrova, tutti quanti: a pezzi, segati a metà. Ma con il cervello che continua a pensare e a chiedersi cosa sta succedendo; a porsi mille domande sul senso della vita e della sofferenza.

Profondo proprio in tutti i sensi, questo film ci rende una parabola che rivela cose già sapute ma che così crudamernte esposte, assumono nuova consapevolezza e dopo faticano a lasciarti andare del tutto. Restano.

Un frammento alla volta percorri un sentiero. E lasci i tuoi pezzi per strada, come mollichine di pane. Per ritrovare la strada per tornare, per ritrovarsi, poveri Pollicini dispersi nel nulla.  

Ultimo frammento 

da L’arte di sopravivere di Stephen King:

…mi sono specchiato nell’acqua oggi. Un teschio coperto di pelle…

ormai sono un mostro da baraccone. Non ho più niente sotto l’inguine. Un mostro. Una testa attaccata a un busto che si trascina sulla sabbia, spingendosi con i gomiti. Un granchio… 

Nel racconto del maestro King, un naufrago sopra a un’isola deserta cerca di sopravvivere mangiando parti di se stesso, un pezzo alla volta.

L’auto divoramento della forma.

Per sopravvivere alla mutazione, non c’è niente di meglio da fare che lasciarci andare oltre il confine per superare le barriere della nostra stessa carne.

Capirne il dolore e il sapore. Rendere grazia a un nuovo concetto dell’essere e dell’avere. Noi stessi: legati con le nostre viscere, imprigionati dalle nostre impossibilità. Stupendamente protesi verso l’annullamento interiore ed esteriore di quello che siamo stati.

Per diventare uomini diversi.

Scoprire di che frammenti siamo fatti.

Per capire cosa si nasconde nella sostanza scura.

Oltre il confine…

Finalmente liberi.

Alla prossima amigos 

NERO