Sala d’attesa

Non lasciarmi ora, ti prego. Non andartene questa notte, aspetta ancora un paio d’anni, aspetta almeno che io mi ammali gravemente, che sia prossima alla morte. Senza un marito da accudire, non saprei cosa fare. Non potrei vivere. Non dire così, lo so che hai peccato, e mi hai fatto del male, ma sei fatto così, sei sempre stato così, se un uomo nasce tondo non può morire quadrato, diceva la povera mamma, ti ricordi? Ma sono trascorsi cinquant’anni, e io non sono mai stata altro che tua moglie, una brava moglie, vero? Hai sete, bevi un po’ d’acqua, così, piano, ti aiuto io. È compito mio, lo è sempre stato, ero io che ti davo da bere, anche quando eri giovane e forte, ti riempivo il bicchiere durante il pranzo o la cena, mezzo di rosso e mezzo di minerale, appena si svuotava te lo riempivo, come nei ristoranti di lusso. E quando mi distraevo guardando la televisione, come battevi la mano sul tavolo per ricordarmi! Eri giovane e forte. Ma avevi avuto la fortuna di avere il lavoro vicino casa, così tornavi a mangiare dopo mezza giornata, e poi la sera. Io stavo sempre attenta all’orologio, per mettere a bollire la pasta all’ora giusta e poi all’una esatta sentivo il tuo fischio lungo attraversare la tromba delle scale e arrivare al secondo piano dove stavamo noi, nella vecchia casa, e io correvo ad aprirti la porta. E poi eri intelligente. Lo sei sempre stato e lo saresti ancora oggi, se la malattia non ti avesse indebolito la memoria. Si vedeva proprio che tu avevi fatto la sesta classe, e io fino alla terza! Perché tu sapevi parlare bene, e io restavo a un angolo e ti guardavo come raccontavi, sicuro, come muovevi le mani, e tutti ti ascoltavano, sorridevano, si divertivano. E poi mai mi hai mancato di rispetto davanti alle persone, dicevi ecco la mia bella moglie, con orgoglio, oppure la parmigiana di melanzane come la fa mia moglie non la sa fare nessuno. Ma quando tornavi dai viaggi, avevi sempre qualche ricetta che ti avevano dato quelle donne che conoscevi sui treni, Ninetta, senti un po’ cosa ci mette la signora Raffaella nella zuppa di pesce! Ninetta, oggi preparami il riso con le cozze come mi ha detto la moglie del maresciallo! Ah, sorridi… allora ti ricordi! E io cucinavo subito, seguivo le istruzioni alla lettera, facevo tutto per farti contento, tranne quelle volte, quelle volte che non stavo bene… quelle volte che mi mettevo a letto, e dovevo rimanerci per una settimana, e non avevo la forza di fare nulla. E allora un poco ti lamentavi, quando ti svegliavi e non trovavi le pantofole perché la sera avanti le avevi spinte sotto il letto, e dicevi che avevo il carattere di mio padre, che vivevo con i miei fantasmi, e che quella clinica dove andavo a farmi curare non mi serviva, ché tanto ai mali della mente non c’è rimedio. Dai fantasmi. Non c’è scampo. Ma adesso non spaventarti, se ti dico che il fantasma che vedevo, lo vedevi anche tu, anzi, tu lo conoscevi meglio di me, ne conoscevi il nome, il profumo, il corpo giovane, la casa, dove tu l’hai sistemata, i vestiti, perché eri tu a comprarglieli, e io lo sapevo, sì, sì, l’ho sempre saputo! Davvero credevi che non me ne accorgessi? Per vent’anni ho assistito in silenzio, finché il diavolo non è venuto a prendersela, così giovane. Stringi la mia mano, non tremare così, è solo il rumore del temporale, non aver paura. Non c’è più niente di cui avere paura. Non si può pretendere tutto dalla vita. Non abbiamo avuto un figlio. Tu hai sempre accettato che io non potessi averne e non hai mai sospettato nulla. Quella clinica di periferia, quei ricoveri periodici. Non ero pazza. Erano aborti. Tredici, per l’esattezza. Tredici figli morti prima di nascere, i figli che non ho voluto darti, che non ti sei meritato. Ti ho dato tutto in questa vita. Non sono stata altro che tua moglie, una brava moglie. Ma un figlio no. Un figlio non ti spettava. Lo so, lo so. L’uomo è peccatore, Dio ci perdonerà. Non tremare, stringi le mie mani. Non morire stanotte, ti prego. Non lasciarmi sola.