Di lui, mamma mi ha sempre ripetuto la stessa cosa. Amore mio, papà non è a casa con noi perché fa un lavoro difficile. Proprio così dice. Un lavoro difficile che lo tiene lontano. Me lo racconta da quando avevo cinque anni e questa cosa non l’ho mai capita bene. Ora ne ho nove, di anni, ma mamma continua a ripetermi la stessa bugia. Papà fa un lavoro difficile che lo tiene lontano da noi. Solo che io, adesso, so cosa vuole dire. Vuol dire niente. Vuol dire solo che forse non lo vedrò più, il mio papà.

Io me lo ricordo, papà. Mamma pensa di no, ma ho la sua faccia davanti a me tutte le mattine che mi sveglio e tutte le sere che mi addormento. E’ una faccia larga e bella e  buona. I capelli sono neri e ha occhi che sorridono. Non so come fanno gli occhi a sorridere, non sono mica una bocca, ma so che è così che sono gli occhi di mio papà. Nel mio ricordo, intendo. Sorridenti. Le labbra, quelle invece non me le ricordo tanto. Il naso mi sembra di sì.

Poi ci sono le mani. Anche quelle le rammento bene. Hanno dita grosse, ma soprattutto calde. Certe volte, la notte, nel letto sento freddo. Le lenzuola sono ghiacciate e le coperte non mi bastano mai. Allora ficco le mani tra le gambe, anche se mamma mi ha detto una volta che non sta bene, e così cerco il calore che mi manca. Quando papà era con me non ne avevo bisogno perché lui lo sapeva bene che avevo freddo e allora mi prendeva le mani nelle sue. Mani enormi e calde come se le aveva tolte dal fuoco in quel momento. Mi piaceva. Non c’era mai freddo quando papà era con noi.

Della volta che papà è andato via, invece, ho un ricordo confuso. Forse non è nemmeno un ricordo, ma un sogno. Un sogno brutto che certe notti mi costringe a restare sveglio. Perché in quel sogno papà urla e mamma urla e poi piangono tutti e due e nel ricordo è proprio come se fossi lì, a sentire le loro grida, e mi devo turare le orecchie con le mani per non sentire. Ma non ne sono sicuro. Cioè, non sono sicuro se è successo davvero. Però papà è bello e altissimo, anche nell’incubo. Ha una grande borsa in mano e mamma cerca di levargliela, di portargliela via, di aprirla. Ci sono i suoi vestiti, dentro, e mamma gli grida che non deve che non può che non deve che non può. Ma papà la spinge, le urla, le dice cose che non capisco. Cose difficili, a parte una. A parte quando dice “devo”. E lo ripete: “Devo, devo, devo!” e allora mamma la smette di tirarlo per la giacca, sembra un pallone che si sgonfia e cade a terra, scivola sul tappeto, proprio lì dove c’è la macchia di cioccolata che ho fatto quando ero piccolo e ancora me le ricordo lo schiaffo che lei mi ha dato anche se poi mi ha abbracciato dicendo scusa Marco, scusa amore mio. Mamma resta immobile, e zitta, nel sogno brutto, schiacciata sul tappeto come una rana che non può più saltare. E anche papà è fermo e silenzioso, ma in piedi, dritto sopra di lei. Tremano tutti e due e piangono, mi sembra, ma non si toccano. Non si toccano più. E poi mi vedono. Credo. Perché qui il sogno brutto, diventa davvero strano. Come se piovesse fitto fitto. Come se ci fosse pioggia dentro la mia testa, anche dentro i miei occhi. Credo di aver capito cosa è successo, nel sogno. Piangevo anche io. Piangevamo tutti quanti..

Non so se il sogno è una cosa successa davvero o un’invenzione della mia testa. La maestra dice che può succedere. So però che quella è l’ultima immagine che ricordo di mio papà.   Poi è venuto il tempo del lavoro difficile e di mamma che sorride, quando me lo dice, ma lo vedo che è triste, lo vedo che vorrebbe piangere ancora, lo vedo che papà le manca. E io fingo che va bene. Fingo di capire le cose che dice e che mi va bene.

 

Lunedì è stato il giorno più brutto della mia vita.

Sono tornato da scuola e sono contento: la maestra mi ha dato un bel dieci. In italiano. Il tema che ho scritto le é piaciuto così tanto che l’ha letto davanti a tutti, in classe. Questa cosa un po’ mi ha dato fastidio, e sono diventato rosso e mi sono sentito il sudore addosso mentre succedeva, ché poi i miei amici mi hanno preso in giro per tutta la mattina. Ma dentro di me sono stato felice, orgoglioso di una cosa ben fatta, come avrebbe detto il mio papà. Nel tema c’era anche lui, naturalmente. Quello che di lui ricordo.

Sono tornato a casa e dentro la pancia avevo tanta voglia di dire tutto a mamma. Agitavo le mani nell’aria, per aiutare le gambe a saltare più lontano possibile, per aiutare la testa a raggiungere il cielo, e dicevo “dieci, dieci,dieci!”. Mamma però non mi ha neanche guardato. Ha aperto la porta ed é tornata di corsa in cucina, come se mi aveva subito dimenticato, e s’è seduta a guardare la televisione con gli occhi che sembravano caderle dalla faccia. Stringeva uno straccio in mano, e lo rigirava tra le dita, e lo strizzava, e aveva le nocche bianche per quanto strapazzava quel panno sporco. Io l’ho raggiunta in silenzio, mentre la felicità in testa e dentro la pancia piano piano se ne andava via come fa l’aria quando ne mollo una e non lo dico a nessuno perché non bisogna farle, le scoregge, e se le fai almeno devi far finta di niente. Mamma guardava il telegiornale al primo canale, come fa sempre quando torno a casa, ma all’improvviso ho capito che ne aveva paura, che la televisione la faceva stare male e però guardava e non sapevo perché e allora mi sono messo a guardare anche io. All’inizio non riuscivo a capire di cosa mamma aveva terrore, non certo del signore vecchio che stava seduto e parlava con quella voce così noiosa, così triste. Mi sono sforzato di sentire le sue parole, mentre guardavo ora lui ora la mamma che era diventata una statua bianca. E poi il signore é scomparso. E al suo posto c’erano immagini che mi sembravano quelle di un film. Ho visto delle macchine ferme, i vetri rotti, una pioggia nera che bagnava tutto quanto. E persone per terra. Persone nelle macchine. Persone morte. Lo so. Voglio dire, si vedeva che erano morti. E poi c’era ancora la voce del signore vecchio che continuava a parlare e lo diceva. “Sono morti” ripeteva, infatti, “gli uomini della scorta sono morti tutti”. Sembrava che aveva paura anche lui, mentre lo diceva. Ho pensato che era per questo che mamma era spaventata,  e le ho messo una mano sul braccio, per rassicurarla, per dirle di non aver paura, che lei non sarebbe morta. Che c’ero io. Lei non sarebbe diventata una persona morta come quelle che vedevo dentro le macchine rotte e sulla strada bagnata. Ma mi sbagliavo. Non era per questo che mamma tremava.

Alla televisione, infatti, c’era anche mio papà. Cioè, c’era la sua foto, anche se era una foto brutta che lo faceva sembrare un vecchio come il signore del telegiornale. C’erano i suoi occhi, che però non erano come li ricordavo io, e non ridevano. E l’uomo del telegiornale diceva il suo nome. Lo ripeteva ma mi sembrava che sputava mentre lo diceva e diceva che lo stavano cercando, diceva che era stato lui a fare del male a quelle persone. Che mio papà era cattivo e che alla fine lo avrebbero trovato.

Ho guardato mia madre e finalmente lei ha guardato me. Tremava sempre. Ma non ha detto nulla. Si è alzata, ha spento la tivvù, ha tirato su con il naso e ha nascosto il moccio con la mano bagnato e poi mi ha chiesto se avevo fame. Le ho detto di sì. Ma non le ho raccontato del dieci in italiano. Non mi sembrava più una cosa bella. Dentro di me promettevo solo a me stesso che non dovevo piangere. Non davanti a lei. Non in quel momento. In quel momento brutto.

 

Dopo che ho visto papà alla televisione e l’uomo del telegiornale ha detto che è stato lui a fare del male a quelle persone morte, le cose sono cambiate. Ho sentito mamma dire al telefono che “tutto è precipitato”. Non so cosa significa ma so che è come mi sento io. Precipitato. Mamma parlava con la nonna, quando lo ha detto, e piangeva ancora. Ho pianto anche io, se è per questo, ma da solo, nella mia camera, nessuno mi ha visto e se lo dici a qualcuno ti uccido. Mentre mamma piangeva al telefono, ho cercato di capire perché dicevano quelle bugie orribili su papà. Ho cercato di immaginare dalle sue parole, le parole sussurrate a nonna, chi è così cattivo da voler fare del male al mio papà. Ma lei ha abbassato la voce, forse proprio perché non voleva che io sentivo. Ho capito solo che anche lei non ci credeva. Ripeteva: Brigate Rosse, non sanno cosa dicono, non sanno cosa dicono. E’ vero. Papà è buono, non fa queste cose. E che cosa sono le brigate rosse?

 

Papà non fa le persone morte. E’ quello che mi ripeto, mentre nel mio letto guardo un cielo senza le stelle. Forse sono precipitate anche loro. Vedo la notte nera e posso persino vedere il freddo che si attacca al vetro della finestra e lo bagna di piccole gocce e vuole entrare. Il freddo è grigio ma è anche un po’ rosso, come le mani che si spellano. Io resto chiuso nel mio rifugio fatto di coperte e mi difendo dal freddo e fisso il buio, fuori, senza paura, cerco le stelle ma non ce n’è, stanotte proprio non ce n’è. Allora penso a mio papà, a quella brutta foto, alla voce lenta dell’uomo che diceva quelle cose, e sento ancora il bruciore dentro la gola e negli occhi. E lo odio, l’uomo del telegiornale, lo odio per quello che ha detto. Odio tutti, odio il mondo, anche se la mia maestra mi direbbe che non sono bravo a dire così.

Poi mi sembra di dormire, ma sono seduto, e sento le voci. Come quando mia mamma lascia la radio accesa, e si appisola sul divano, solo che questa volta non è la radio.

Le voci vengono dal corridoio.

Sono in casa.

Papà. E’ l’unica cosa che mi scoppia nella testa. Papà. La sua di voce. Il suo modo di sussurrare, come quando non voleva svegliarmi, la sera, ma io fingevo di dormire e aspettavo il bacio sulla fronte, aspettavo il suo odore vicino a me.

Papà. Non mi sembra più un sogno e io non sto dormendo. Scendo dal letto,  e mi pare di tremare come quando ho la febbre. Ma non è per il freddo del pavimento. E’ per le voci. Che continuano a sussurrare, nel corridoio, e mi sembra che si allontanano, che vanno via e adesso, all’improvviso, ho davvero paura, il cuore mi scoppia e ancora una volta c’è la pioggia dentro i miei occhi. Perché le voci vanno via e allora vuol dire che va via anche il mio papà. Un’altra volta.

No, per favore. Un’altra volta no.

Non m’importa più d’essere scoperto. Apro la porta di camera, corro fuori, grido, piango, cerco il mio papà e lui è davvero lì. E’ davanti alla porta, e ha una borsa, come l’altra volta, e mamma è vicino a lui. E papà mi guarda, come se è sorpreso, come se non mi aspettava o non si ricordava di me e io vorrei urlargli che lo odio, perché stava andando via un’altra volta senza neanche salutarmi. Senza darmi un bacio. Ma quando lo abbraccio e lo stringo forte non gli dico che lo odio. Dico solo papà, papà, e adesso sì che piango, e non mi vergogno, non me ne importa un cavolo, come dice lo zio Alfio quando è arrabbiato. Non m’importa un cavolo di niente.

Papà non dice nulla, lui. Lui mi abbraccia solamente e mi sembra che trema anche lui, forse ha la febbre, forse ha freddo. Ma intanto mi stringe, mi fa quasi male, mi fa ridere, mi fa ridere tanto.

Poi dico “ahi!” e papà si scosta da ma, all’improvviso, e vedo la cosa nera che ha nella cinta dei pantaloni. So cos’è. E’ una pistola. Come quella dei film. Come quella che ha fatto male alle persone morte, alla televisione. Alle persone morte dentro le macchine rotte.

Papà mi guarda. Gli occhi di mio papà. Ho detto che sono grandi e belli, vero? Però adesso sono diversi. Non sorridono. Come la sua bocca, che me la ricordo anche quella, adesso. Non sorride la sua bocca. E non mi bacia più.

Mamma dice: “No...” e poi sento il rumore, forte, dentro di me e fuori. Il rumore delle finestre che si rompono, dei vetri che sembra esplodono. E la porta alle mie spalle che si scuote, come se c’è un gigante là dietro che vuole entrare. E che urla: “APRI APRI APRI!” con una voce grossa e arrabbiata.

E’ strano come non ho paura. Forse perché sono tra le braccia di mio papà. E’ strano come lui mi guarda. E’ strano come mi lascia andare.

“Papà!” grido anche io, ma cado a terra, e poi non vedo altro. Solo quegli uomini che entrano in casa mia e papà che scappa, che raggiunge la cucina, la terrazza, papà che urla anche lui, papà che ha in mano la pistola.

Papà che spara.

 

Ed è strano come questa immagine mi torni in mente così frequentemente, in questi ultimi tempi. Ed è curioso come, naturalmente, porti con sé tutto il dolore e la rabbia che negli anni non sono mai scomparsi, ma che anzi sono sempre rimasti lì, quieti e pazienti, come animali da salotto a farmi la loro non richiesta compagnia. Sarà per questi venti di minaccia. Sarà per quello che stiamo passando. Per quello che ritorna, nonostante tutto. Il funzionario di polizia, solerte, mi ha detto: “E’ a rischio anche lei, professore. Si tuteli.”

“Nonostante me?” ho domandato. “Nonostante la mia storia?”

Quello non era uno scemo. Ha detto: “Non tutti sanno chi è stato suo padre. E non a tutti importa”.

Ed è vero. Neanche io, in fondo, so chi é stato realmente mio padre. Ma importa a me. Perché so cos’ha fatto. So che ha lasciato dolore e vuoto, dietro di sé; e me, naturalmente, che avrei voluto chiedergli semplicemente: e io? Io che t’ho voluto bene? Io che t’ho aspettato? A me non hai pensato quando uccidevi e scappavi e uccidevi?

Domande sceme. Da bambino appunto.

Lo so. Anche ora, mentre affronto il sole di Roma, su questa scalinata di marmo che ha visto tanto sangue e tanta amarezza. All’ombra di questa cattedrale della cultura che ha prodotto tanto odio. So quanto queste domande siano inutili. Eppure necessarie.

Gli studenti mi sfilano accanto. Mi salutano. “Professore” “professore buongiorno”.

Io rispondo distrattamente. Sorrido alle mille facce anonime che affollano, di solito, le mie lezioni, ma che non saprei distinguere da altre mille. E che pure sono lì per me, per le cose che dico, per l’importanza che – qualcuno ripete, i giornali strombazzano – ha il mio messaggio. E mi chiedo chi, tra loro, avrebbe il coraggio o la codardia di abbandonare affetti e amore per un messaggio come il mio, per un’idea folle, una rivoluzione vagheggiata, una mostruosa illusione?

Mio padre a questa domanda non ha mai potuto rispondere. L’ultima sera che mi ha abbracciato è stata l’ultima sera della sua vita. E non avrebbe mai immaginato, certo, che col tempo, negli anni, proprio io sarei diventato uno dei suoi obbiettivi, il bersaglio dei suoi compagni futuri. Non perché dico cose diverse da quelle in cui credeva. Ma perché le dico in modo diverso. Perché penso in modo diverso.

Penso al bambino che ero. Al padre che avrei voluto. E che ho amato così tanto da stare male. Nonostante tutto. Nonostante lui.

Poi, mentre scendo, finalmente, li vedo.

Sono due. Ma altri, lo so, aspettano da qualche parte, qui vicino. Due ragazzi. Un uomo e una donna. Salgono la scalinata, apparentemente abbracciati, apparentemente felici. In realtà i loro occhi non ridono. Scrutano. Fissano. Ma non ridono.

Come gli occhi di mio padre quando l’ho visto l’ultima volta. Mi abbracciava, tremava con me, e mi amava. Ma i suoi occhi avevano smesso di ridere per me e per il mondo da un bel pezzo. Forse per questo li riconosco. Perché assurdamente gli somigliano. Sono passati invano questi trent’anni.

La coppia sale verso di me. Simula noncuranza, ma so che la loro attenzione è tutta per me. Io che resto in piedi, impietrito, la borsa inutile al mio fianco, il peso delle mie idee, della mia vacua cultura che batte sulla gamba, pencola senza motivo.

Non posso spostarmi. Non posso fuggire. Non posso urlare. Riesco solo a pensare a me, a mio padre che mi lasciava, al dolore e alla morte che aveva causato.

I due mi raggiungono. Sollevano le pistole. Insieme, con un perfetto quasi piacevole sincronismo. Le puntano su di me.

“Brigate Rosse, professore...” dice il ragazzo.

Avrà meno di trent’anni.  Ma forse già un figlio. Da qualche parte.

Mi viene in mente una sola frase. Quella che avrei voluto dire a mio padre  quando lo uccisero, quella sera di mille anni fa. Quella che ho continuato a ripetere al vuoto, nel silenzio, nella notte che è durata fino ad oggi. E che adesso vorrei sbattere sulla faccia di questi due miei teneri assassini.

Una domanda scema. Da bambino.

Ma a quelli che vi amano? vorrei chiedere.

A quelli che vi amano, dopo, cosa racconterete?