I racconti vincitori di Roma Noir 2009 - Sesta Edizione:

Prima classificata:

Carmen Maffione con il racconto Sala d'attesa.

Seconda classificata:

Silvia Premoli con Terapia d'urto.

Terzi a pari merito:

Andrea Franco con Il demone della buonanotte

Massimiliano Govoni con Dolcemente verso il basso.

 

La premiazione si svolgerà il 18 febbraio 2009 presso La Sapienza Università di Roma - Facoltà di Scienze Umanistiche - Dipartimento di studi filologici linguistici e letterari - P.le Aldo Moro, 5 - Aula Odeion (edificio ex Lettere, piano seminterrato). Vedi rubriche/7623

PRIMA CLASSIFICATA:

Carmen Maffione

Sala d’attesa

anche su rubriche/7677

Non lasciarmi ora, ti prego. Non andartene questa notte, aspetta ancora un paio d’anni, aspetta almeno che io mi ammali gravemente, che sia prossima alla morte. Senza un marito da accudire, non saprei cosa fare. Non potrei vivere. Non dire così, lo so che hai peccato, e mi hai fatto del male, ma sei fatto così, sei sempre stato così, se un uomo nasce tondo non può morire quadrato, diceva la povera mamma, ti ricordi? Ma sono trascorsi cinquant’anni, e io non sono mai stata altro che tua moglie, una brava moglie, vero? Hai sete, bevi un po’ d’acqua, così, piano, ti aiuto io. È compito mio, lo è sempre stato, ero io che ti davo da bere, anche quando eri giovane e forte, ti riempivo il bicchiere durante il pranzo o la cena, mezzo di rosso e mezzo di minerale, appena si svuotava te lo riempivo, come nei ristoranti di lusso. E quando mi distraevo guardando la televisione, come battevi la mano sul tavolo per ricordarmi! Eri giovane e forte. Ma avevi avuto la fortuna di avere il lavoro vicino casa, così tornavi a mangiare dopo mezza giornata, e poi la sera. Io stavo sempre attenta all’orologio, per mettere a bollire la pasta all’ora giusta e poi all’una esatta sentivo il tuo fischio lungo attraversare la tromba delle scale e arrivare al secondo piano dove stavamo noi, nella vecchia casa, e io correvo ad aprirti la porta. E poi eri intelligente. Lo sei sempre stato e lo saresti ancora oggi, se la malattia non ti avesse indebolito la memoria. Si vedeva proprio che tu avevi fatto la sesta classe, e io fino alla terza! Perché tu sapevi parlare bene, e io restavo a un angolo e ti guardavo come raccontavi, sicuro, come muovevi le mani, e tutti ti ascoltavano, sorridevano, si divertivano. E poi mai mi hai mancato di rispetto davanti alle persone, dicevi ecco la mia bella moglie, con orgoglio, oppure la parmigiana di melanzane come la fa mia moglie non la sa fare nessuno. Ma quando tornavi dai viaggi, avevi sempre qualche ricetta che ti avevano dato quelle donne che conoscevi sui treni, Ninetta, senti un po’ cosa ci mette la signora Raffaella nella zuppa di pesce! Ninetta, oggi preparami il riso con le cozze come mi ha detto la moglie del maresciallo! Ah, sorridi… allora ti ricordi! E io cucinavo subito, seguivo le istruzioni alla lettera, facevo tutto per farti contento, tranne quelle volte, quelle volte che non stavo bene… quelle volte che mi mettevo a letto, e dovevo rimanerci per una settimana, e non avevo la forza di fare nulla. E allora un poco ti lamentavi, quando ti svegliavi e non trovavi le pantofole perché la sera avanti le avevi spinte sotto il letto, e dicevi che avevo il carattere di mio padre, che vivevo con i miei fantasmi, e che quella clinica dove andavo a farmi curare non mi serviva, ché tanto ai mali della mente non c’è rimedio. Dai fantasmi. Non c’è scampo. Ma adesso non spaventarti, se ti dico che il fantasma che vedevo, lo vedevi anche tu, anzi, tu lo conoscevi meglio di me, ne conoscevi il nome, il profumo, il corpo giovane, la casa, dove tu l’hai sistemata, i vestiti, perché eri tu a comprarglieli, e io lo sapevo, sì, sì, l’ho sempre saputo! Davvero credevi che non me ne accorgessi? Per vent’anni ho assistito in silenzio, finché il diavolo non è venuto a prendersela, così giovane. Stringi la mia mano, non tremare così, è solo il rumore del temporale, non aver paura. Non c’è più niente di cui avere paura. Non si può pretendere tutto dalla vita. Non abbiamo avuto un figlio. Tu hai sempre accettato che io non potessi averne e non hai mai sospettato nulla. Quella clinica di periferia, quei ricoveri periodici. Non ero pazza. Erano aborti. Tredici, per l’esattezza. Tredici figli morti prima di nascere, i figli che non ho voluto darti, che non ti sei meritato. Ti ho dato tutto in questa vita. Non sono stata altro che tua moglie, una brava moglie. Ma un figlio no. Un figlio non ti spettava. Lo so, lo so. L’uomo è peccatore, Dio ci perdonerà. Non tremare, stringi le mie mani. Non morire stanotte, ti prego. Non lasciarmi sola.

 

 

SECONDA CLASSIFICATA:

Silvia Premoli

Terapia d’urto

anche su rubriche/7678

Fisso l’orologio. Le lancette sembrano immobili. Lo guardo troppo spesso, perché la dottoressa Doni mi studia con gli occhietti opachi.

Accenno un sorriso ragionevole, ma la seduta è terminata e devo proprio andare.

I miei genitori hanno invitato a cena tale zio Enrico, solo di passaggio; pare debba assolutamente rivederlo, perché l’ultima volta avevo sette anni. Una seccatura.

Entro in macchina e sbuffo: il percorso con la Doni sta diventando troppo lungo, costoso e sempre meno convincente. Pensavo di cavarmela in fretta ed invece: «Il cammino da fare assieme sarà lento e graduale: solo così le risposte emergeranno!».

Diciamo la verità, nemmeno lei sa spiegare il mio problema; forse non vale più la pena sprecare soldi per una cosa così stupida e imbarazzante!

Ho paura degli armadi. Ne sono terrorizzata. Ho persino preso l’abitudine di accatastare i vestiti su sedie sparse pur di stare lontana dall’armadio ad angolo, sogno di ogni ragazza ma per me gigantesco abominio, regalatomi dai miei.

Ho questa paura fin da piccola quando, dalle amiche, accampavo scuse per evitarne le stanze con quei tremendi guardaroba colorati e ricoperti di posters.

Ho convissuto, sola, con questa angoscia immotivata finché una sera, al cinema sono quasi svenuta alla vista di uno smisurato armadio e ho deciso di reagire.

Fiduciosa, ho iniziato le sedute con la psicologa, confidando in una rapida soluzione: «Quanto ci vuole a capire il motivo di un’ansia talmente scema?». Invece, un mese dopo, la plurilaureata Doni ancora non sa dirmi nulla, ma assicura che col tempo la causa emergerà.

E stasera arriva pure questo zio!

Premo l’acceleratore e in un attimo sono a casa. «Cara! Dov’eri finita? Guarda chi c’è!»

Dalla sala arriva un omone scuro e ingobbito. Così grosso che sembra creare una strana ombra attorno a sè. O forse la immagino io.

Sfodero un sorriso di circostanza ma, inaspettatamente, provo qualcosa di sgradevole. Faccio per salutarlo, ma quello mi supera bofonchiando un “ciao”, basso ed impastato.

Resto allibita. La mamma mi sussurra: «è timido…»

Secca per vedermi e ora mi ignora, l’energumeno!

Mi siedo a tavola imbronciata. I miei genitori non la smettono di parlare Enrico invece resta chino sul piatto, zitto. Mangia silenzioso, non alza mai lo sguardo.

Pensandoci, questo gigante schivo e taciturno non mi ricorda proprio nulla.

Però quel suo modo di portare la carne alla bocca, quel suo lento masticare e deglutire, increspando l’angolo della labbra, mi da il voltastomaco. Smetto di mangiare. Scusandomi, dico che non sto bene e che salgo a riposare.

«Che brutta cera! Vai pure, poi saliamo con lo zio a salutarti».

Devo trattenere un conato di vomito e scappo con il batticuore: che mi sta succedendo?

Non accendo nemmeno le luci e mi lancio sul letto.

Va meglio ma non capisco cosa mi sia preso. Ripenso a quella bocca disgustosa e ancora l’acido mi risale per lo stomaco. Mi sforzo di non pensarci per non vomitare.

Accendo la musica e per distrarmi inizio a riordinare una torre di vestiti ceduta. Sono così concentrata che non sento la porta aprirsi. Quando mi giro per recuperare un calzino, lui è là, non so da quanto. Enorme e curvo, vicino alla porta.

Lo fisso sconcertata e sbalordita. È titubante, mi guarda incerto, con le mani unite e torturandosi le dita.

Cosa ci fa qui, solo? Dentro di me inizia a salire un’ansia sempre più forte.

Faccio per alzarmi, ma è un istante.

Scatta, veloce. La sua figura accartocciata si erge in un’enorme massa. Con una mano gigantesca, gelida e sudata, mi copre la bocca. Mi solleva di peso. Cerco di gridare ma quella mano colossale è serrata sul mio viso.

Frenetico, si guarda intorno. Sgrano gli occhi e il cuore mi martella in petto.

Mi butta violentemente nell’armadio, immobilizzandomi con le braccia mastodontiche.

E mentre chiude le porte del guardaroba ad angolo, imprigionandoci in un buio denso e puzzolente, all’improvviso, in un istante, mi ricordo tutto.

Per un attimo, stupidamente, penso alla Doni.

Solo per un momento. Poi è buio.

 

TERZI CLASSIFICATI A PARI MERITO

Andrea Franco

Il demone della Buonanotte

anche su rubriche/7679

Sputo a terra, sull'asfalto, sperando di liberarmi, ma è solo uno di quelle sciocche idee che mi vengono così, quando le ho pensate tutte e nella mente cominciano a rincorrersi pensieri incoerenti.

Uno sputo... eh, magari potessi liberarmene così. Sputerei ancora e ancora. Se solo fosse così facile! Ma in cuor mio so che non lo è allo stesso modo in cui so che non vorrei che accadesse. Se davvero potesse essere così semplice, tutto perderebbe di significato, non avrebbe più quell'importanza, quella forza, che ho sempre sentito.

Il Demone. È lì, suadente, perverso. Ma affascinante. Pronto a indicarmi quando la sua sete va saziata. È forte, Lui. Sarebbe banale liberarsene in un modo così semplice. Come a dire che tutto quello che è stato poteva pure non accadere, semplicemente. Ma non è così. È dentro di me.

Io stesso sono parte di Lui e insieme ci completiamo.

No, uno sputo no. Solo con l'amore, con la sensualità, con un brivido lungo e sospiri graffianti. Solo così può tornare a dormire. Sazio e appagato. Dopotutto non posso liberarmene, ma s'aspetta che lo soddisfi.

E io mi aspetto che mi chiami più spesso.

La notte è buia e il freddo danza tra le grinfie di una brezza bastarda.

I tenui bagliori dei lampioni sfidano la foschia di Roma, mentre lo sciabordio del Tevere culla la mia ansia.

Natascia. Così ha detto di chiamarsi la ragazza russa. Gemeva, si contorceva sopra di me... ho pure creduto che stesse godendo. Lo so che non è quello che il Demone vuole. È chiaro, ma ogni tanto provo a ingannarlo. Una puttana, no. Bella lo è, Natascia. Anche brava. Ma è la negazione dell'erotismo... il Demone vuole sentire qualcosa di più intenso. Una sorta d'innocenza infranta. Nulla che si possa pagare. Nemmeno se lei è brava.

Cammino con i sensi avvelenati dal troppo alcol e dal richiamo del Demone. Se solo ci fosse Silvia, adesso, saprebbe ricondurlo nelle sue tenebre. Lo ha sempre fatto.

Arrivo a casa, alla fine. Le tre del mattino. Fra qualche ora Roma tornerà a svegliarsi, mentre io bramo che Lui ritrovi il sonno perduto.

Entro al buio. Potrei muovermi a occhi chiusi, anche senza l'aiuto della luce dei lampioni che filtra dalle tapparelle.

La porta della camera è aperta e mi avvicino senza fare rumore. Lei sta dormendo, ne intuisco le forme sotto le coperte. Dà le spalle alla porta e sembra sia rannicchiata. M'avvicino al letto, sedendomi accanto a lei.

Puzzi di vino, mi avrebbe detto se fosse stata sveglia. Ma non parliamo molto, un vero peccato. Mi spoglio sperando che non si svegli subito perché mi piace destarla con dei baci sul collo.

- Ehi - sussurro, la voce impastata dal vino. Sento un ruggito nel petto. È Lui, si dibatte, pronto a balzarmi al collo. Stringo forte gli occhi. Una volta, una volta sola, ho saputo resistergli. Non stanotte, me ne rendo subito conto. Stanotte mi sento debole. E le lusinghe del Demone...

La scuoto, brusco, e finalmente si sveglia, voltandosi. Puzzo di vino, avrei voluto dire, lo so. Ma uso le mie labbra per baciarla e aspetto che socchiuda la bocca. Quando la sua lingua incontra la mia sento come un fuoco divampare... non il Demone, fermo in un angolo pronto a

saziarsi, ma la passione, il desiderio... la voglia di lei, del suo corpo accogliente.

Non devo guidarla. Cerca subito la mia eccitazione e mi strappa un sospiro quando la sua mano si stringe sul mio pene eretto. Cerco il suo seno morbido e prendo un capezzolo trai denti. Mi sale sopra e mi guida dentro di lei, scostando di lato la striscia di pizzo. Sa come muoversi... chi più di lei mi conosce? Le mordo il collo e stringo una mano sul suo seno nel momento in cui il Demone fugge via dal mio corpo, tuffandosi in lei.

Poi scivola via, abbraccia il cuscino e sento che cerca di recuperare il sonno. Sono le tre passate, dopotutto. Scendo dal letto e con due passi sono alla porta, i vestiti in mano.

È bellissima. Il Demone ha ragione: non posso resisterle. - Buonanotte - sussurro.

Mentre mi dirigo verso la mia camera, la sento rispondere, assonnata: - Buonanotte, papà.

 

Massimiliano Govoni

Dolcemente verso il basso

anche su rubriche/7680

Un branco di barracuda passò tra loro; sospeso nel mare, per un attimo sembrò volare in un cielo d'acqua, poi si allontanò veloce. Marco, oltre la maschera da sub, incrociò gli occhi di sua moglie. Lei lo stava fissando e lui in un secondo ne ebbe la certezza. Giulia sapeva del suo

tradimento.

Giulia si riscosse. Osservava Marco e a un tratto aveva perso il controllo dei pensieri: come bolle d'aria, avevano preso a risalire verso la superficie della sua consapevolezza, e lei non era riuscita a

trattenerli. Le gorgonie, aggrappate alla roccia, sfidavano la corrente che portava in mare aperto. Avrebbe voluto che il suo matrimonio fosse stato così. Un'amica le aveva raccontato di aver visto Monica uscire dalla camera di suo marito, proprio quel fine settimana nel quale lei non era andata col gruppo; dapprima aveva pensato a un motivo banale, come al prestito di un libro, poi, la sera innanzi al ristorante, aveva colto Monica china sul marito, in un atteggiamento che aveva riconosciuto come di profonda intesa. Forse i loro visi erano stati troppo vicini, o forse lo sguardo della donna era stato troppo diretto.

Non lo avrebbe saputo dire. Per un momento ebbe voglia di risalire subito in superficie, poi annullò ogni pensiero.

Marco fece passare avanti sua moglie e ne osservò il profilo avvolto dalla muta. L'esercizio costante le donava un fisico asciutto, quasi duro. Non come Monica, su lei le gonne disegnavano curve che attiravano l'attenzione degli uomini. Era convinto che non avrebbe mai tradito, che lui era diverso. Eppure era arrivata Monica, un week-end nel quale sua moglie era rimasta a casa. Aveva bevuto e Monica lo aveva aiutato a ritornare in camera. Non era così ubriaco, aveva esagerato apposta, per

gioco. Sulla porta si era avvicinata e lui aveva respirato il suo odore, le loro labbra si erano trovate, erano entrati in camera. Facile e banale. Come aveva potuto gettare così tutti gli anni di matrimonio? Un momento voleva che non fosse mai successo nulla, e subito dopo bramava ancora l'odore di Monica. Voleva guardare sua moglie senza vergogna eppure non desiderava che toccare i capelli dell'altra. Se solo Giulia non lo avesse scavato di dentro con quegli occhi... Ma aveva davvero capito del tradimento?

In un anfratto sulla parete notò qualcosa muoversi; si fermò e fece segno a Giulia di attendere. Sganciò la torcia, la puntò e vide un grande occhio scuro.

Giulia vide un occhio che la fissava; poi un tentacolo si mosse, e poi un altro e un altro ancora, finché il polpo non uscì dal nascondiglio oscillando la testa come un palloncino nell'aria. Avvicinò la mano e accarezzò uno dei tentacoli. Il polpo a sua volta prese a tastare le sue dita. Comprendere che suo marito l'aveva tradita, era stato per un momento intollerabile. Poi, lì nell'acqua, con i suoni attutiti, con i movimenti rallentati, ogni reazione le era parsa troppo faticosa.

Provava un odio indefinito, insensibile, come un dolore improvviso e troppo forte.

Marco sapeva che i polpi erano in grado di amputarsi un tentacolo, pur di sfuggire al predatore. Se avesse potuto tagliare via da sé quelle ore con Monica, non avrebbe esitato. Il profondimetro segnalò i trentasei metri. In alto la linea tra acqua e aria non si distingueva più, in basso il blu pareva incombere come un precipizio. Poi dal boccaglio non arrivò più aria. Afferrò il respiratore di riserva ma anche da questo niente: il manometro segnava zero. Si volse in cerca di Giulia. Vagò con

gli occhi nella semioscurità e la vide; in mezzo a una nebbia di sabbia e alghe, si allontanava lenta verso la costa. Provò a urlare ed espirò stupidamente l'ultima aria nei polmoni. Giulia doveva averlo visto in difficoltà ma se ne stava andando. Lo stordimento lo pervase e fu incapace di pensare ad altro.

Gli parve allora che quella fosse l'unica soluzione, che così tutto si sarebbe sistemato. Nell'acqua gelida, invece di lottare con tutte le forze per arrivare in superficie, si lasciò tirare verso il basso.