Terapia d'urto

Fisso l’orologio. Le lancette sembrano immobili. Lo guardo troppo spesso, perché la dottoressa Doni mi studia con gli occhietti opachi.

Accenno un sorriso ragionevole, ma la seduta è terminata e devo proprio andare.

I miei genitori hanno invitato a cena tale zio Enrico, solo di passaggio; pare debba assolutamente rivederlo, perché l’ultima volta avevo sette anni. Una seccatura.

Entro in macchina e sbuffo: il percorso con la Doni sta diventando troppo lungo, costoso e sempre meno convincente. Pensavo di cavarmela in fretta ed invece: «Il cammino da fare assieme sarà lento e graduale: solo così le risposte emergeranno!».

Diciamo la verità, nemmeno lei sa spiegare il mio problema; forse non vale più la pena sprecare soldi per una cosa così stupida e imbarazzante!

Ho paura degli armadi. Ne sono terrorizzata. Ho persino preso l’abitudine di accatastare i vestiti su sedie sparse pur di stare lontana dall’armadio ad angolo, sogno di ogni ragazza ma per me gigantesco abominio, regalatomi dai miei.

Ho questa paura fin da piccola quando, dalle amiche, accampavo scuse per evitarne le stanze con quei tremendi guardaroba colorati e ricoperti di posters.

Ho convissuto, sola, con questa angoscia immotivata finché una sera, al cinema sono quasi svenuta alla vista di uno smisurato armadio e ho deciso di reagire.

Fiduciosa, ho iniziato le sedute con la psicologa, confidando in una rapida soluzione: «Quanto ci vuole a capire il motivo di un’ansia talmente scema?». Invece, un mese dopo, la plurilaureata Doni ancora non sa dirmi nulla, ma assicura che col tempo la causa emergerà.

E stasera arriva pure questo zio!

Premo l’acceleratore e in un attimo sono a casa. «Cara! Dov’eri finita? Guarda chi c’è!»

Dalla sala arriva un omone scuro e ingobbito. Così grosso che sembra creare una strana ombra attorno a sè. O forse la immagino io.

Sfodero un sorriso di circostanza ma, inaspettatamente, provo qualcosa di sgradevole. Faccio per salutarlo, ma quello mi supera bofonchiando un “ciao”, basso ed impastato.

Resto allibita. La mamma mi sussurra: «è timido…»

Secca per vedermi e ora mi ignora, l’energumeno!

Mi siedo a tavola imbronciata. I miei genitori non la smettono di parlare Enrico invece resta chino sul piatto, zitto. Mangia silenzioso, non alza mai lo sguardo.

Pensandoci, questo gigante schivo e taciturno non mi ricorda proprio nulla.

Però quel suo modo di portare la carne alla bocca, quel suo lento masticare e deglutire, increspando l’angolo della labbra, mi da il voltastomaco. Smetto di mangiare. Scusandomi, dico che non sto bene e che salgo a riposare.

«Che brutta cera! Vai pure, poi saliamo con lo zio a salutarti».

Devo trattenere un conato di vomito e scappo con il batticuore: che mi sta succedendo?

Non accendo nemmeno le luci e mi lancio sul letto.

Va meglio ma non capisco cosa mi sia preso. Ripenso a quella bocca disgustosa e ancora l’acido mi risale per lo stomaco. Mi sforzo di non pensarci per non vomitare.

Accendo la musica e per distrarmi inizio a riordinare una torre di vestiti ceduta. Sono così concentrata che non sento la porta aprirsi. Quando mi giro per recuperare un calzino, lui è là, non so da quanto. Enorme e curvo, vicino alla porta.

Lo fisso sconcertata e sbalordita. È titubante, mi guarda incerto, con le mani unite e torturandosi le dita.

Cosa ci fa qui, solo? Dentro di me inizia a salire un’ansia sempre più forte.

Faccio per alzarmi, ma è un istante.

Scatta, veloce. La sua figura accartocciata si erge in un’enorme massa. Con una mano gigantesca, gelida e sudata, mi copre la bocca. Mi solleva di peso. Cerco di gridare ma quella mano colossale è serrata sul mio viso.

Frenetico, si guarda intorno. Sgrano gli occhi e il cuore mi martella in petto.

Mi butta violentemente nell’armadio, immobilizzandomi con le braccia mastodontiche.

E mentre chiude le porte del guardaroba ad angolo, imprigionandoci in un buio denso e puzzolente, all’improvviso, in un istante, mi ricordo tutto.

Per un attimo, stupidamente, penso alla Doni.

Solo per un momento. Poi è buio.