Baltimora, dicembre 1834.

Il fuoco nel camino si era spento da ore.

Una luce moribonda filtrava dalla finestra disegnando deboli ombre sulle pareti scrostate della stanza.

L’uomo arrotolò gli otto fogli di carta da minuta, sui quali aveva ricopiato il suo racconto, e li infilò nella tasca sinistra della giacca. Si annodò la cravatta nera, mise il cappello di feltro, e uscì a cercare un po’ d’oblio in qualche taverna. Stanco di sfregare la penna sulla carta. L’indomani mattina avrebbe pensato a quale giornale spedire il racconto, sperando nella sua pubblicazione, e avere così un po’ di soldi per trascorrere il Natale.

Un tremito lo attraversò. Si strinse la giacca consunta al corpo magro e si sfregò le mani, cercando inutilmente di riscaldarle. Malgrado portasse guanti di lana aveva le dita gelide come quelle di un morto.

Uscì in strada tra la nebbia, così fredda da penetrargli fin dentro le ossa. All’improvviso ebbe un capogiro. Cercò con la punta delle dita il suo manoscritto, per trovarvi la forza d’andare avanti. Da tre giorni non toccava cibo e non aveva mai chiuso occhio per la febbre di terminare quel racconto!

Nonostante tutte le avversità era certo del proprio genio, come sapeva che presto tutto il mondo avrebbe riconosciuto la sua grandezza. Per questo scriveva giorno e notte senza risparmiarsi, come un bravo muratore, posando mattone dopo mattone, fino a raggiungere la costruzione perfetta.

Quei pensieri lo fecero di nuovo star meglio, si sentì addirittura eccitato! Arricciò il labbro superiore sui denti, pregustando gloria e successo!

Si diresse verso la Benny House Tavern, a pochi isolati di distanza, agitando le braccia in aria e borbottando tra sé come rivolgendosi agli spiriti, mentre la nebbia diventava sempre più fitta.

Lui non avrebbe fatto la fine di  suo cugino Thomas, morto alcolizzato. Così povero da doversi scavare la fossa da solo, ai piedi di un cipresso, tossendo e sputando sangue.

Lui non sarebbe mai stato vinto dal “verme conquistatore”!

Entrò nella taverna spalancando la porta con ritrovato vigore e andò a sedersi a un tavolo sul fondo, in una nicchia scavata nel muro, rivestita d’assi ammuffite.

La grossa lanterna centrale faticava a proiettare la propria luce fino a quel posto, nella sala c’era molto fumo, e odore di grasso rancido e di birra.

Appoggiò il suo manoscritto sul tavolo, si frugò in tasca, e vide che gli erano rimasti soltanto pochi centesimi, bastanti appena per il solito bicchierino di cognac che il taverniere gli appoggiò sul tavolo, sgarbato.

Lo bevve d’un fiato. Chiuse gli occhi e rimase così, un istante, aspettando che il bruciore dalla gola scendesse nello stomaco, e fermasse il tremore delle mani.

Quando li riaprì vide una  persona seduta di fronte a lui, che stava leggendo in silenzio il suo manoscritto, accarezzandosi i baffi sottili.

Aveva l’aspetto d’un gentiluomo: il mantello ancora sulle spalle, la giacca nera di stoffa buona, e un fazzoletto rosso annodato intorno al collo. Un ciuffo di capelli neri gli ricadeva sulla fronte.

Quando l’uomo ebbe finito di leggere, posò i fogli sul tavolo e lo guardò. I suoi occhi erano magnetici e luminosi. Sembrava soddisfatto, come chi abbia appena gustato una buona pietanza speziata.

“Perdoni la mia intemperanza” disse, “ma non ho saputo controllarmi”, e inchinò il capo come un penitente. “Permetta che mi presenti: Benedict Vespero, editore… e sarei interessato a pubblicare questo suo racconto, signor…”

“Grey… Guglielmo Grey.”

Pronunciò il proprio nome sentendo il sangue pulsargli forte nelle tempie.

Vide che l’uomo portava al dito mignolo, un grosso anello con una pietra nera scolpita a forma di scarabeo.

Si passò la lingua più volte sulle labbra diventate improvvisamente secche. L’uomo intuì, fece un cenno al taverniere che subito portò una bottiglia di ottimo cognac.

Fu Benedict Vespero a riempirgli il bicchiere.

"Naturalmente vorrei riuscire a stampare questo suo racconto il più presto possibile” disse, in tono certo, ma poi s’adombrò, come se un problema insormontabile lo stesse preoccupando.

Guglielmo Grey rimase con il bicchiere fermo a mezz’aria, terrorizzato che tutto stesse già per naufragare.

Benedict Vespero si versò solo due dita di cognac.

“Ci sarebbe… un piccolissimo problema“ mormorò.  “Perché io, gentile amico mio, per principio, non pubblico autori viventi…”

Bevve d’un fiato e ritornò a guardarlo, di nuovo con lo sguardo tranquillo.

Gli fece cenno di terminare il cognac e gli riempì di nuovo il bicchiere.

Congiunse le mani davanti alla bocca e sorrise: “Ora non si disperi, la prego. La soluzione è più semplice di quello che non sembri”, estrasse una pistola da sotto il mantello e la poggiò sul tavolo.

Gugliemo Grey guardò ipnotizzato il calcio dell’arma finemente intarsiato e la sua canna lunghissima.

“Io le parlo unicamente a suo personale vantaggio perché mi creda: lei, dopo questa pubblicazione, diventerà famoso. Il mondo gli tributerà onori e gloria… Non è quello che ha sempre sognato?”

Gugliemo Grey sentì rimbombare quella frase nel cervello, con fragore di tuono. Un dolore acuto e improvviso lo attanagliò, facendolo contorcere, mentre sentiva la lama di un coltello scavargli le viscere!

Madido d’un sudore ghiacciato farfugliò qualcosa, una preghiera o un’orribile bestemmia. Passò in pochi attimi dall’eccitazione al terrore più folle, fece per dire qualcosa, tentò di urlare, ma un conato gli soffocò la gola.

"L’alba spunterà a momenti” disse Benedict Vespero, mentre con grande sicurezza dosava la polvere da sparo. Inserì una palla in canna, armò il cane, e gli spinse la pistola davanti.

“Ci pensi in fretta perché la vita offre spesso una sola occasione… Questa sera o… mai più."

Si alzò avvolgendosi completamente nel suo mantello nero, e si allontanò.

Non aveva ancora raggiunto la porta quando sentì lo sparo.

* * *

Davide Tatorino alzò gli occhi dalle fotocopie e guardò Omero Semprini seduto sulla poltrona davanti. Lui fece subito una faccia soddisfatta, stringendo gli occhi neri come due caramelle alla liquirizia, dietro gli occhiali spessi da miope.

Omero Semprini era un uomo enorme, il cui corpo sembrava stato modellato nel burro che, immerso in quel caldo asfissiante prodotto da una vecchia stufa in ghisa, si ammorbidiva, depositandosi strato su strato, sui fianchi.

Portava delle pantofole perché aveva sempre dolori ai piedi, orribili, sformate ai lati, che mal sopportavano tutto quel peso.

Indossava quasi sempre un pile viola scolorito e macchiato, e dei pantaloni di una vecchia tuta da ginnastica.

Naturalmente il Semprini non era un ex atleta, la sua specializzazione aveva un nome e un cognome preciso, una fissazione: quella per un uomo chiamato Edgar Allan Poe.

Alle pareti sfoggiava trofei incredibili dello scrittore americano: una copia originale del 1845, di “The Raven and other Poems”, un pezzo di granito -e anche un mattone- entrambi provenienti dalla demolizione degli uffici del Southern Literary Messenger, dove Poe aveva iniziato la sua carriera di giornalista. In una vetrinetta c’era esposto un bicchiere proveniente dalla Swann Tavern di Richmond, con tanto di certificato che -a caratteri gotici-, ne attestava l’autenticità, affermando che in quel bicchiere di vetro, basso, da liquore, aveva bevuto il grande poeta e scrittore statunitense.

In un’altra piccola bacheca era conservata una riproduzione -a tiratura limitata-, della chiave rinvenuta nella tasca dei pantaloni di Poe, nei giorni terribili del suo delirio, poco prima della sua morte. Una chiave che poi era servita ad aprire il cofanetto dove teneva conservate le sue poche e misere cose.

L’originale, -informava la targhetta in ottone-, era custodito al Richmond’s Poe Museum, in Virginia.

Nella parete di fronte una stampa antica, di grandi dimensioni, di un ritratto in bianco e nero dello scrittore realizzato dal fotografo americano W. S. Hartshorn, nel novembre del 1848.

Tutta quella roba era sicuramente costata un sacco di soldi, come quella che Omero teneva catalogata in armadi e cassetti, dislocati in tutta la casa. Suo padre lo aveva mantenuto senza mai lamentarsi, attribuendo il carattere strano e solitario del figlio, cresciuto quasi senza mamma, alla scomparsa prematura di sua moglie.

Una mattina però, alla veneranda età di 67 anni, 3 mesi e 1 giorno, stanco di questo figlio quarantenne che viveva come un recluso, seduto tutto il giorno davanti al proprio computer, lo aveva cacciato di casa. Costringendolo a trovarsi un appartamento. Intimandogli di portandosi via tutte quelle sue cianfrusaglie!

Perché Omero Semprini era riuscito fino ad allora, a non lavorare un solo giorno, se non per un brevissimo periodo -neanche una settimana-, durante la quale aveva lavorato in un negozio vicino Ponte Vecchio. Grazie all’interessamento di suo padre.

Nel retro della bottega, trascriveva motti toscani su terribili quadretti di legno, da vendersi poi ai turisti. Specializzandosi negli ultimi due giorni, prima di licenziarsi, in “attestati su pergamena”, lauree in Gingillometria applicata o Scienza della confusione, diplomi con indirizzi in Friggitore d’aria o Gran Rigira frittate.

Quando anche suo padre morì, rimasto solo senza neanche l’ombra di un parente, dovette ridurre drasticamente tutte le spese e imparare a vivere con l’esigua eredità, che arrotondava comprando e rivendendo su eBay quello che gli capitava.

Omero Semprini sospirò, aspettando che il suo ospite si mostrasse finalmente elettrizzato come lui, ma Tatorino non sembrava affetto dallo stesso male. Pensava a tutt’altro.

Appoggiate le fotocopie sul tavolino basso di cristallo, avvicinò il posacenere, si accese una sigaretta, e si allentò la cravatta nuova che gli aveva regalato Raffaella. Una Emanuele Finollo, bella, forse un po’ troppo da dandy.

Aspirò lentamente il fumo della sua sigaretta restando ancora silenzioso, mentre il Semprini cominciava ad agitarsi, impaziente, sulla sua brutta poltrona in pelle marrone.

“Allora? Che ne pensi?” ripeté. Rosso in viso.

Tatorino si grattò una tempia e pensò, in ultimo, che quella casa lo inquietava… Le luci sempre così basse, quelle assurde pareti completamente dipinte di nero, e la vista del plastico davanti a lui raffigurante il cimitero della Westminster Church di Baltimora, dov’era stato sepolto Poe, non è che migliorasse le cose!

Anche su quel plastico il Semprini ci aveva lavorato per mesi e mesi, con lo stucco e la cartapesta, consultando vecchie foto e immagini rintracciate in rete, scambiandosi informazioni con altri appassionati come lui sparsi in tutte le varie parti del mondo, nel tentativo di ricreare l’esatta situazione della mattina del 7 Ottobre 1849, quando lo scrittore venne frettolosamente sepolto.

La sua morte era giunta improvvisa e lui aveva avuto solo il tempo di mormorare quel: “Lord, help my poor soul!”. Signore, aiuta la mia povera anima.

Nel plastico c’era ricostruito, in scala, il vecchio muro di pietra che costeggiava il cimitero, il cartello con l’indirizzo di 519 Fayette Street, un cancello in ferro, la stradina interna tra gli alberi, le sepolture dei soldati morti durante la guerra civile americana, e la tomba dello scrittore che consisteva in un semplice blocco di arenaria senza nessun nome, solo un numero: 80.

Collocata vicino a quella di suo nonno David Poe.

Omero Semprini si schiarì la gola per richiamare ancora l’attenzione di Tatorino.

Lui, finalmente, distolse gli occhi dal plastico e spense la sigaretta.

“Hai solo queste fotocopie?” gli domandò. Il Semprini subito si offese. “Ovvio che no!” disse, stizzito. “Le ho fatte solo per farti leggere di cosa si trattava!”

“E la lettera originale come l’hai avuta?”

“Era dentro un libro di poesie di Sarah Whitman… Le sue poesie non mi piacciono molto ma era una grande amica di Poe, e vendevano il libro per soli due euro…”

I libri in lingua originale, anche se vecchi, ai mercatini non li comprava mai nessuno, e questa era stata la sua fortuna. A casa, sfogliandolo, aveva trovato una rosa secca e quella lettera, datata Genova 1897, scritta da una certa Angelica Parnell, a una sua amica di nome Maria.

La lettera diceva:

Genova, 2 gennaio 1890

Carissima Maria,

ho pensato che nel giorno del tuo compleanno, ti avrebbe fatto piacere leggere un racconto del nostro autore preferito, scoperto qualche giorno fa tra le carte di mio padre.

Nell’aiutare la signorina Musso, a mettere ordine nello studio, ho trovato una vecchia cartella del Philadelphia Saturday Courier, con i ricordi di quando lui vi lavorava come cronista, nei primi anni ’30.

Dentro vi erano le solite cose che si conservano: foto dei colleghi, alcuni articoli, e dei fogli custoditi dentro una busta.

Appena ho scorso cosa vi fosse scritto in quelle pagine, non ho potuto fare a meno di pensare a te!

Ormai possiamo ritenerci delle vere esperte del genere fantastico e ti dico che questo racconto non è mai stato pubblicato in Italia!

È incredibile quando mi rendo conto che sono passati più di trent’anni, dal giorno in cui comprammo qui a Genova, due copie di “Storie orribili”, con i racconti di Poe, Hoffmann, e Dickens. Ne ricordo ancora bene l’edizione, stampata dall’editore Botta di Torino, che purtroppo non posseggo più con mio grande rammarico e dispiacere.

Sono convinta che proprio questa nostra passione, coltivata in segreto negli anni, sia stata la ragione di un’amicizia così intensa e durevole!

Ora ti lascio. Rammenta che non sono una perfetta traduttrice e che disgraziatamente non ho potuto chiedere aiuto a mio padre, ancora sofferente. Spero comunque di aver fatto un buon lavoro e che il racconto ti piaccia com’è piaciuto a me.

Buon compleanno ancora

Tua, Angelica Parnell.

Omero Semprini portò la mano destra  sul cuore.

“Aveva ragione lei” disse, agitato, “questo racconto non è mai stato pubblicato in Italia, né allora né mai… Come non esiste neanche una sua stesura in lingua originale…”

Tatorino si accese un’altra sigaretta, ne offrì una anche al Semprini, che subito accettò felice come un bambino, perché non osava chiederla.

Aspirò con soddisfazione e riprese a parlare. “Molti giovani scrittori erano soliti spedire ai giornali, i propri racconti, e quando venivano accettati, anche se pagati pochissimo, rappresentava un’ottima occasione per farsi conoscere…”

Anche Poe ne aveva spediti alcuni al Philadelphia Saturday Courier, e in un numero di marzo del 1835, era stato anche pubblicato. Scriveva tanto ma non sempre cose degne di lui.

“Ho fatto delle  ricerche su questa famiglia Parnell, a Genova, ma non ho trovato granché, poi è saltata fuori una lettera conservata nell’archivio Salvini…”

Tra i tanti memoriali, codici e documenti storici, conservati in quell’archivio e spesso mai pubblicati, esisteva un carteggio avvenuto tra Baccio Emanuele Manieri e lo stesso Giorgio Salvini.

Il Manieri aveva tradotto e curato una raccolta di racconti di Edgar Allan Poe, stampata nel 1869 presso la tipografia Pirola di Milano.

In una sua lettera raccontava di aver conosciuto un giornalista americano appena trasferitosi a Genova che, imbarazzato, confessava di aver rifiutato a un giovane Poe, alcuni suoi racconti, giudicandoli mediocri.

Se li avesse pubblicati, i lettori del suo giornale se ne sarebbero di certo lamentati, e così il suo Direttore, perché quello stile narrativo era pieno d’enfasi, zeppo di punti esclamativi, e ancora troppo indeciso fra umorismo e orrore.

“Non c’era scritto chiaramente che si trattava di John Parnell, il padre della donna che ha scritto quella lettera, e che avesse lavorato al Philadelphia Saturday Courier ma è ovvio che…”

“Possiedi una copia anche di questo documento?”

Il Semprini ammise di no. “Ho avuto tutto per e-mail ma ho già richiesto una copia ufficiale all’archivio Salvini… E dovrebbe arrivare domani mattina…”

Tatorino dondolò il capo.

“Comunque” seguitò il Semprini, “anche se non è stato tradotto da un professionista, credo che lo stile sia esattamente quello di Poe…”

“Hai contattato un filologo?”

“Ho mandato una copia al Professor Ottaviani.”

Tatorino alzò un sopracciglio: Quel “professor Ottaviani”? Colui che appena qualche mese fa, all’Istituto Francese, in occasione di una conferenza su Mallarmé e Baudelaire, famosi traduttori di Poe, aveva crocefisso tutti i presenti parlando per tre ore filate di: Poe, un angelo che aveva una missione nel mondo?

Tatorino evitò ogni commento.

Dette una occhiata di sfuggita all’orologio e vide che erano già le 17 e 30. Aveva promesso a Raffaella di essere ad Arezzo dopo cena, ma il Salvini, vivendo in una bolla fuori dal tempo, non si era degnato di spiegargli perché l’avesse chiamato.

“Ci facciamo un caffè?”

Tatorino ovviamente accettò. Il cucinotto, tra l’altro, era la parte meno lugubre della casa. C’erano piante che cadevano dal soffitto, la luce era quella di un neon ma comunque intensa e vitale, e nessuna cosa che ricordava la triste e tormentata vita del grande scrittore americano.

Il Semprini lo precedette ondeggiando sulle pantofole scalcagnate. Prese da uno sportello della cucina il barattolo del caffè, preparò la moka, e poi, del tutto inaspettato, tirò fuori un vassoio stracolmo di frittelle di riso che mise in tavola.

“Manca ancora tanto a San Giuseppe!” disse Tatorino, entusiasta di quella mossa, anche se ligio alle tradizioni culinarie.

“Lo so, ma ormai, passata la Befana iniziano tutti a farle!” si giustificò. “Le ho prese stamani, ancora calde, in quel forno prima di Piazza Santo Spirito, sapendo che ti piacciono…”

“Cosa ti passa per la mente, Omero? Perché tutte queste attenzioni?”

Il Semprini sorrise. Accese il fuoco sotto la caffettiera e si mise seduto anche lui.

Cacciò in bocca la prima frittella e la pelle del viso gli si stirò, e gli occhi s’illuminarono.

“Assaggia…”

Tatorino non si fece pregare. Masticarono in silenzio beandosi dell’odore di scorza di limone, di arancia, di rhum e vaniglia, che aveva invaso la casa.

Alla quarta frittella Tatorino gli domandò: “Stai preparando qualcosa per il bicentenario della nascita di Egdar Allan Poe?”

Il Semprini fece segno di sì. Finendo di masticare la sesta frittella.

“Una cosa grandiosa” disse, senza alcuna modestia. “Non sono mai stato tenuto in grande considerazione come studioso di Poe, ma adesso si ricrederanno!”

Si sbottonò. Gli disse che avrebbe pubblicato il racconto di Poe completamente a sue spese.

“Ne parlerà tutto il mondo!”

Si era già messo d’accordo con il Mannucci, de L’Antica Tipografia Fiorentina, per fare un’edizione importante, di lusso, stampata su carta eccezionale. “Una uso mano della cartiera Magnani di Pescia!”

Tatorino sbirciò la moka che stava lanciando i primi segnali di fumo, e mormorò: “Sono bravi, ma anche un po’ cari…”. Omero neanche lo sentì, si alzò, e andò a spegnere la fiamma.

Continuò in preda a quella febbre, raccontandogli che la copertina sarebbe stata in pelle nera con stampa a rilievo: un’incisione su lastra di metallo, del ritratto di Poe, quello scolpito sulla sua ultima tomba. Ne avrebbe fatte tirare 500 copie, numerate. Il volume avrebbe contenuto la lettera, il racconto inedito, i suoi studi fatti in tutti questi anni, e le testimonianze incredibili raccolte su di lui.

“Un’edizione bilingue e la traduzione l’ho curata io stesso, personalmente…”

Tatorino bevve il caffè, un po’ preoccupato. Omero continuò dicendogli che tutto era già organizzato, che avrebbe inviato il libro gratuitamente alle più importanti librerie e biblioteche di tutto il mondo, e che aveva dato al Mannucci l’elenco completo con tutti gli indirizzi ai quali spedirlo, appena finito di stampare.

“Dimmi la verità: hai vinto al Gratta e Vinci?”

“No. Per questo mi serve da te un grande favore…”

Tatorino alzò un sopracciglio.

Il Semprini gli confessò che aveva versato solo un anticipo di mille euro al Mannucci, e che ne occorrevano altri diciottomila, più la cifra che sarebbe servita per il corriere internazionale.

“E quindi?”  disse Tatorino, rigido come un manico di scopa.

Lui si alzò goffamente, ma non sembrava preoccupato, anzi: uscì dal cucinotto dondolando come un orso che stava andando a prendere un barattolo di miele.

Ritornò alcuni minuti dopo con un pacco, che sembrava contenere un quadro.

Tatorino si accese all’istante una sigaretta. “Di cosa si tratta?”

Il Semprini gli mise davanti una foto.

Tatorino sgranò gli occhi.

“Non saprei a chi rivolgermi per venderlo” ammise il Semprini, molto sinceramente. “Mi fregherebbero di sicuro, ma questo è il tuo campo, conosci un sacco di persone, e mi chiedevo se…”

Tatorino cercò di articolare qualcosa ma aveva ancora la bocca spalancata.

“Sì, è un disegno di Hieronymus Bosch… L’ho ereditato dal mio povero babbo e da quello che ho potuto capire, dovrebbe valere molto più di ventimila euro…”

Gli brillarono gli occhi perché si sentiva a un passo dal realizzare il suo sogno.

Tatorino preferì non sbilanciarsi: poteva trattarsi di un disegno, o forse di un’incisione, del grande Maestro fiammingo… Ma poteva trattarsi anche di un disegno preparatorio, come ne aveva fatti -ad esempio-, per il suo famoso “Uomo-Albero”.

Lo stile era inequivocabilmente quello di Bosh: un uomo seduto su un dado da gioco, con un libro aperto in mano, e accanto a lui un grosso imbuto…

Percorso da corrente elettrica sotterranea si alzò in piedi e fece per dire qualcosa ma il Semprini lo bruciò sul tempo.

 “Ti do totalmente carta bianca” gli disse, “e devi considerare anche una percentuale per il tuo disturbo.”

“Non voglio nessuna percentuale” fece Tatorino, “è solo un favore che mi chiedi ma…”

Il Semprini gli mise bruscamente il quadro tra le mani. “Ci vediamo fra tre giorni, venerdì, direttamente alla stamperia del Mannucci, perché gli ho promesso che l’avrei saldato per quella data.”

“Ma in tre giorni non posso trovare un acquirente che”. “Mangiati l’ultima frittella e portatelo via!” lo zittì Omero, sorridendogli. “Questi saranno i soldi meglio spesi in tutta la mia vita!“ esclamò, “non ho moglie, né figli, né fratelli e né nipoti… a chi dovrei lasciarlo? Ai corvi?”

Rise da solo della sua battuta.

“Non vuoi che ti firmi due righe?”

“No. Ci vediamo venerdì in tipografia, alle 15.”

Tatorino sbuffò, mise la foto in tasca, e prese il pacco.

Scese le scale rimuginando a chi avrebbe potuto telefonare per venderlo, soprattutto così di fretta, senza farlo valutare o attestarne l’autenticità.

La fretta era una bruttissima compagna di viaggio negli affari. Bosch l’avrebbe ritratta come una donna bendata che ti trascinava verso un baratro di fiamme, attraverso un paesaggio formicolante di grilli e mostriciattoli, di orecchie trafitte da pugnali, pesci volanti, e diavoli in attesa del tuo capitombolo.

Agitato, uscì dal portone e vide che era scesa la nebbia. S’incamminò per Borgo San Frediano rasentando i muri, con quel fardello sottobraccio.

“Quel bischero non si rende mica conto in che casino mi ha messo!” disse, come stesse parlando agli spiriti.

La nebbia era sempre più fitta. Gli sembrò di camminare sperso in nessun posto, e si sentì smarrito: morto al mondo, al cielo, e alla speranza.

Le vetrine dei negozi emanavano deboli aloni di luce e ogni tanto un’ombra attraversava la strada, o scompariva dentro un portone. Non transitava nessuno come nel giorno del Giudizio Universale. Solo un autobus elettrico, completamente vuoto, gli si materializzò accanto all’improvviso, emettendo un debole ronzio.

Una visione che subito scomparve nel nulla.

Mise una mano in tasca per cercare di riscaldarla, sentiva brividi di freddo, ma dette la colpa al suo soprabito leggero. Cercò di raggiungere a passo svelto l’auto, una Fiat Croma che aveva noleggiato quella mattina, faticò a ritrovarla nascosta com’era dalla nebbia.

Aprì il portabagagli, mise dentro il quadro, valutandone l’imballaggio: sembrava una mummia di uno strano animale avvolto da centinaia di metri di scotch.

Chiuse la bauliera. Erano già le 19. Pensò che fosse meglio mangiare prima qualcosa e poi mettersi in viaggio. Odiava guidare con la nebbia, specialmente nel Valdarno, e calcolò che per fare i 97 chilometri che lo separavano da Arezzo, gli ci sarebbero volute non meno di 12 ore!

Si ricordò che l’avvocato Marcotulli gli aveva parlato di una nuova trattoria lì vicino, quasi all’inizio di Via dell’Orto. Si fece quindi coraggio, riaprì il portabagagli, prese di nuovo quel fardello, e se lo trascinò dietro.

Trovare la trattoria non fu più facile che scovare l’auto.

Non esisteva ancora nessuna indicazione né insegna, solo un foglio di carta gialla -di quella da vecchio macellaio-, attaccato a una bassa porta a vetri…

Solo quando ci passò davanti s’accorse di quel foglio con su scritto, a pennarello: “Da Bea”, grazie a un debole chiarore color dello zolfo che proveniva da dentro la trattoria.

Richiamato da un fortissimo odore di bollito, oltrepassò la porticina, le sue tendine a roselline bianche, ed entrò guardingo perché l’uso di quel tipo di carta da macellaio -che per tutti era sinonimo di “vecchia antica trattoria”-, lo aveva sempre insospettito.

L’interno era composto da una stanza molto piccola, senza nessuna finestra dove, a fatica, erano riusciti a metterci ben tre tavoli, con sopra tre candele.

“E’ troppo presto per mangiare?” chiese ad alta voce.

Si affacciò una donna, reggeva una mezza luna con una mano grossa quanto una costata di manzo.

Scosse la testa e gli indicò uno dei tre tavoli.

“Di già pronto, se le va, c’è il bollito…”

Tatorino disse che andava benissimo.

“E da bere cosa le porto?”

Ordinò mezzo litro di vino rosso della casa.

Mise il quadro appoggiandolo su una sedia accanto, poi si tolse la giacca. Sentì ansimare dietro le spalle e si girò di scatto. La donna lo stava guardando con occhi bovini e con in mano il mezzolitro.

“Le serve il bagno?”

Lui fece segno di sì.

Lei posò il vino, accese la candela, e gli indicò una porta sul fondo, indistinguibile dalla parete.

Il locale era piccolissimo, il bagno ancora di più. Tatorino cercò l’interruttore e mentre si apprestava a fare quello che doveva, visto il lungo viaggio, pensò al quadro lasciato sulla sedia.

Forse trentamila euro in completa balia di ladri, furfanti e assassini.

Uscì più in fretta che poté, e solo quando vide che il pacco era ancora lì, accanto a un vassoio gigantesco di bollito, fece un lungo respiro e si sentì meglio.

Guardò quella montagna d’ossa. Sbalordito ne contò ben sette tipi diversi: un osso enorme col midollo, un femore, un ginocchio, uno stinco con della carne intorno, e altre tre ossa non meglio identificate, di cui una ancora coi tendini attaccati. Poi c’era una lingua, una coda intera, una testina di vitello, una zampa di gallina vecchia, un piede di manzo, un grosso pezzo di sottopancia, e un numero infinito di nervetti grassi e di cartilagini gelatinose.

“Un bollito così non l’ha mai mangiato!” disse la Bea, non certo avvezza ai sorrisi, e posò nei dieci centimetri quadri rimasti vuoti sul tavolo, una tazza di brodo bollente e un macinapepe di legno nero che assomigliava a un feticcio vudù.

Tatorino inspirò beato tutti quei vapori poi, come un guerriero antico, mise da una parte le preoccupazioni e cominciò a tagliare e a masticare, a oliare e pepare, sotto la luce oscillante della fiamma della candela.

Tre quarti d’ora dopo, uscì da quella sauna benefica, sazio, stordito dal caldo, dal lesso e dal vino, ma completamente rigenerato.

Come stupore si accorse che Firenze, intorno a lui, era completamente sparita nel nulla.

Arezzo, il giorno dopo.

Uno spiffero gelido come la mano di un morto arrivò fino al letto di Raffaella, svegliandola di colpo. Lei si tirò su, guardò la sveglia che stava segnando  le 8 e 06, e disse a voce alta: “Se vuoi star fuori a fumare, almeno chiuditi dietro la portafinestra! Si muore dal freddo!”.

Tatorino, sveglio già da un’ora, era seduto in terrazzo con due gradi sottozero e si rigirava tra le mani la foto del Semprini, ancora scervellandosi su chi avrebbe potuto comprare quel benedetto disegno.

Il difficile non era tanto trovare un cliente, ma chi fosse in grado di dargli immediatamente i soldi in contanti, o al limite anche un assegno circolare.

“Vuoi un caffè o preferisci morire lì, congelato?” gli domandò una voce amica attraverso il vetro appannato. Lui spense la sigaretta e rientrò. Lei, in pochi minuti, si era già lavata, pettinata, quasi vestita, e aveva messo il caffè sul fuoco. Lui, aveva solo pensato a un nome: Pierluca Palmieri, della galleria Golden Art di Arezzo, specializzato in dipinti antichi ma, soprattutto, proprietario di altre due gallerie situate in luoghi strategici: Forte dei Marmi e Madonna di Campiglio.

Quest’uomo poteva avere i soldi e i clienti giusti.

Soddisfatto baciò Raffaella e andò a prendere il cellulare.

“Faccio solo una telefonata veloce” si scusò. “Bene” disse lei, mettendo sul tavolo la moka.

Apparecchiò con due tovagliette all’americana, due salviette color fucsia, due tazzine, due cucchiaini, lo zucchero per Tatorino e il miele di melata d’abete per se stessa.

Poi latte scremato, un barattolo con dentro dei biscotti senza zucchero, senza uova, senza burro, di sola farina di Kamut.

“Ho lasciato un messaggio sul cellulare di Palmieri, della galleria Golden Art” le disse, sedendosi. “Lo conosci?”

 “Non direttamente” fece lei, “è quello che assomiglia fisicamente a Luca di Montezemolo, no? So che è tanto ricco quanto tirchio...“ e indicò con la testa il quadro. “Pensi di venderlo a lui?”

Tatorino fece una smorfia.

“Auguri.”, e gli versò il caffè.

Un’ora dopo Pierluca Palmieri richiamò Tatorino.

“Ho ricevuto il tuo messaggio” disse, “ora sono fuori Arezzo ma potrei riuscire a essere in galleria tra due ore… Mi puoi anticipare di cosa si tratta?”

Béh… “ esitò lui, “credo si tratti di un disegno di Bosh… la data indica che è del 1475…”

Il Palmieri rimase in silenzio.

“Vuoi che te lo descriva?”

“Sì… è meglio...” disse lui, stranamente già scocciato.

“C’è un uomo che legge un libro, seduto su un dado, accanto ad un imbuto rovesciato…”

Il Palmieri continuò lui la descrizione: “davanti all’uomo, è seduto per terra un mendicante, che sta suonando una ghironda fatta col cranio di un animale… Sul fondo una casa in rovina, da cui esce una volpe vestita da monaco, e in lontananza un incendio sta distruggendo un castello...”

“Si…” ammise Tatorino confuso.

“Il disegno - per caso-, è dentro una cornice del ‘600 con una targa con inciso: Hieronymus Bosh trattino 1475?”

Tatorino si afflosciò.

 “Ancora quella cagata che mi ritorna tra le palle!” sbottò il gallerista con linguaggio assai forbito.

Tatorino socchiuse gli occhi e pregò Santa Rita da Cascia, patrona dei casi disperati.

Il sosia di Montezemolo -ma molto meno ricercato di lui nel parlare-, gli raccontò che quel disegno avevano già cercato di venderglielo circa otto mesi prima. “Uno di Firenze” disse, “non del giro”. Uno che diceva di averlo comprato più di venticinque anni fa. “Quando a Firenze c’era ancora quel mercatino libero… l’ultima domenica del mese… Quello dove i privati potevano vendere la loro roba, svuotando le soffitte e le cantine di nonni e genitori”.

Lo frequentava anche lui ammise con evidente nostalgia, “non mi vergogno a dirlo che ci andavo all’alba, con la torcia elettrica, perché si facevano affari davvero incredibili!”, poi ritornò sull’Opera del Grande Maestro Fiammingo: “Quella cagata è comunque una gran bella cagata!” ripeté, tra ammirazione e orrore, perché a prima vista era davvero perfetto.

Infatti il falsario, “Uno con due palle come due meloni!”, doveva avere una mano stupenda, ed essere un vero genio perché non aveva copiato come tutti, direttamente dai quadri di Bosh, “Come avrebbe fatto qualsiasi stronzo”, ma da certi disegni fatti in parte dai suoi allievi di bottega, disegni che poi servivano per realizzare delle incisioni, da spedire in giro per i Paesi Bassi e tutta Europa, cercando di soddisfare la grande richiesta di opere del Maestro.

Tatorino mimò a Raffaella, se per favore gli portava un altro caffè, e si rintanò di nuovo in terrazzo, per potersi fumare l’intero pacchetto di sigarette per lo sconforto.

“Però il nostro furbacchione, rubando ora qui ora lì, ha finito per pestare una merda!” disse il Palmieri, soddisfatto, “perché nel copiare il libro che l’uomo tiene in mano, ha riportato anche la frase che era scritta sopra la pagina aperta!”

Tatorino guardò con attenzione la foto ma quella frase neanche con un telescopio si sarebbe potuta notare, tanto era piccola.

“Ignorando che quelle parole sono il testo di una canzone di Thomas Crecquillon, un compositore del ‘500, che l’ha scritta nel 1561, esattamente quarantacinque anni dopo la morte di Hieronymus Bosh!”

Tatorino, all’aperto, col gelo che faceva, ebbe i sudori freddi.

“Non sapevo che fossi un esperto anche di musica del ‘500…” bofonchiò, giusto per dire qualcosa. Il Palmieri rise, scambiandolo per un complimento. “Quelle parole mi avevano insospettito… Le ho cercate su Google e ho subito trovato sia la canzone, che uno dei disegni che avevano ispirato il nostro genio!”

Era conservato a Berlino, al KupferstichKabinett, con sopra quelle stesse identiche parole: Tout le nuits que sans vous je me couche.

Un’opera del tardo ‘600.

“Ti ricordi… ma così per caso, il nome chi aveva cercato di vendertelo?”

Il Palmieri ci pensò un attimo.

“Te l’ho detto: uno di Firenze… Non ricordo però il nome… un tipo alto, grosso, anziano…”

Gli aveva raccontato un sacco di storielle tragiche, forse sperando d’intenerirlo.

Aveva detto di essere malato e che voleva venderlo per pagarsi le spese, e ritirarsi in una casa di riposo.

Tirò fuori anche un figlio strano, sempre chiuso in casa, fissato con l’horror e i racconti del terrore. Disse che quel quadro rappresentava l’unica cosa di valore che gli rimaneva, e lo aveva conservato per assicurarsi una vecchiaia tranquilla.

“Chissà a quanti aveva già tentato di rifilarlo, prima di sbarcare qui, ad Arezzo!”

Tatorino scosse la testa da solo, pensando al Semprini.

“Ma tu, come hai fatto a trovartici in mezzo? Non l’avranno mica venduto a te?”. Rise, tra il divertito e il maligno.

Tatorino, dal buco nero nel quale era infilato, tacque.

 “Ma davvero non ti eri accorto che era un falso?”

Tatorino evitò ogni difesa. Poteva mettersi a spiegargli della foto? Che era di un formato così piccolo che quella scritta neanche si vedeva?

Dirgli che aveva evitato di scartare il pacco perché quel maledetto quadro era avvolto da chilometri di scotch?

Scelse un semplice: “Se l’è trovato per le mani un mio amico e mi ha chiesto, così per curiosità, un parere…”

Poi, siccome la storiella non stava in piedi, aggiunse un: “Ero certo anch’io che si trattasse di un falso ma volevo una conferma da un esperto come te e…”

L’esperto, -essendo molto ma molto esperto-, non si fece fregare: “Veramente il tuo messaggino diceva che avevi un quadro da vendere…”

Tatorino allora sbuffò. “Dev’essere colpa di quel maledetto T9! E’ la seconda volta che da un sms sparisce una parte del messaggio!”

Il Palmieri, ormai annoiatosi, fece finta di credergli.

“Di’ al tuo amico di bruciarlo ” gli consigliò, “perché è un disegno pericoloso. Non vorrei ritrovarmelo ancora davanti, magari tra 20 anni, quando sarò vecchio e rimbambito!”

Tatorino rise, intirizzito dal freddo.

Si salutarono.

Poi, nero in volto, spense il cellulare e lo ficcò in tasca.

Raffaella, dall’altra parte del vetro, lo stava aspettando con un altro caffè fumante.

Lui cercò di sorriderle, poi, le fece capire che avrebbe fumato un’altra sigaretta ancora.

D’impulso riprese il cellulare, lo riaccese, fece il numero del Semprini e attese. Fumò provando e riprovando a chiamarlo. Alla fine aspettò che partisse la segreteria telefonica.

“Ciao. Sono Davide. Volevo dirti che il disegno è un falso. Ci vediamo venerdì in tipografia così ne parliamo.”

Era imbestialito.

Un coglione, figlio d’un altro coglione, che gli aveva fatto fare la figura del coglione anche a lui!

Il Mannucci, dell’Antica Tipografia Fiorentina, s’incazzò molto più di lui.

“Diciottomila euro non sono una bischerata!” urlò, frammentandogli il timpano. “Quella testa di cazzo!”

L’educazione, in quella settimana, sembrava scomparsa dalla faccia della terra.

Tatorino aveva lo stomaco attorcigliato come un serpente. Si sentiva in colpa di tutto e continuava a tormentarsi chiedendosi: se non avessi lasciato quel messaggio sulla segreteria del Semprini… Se avessi aspettato per parlargli di persona… Se avessi intuito il suo dramma, la sua fragilità…

“Mi sono fidato come un fesso di quel gran pezzo di merda!” seguitò invece per la propria strada, il Mannucci. Sbavando per la rabbia. “Prima mi fa stampare quel libro del cazzo e poi, che fa? Quel demente si spara un colpo in testa!”

Era successo tre ore prima. In un bar, all’angolo di Via del Drago d’oro.

Al Gazzettino Toscano avevano subito dato la notizia. Un artigiano, intervistato, aveva detto che quando era entrato nel bar per mangiare qualcosa, neanche si era neanche accorto di quell’omone grande e grosso seduto a un tavolino.

Il barista ammise che Omero aveva stranamente chiesto un cognacchino. Di solito lui non è che bevesse superalcolici, ma gli aveva detto di sentir freddo, lamentandosi del fatto che forse era uscito vestito un po’ troppo leggero.

Sedutosi in disparte, poggiato il cognac sul tavolo, era rimasto per un po’ così, con gli occhi fissi sul bicchiere… All’improvviso aveva tirato fuori una vecchia pistola e si era sparato alla testa.

Nessuno, anche volendo, avrebbe potuto far niente.

“Hanno chiamato subito l’ambulanza ma quel disgraziato era già morto!” sbraitò il Mannucci, “c’erano pezzi di cervello dappertutto!”, e seguitò a camminare su e giù, da una parte all’altra della tipografia, come una belva impazzita.

“E ora chiccazzo me li paga gli operai! La cartiera, il rilegatore, il bronzista? Mi toccherà chiudere! Fallire! Son tempi che per una stronzata del genere uno chiude baracca e burattini!“

Tatorino non sapeva proprio che dire.

“Ma quel deficiente aveva una moglie? Dei figli? Qualche cazzo di fratello o sorella? Mi dovranno pagare loro tutte le spese! I parenti hanno delle responsabilità! Adesso telefono subito al mio avvocato!”

Tatorino scosse il capo.

“Ti puoi risparmiare la chiamata. Il Semprini era solo…” e stava per aggiungere: come un cane, ma si era fermato in tempo.

“Allora quei libri sono miei.”, sentenziò il Mannucci, nella cui testa ormai le idee frullavano come in una lavatrice impazzita.

“Potrei tentare di venderli…”

Tatorino cercò di attivare il teletrasporto stringendo forte l’accendino in tasca.

“Si può fumare qui dentro?”

“Ma che cazzo di domande mi fai anche te, Davide ?” sbottò il tipografo, “è pieno zeppo di carta qui… secondo il tuo cervello?”

“Allora devo assolutamente uscire” disse, prima che gli prendesse l’ansia.

Il Mannuci gli si appiccicò dietro come una mignatta.

“Quel maledetto libro pensi che potrebbe avere un mercato?”

Tatorino si strinse nelle spalle. “Penso di sì…” disse, “quest’anno cade il bicentenario della nascita di Edgar Allan Poe… e se il racconto è autentico…”

Il Mannucci lo bloccò subito allarmato: “ Cioè? Ora non diciamo cazzate. Non voglio morire d’infarto!”

“Intendevo dire che trattandosi di una trascrizione, fatta da una donna che non era una traduttrice… Bisognerebbe accertarsi se…”

“Accertarsi di che?“ ringhiò il Mannucci “Tu dimmi solo a chi potrebbe interessare e poi ci penso io!”

Tatorino gli fece il nome del Poe Museum a Richmond, in Virginia.

“Vendono libri e anche merchandising di Poe, e magari…”

Al Mannucci bastò.

“Ho una nipote che vive a New York e che lavora in un giornale… la chiamo subito.”

Guardò Tatorino negli occhi: “Non posso mica chiudere!” disse, serio, e sotto mostrò di avere anche lui un’anima. ”Ho venti operai sul groppone… Venti famiglie da mantenere!”

A Tatorino gli si strinse ancora di più il cuore.

La funzione funebre a Omero Semprini venne negata a causa del suo suicidio.

Nel ritornare dal cimitero di Soffiano, Tatorino incrociò la postina sul portone di casa.

“Ecco Dottor Tatorino”, gli dette alcune buste e gli consegnò un pacco che sembrava contenere un libro.

Il mittente era L’Antica Tipografia Fiorentina di Mannucci Emilio.

Tatorino salì le scale, buttando un’occhiata veloce alla posta. C’era una lettera della Rai -radiotelevisione Italiana-, che gl’intimava di pagare il canone, non credendo assolutamente che lui non avesse in casa neanche un televisore, e lo informava che, altri prima di lui, erano stati individuati, multati, e costretti a pagare tutto il dovuto.

La lettera della banca, invece, gli comunicava che con l’anno nuovo, i “tassi creditori” sarebbero diminuiti dall’1,00%, allo 0,50 %, informandolo che se aveva dei soldi gli consigliavano d’investirli in caramelle alla menta. Da sempre un classico intramontabile.

Salì in casa, si mise seduto, e scartò il libro del Semprini.

Alla prima impressione gli sembrò un lavoro ben fatto. Una stampa di qualità, fatta su carta bellissima. Cominciò a leggere l’introduzione ma il cuore gli smise quasi subito di battere, raggelato, come davanti a un’imminente catastrofe.

Omero Semprini elogiava l’opera di Edgar Allan Poe esattamente come avrebbe fatto un liceale nel suo compitino scolastico, con parole e frasi che sembravano prese e scaricate dai vari siti Internet dove si rimbalzano l’un l’altro, le solite cose, specie le più inverosimili e fantastiche.

Un copia & incolla fatto da un adolescente imprigionato dentro un gigantesco corpo di quarantenne.

 “Edgar Allan Poe secondo le tesi dei più famosi studiosi d’esoterismo era consapevole che i suoi testi narrativi rivelassero eventi destinati ad accadere in un futuro lontano…”

 Quando giunse alla frase: “Tali ipotesi, anche se scientificamente non dimostrabili, hanno però molti riscontri che possono lasciare sbalorditi” chiuse il libro e si lasciò andare allo schienale della sua poltrona finlandese.

Fumò cercando di farsi passare il senso d’angoscia.

Pensò che molto difficilmente il Poe Museum di Richmond, anche se vendeva tazze e magliette con l’effigie dello scrittore, avrebbe mai potuto comprare un libro simile!

L’unica cosa valida rimaneva il racconto inedito…

Riprese il libro e guardò a pagina 13, la lettera di Angelica Parnell.

Quell’isterico del Mannucci era davvero bravo, niente da dire, una riproduzione assolutamente perfetta.

Lo colpì però una cosa.

Si alzò e prese subito il cellulare.

“Ciao, sono Davide, Davide Tatorino”

Il Mannucci lo salutò, sembrava felice come un fringuello, segno che il libro in qualche modo era riuscito a piazzarlo.

“Volevo chiederti un favore…”. Gli domandò se avesse lui l’originale della lettera di Angela Parnell.

“Sì” disse il Mannucci, “è qui in una cartella, insieme alle foto che mi aveva dato da scansionare il Semprini…”

Se gli serviva poteva andare a prenderla.

“Ma devi riportarmela subito però, devo spedirla negli Stati Uniti, il museo mi ha chiesto di poterla fare esaminare a un esperto…”

Segno che qualcosa di grosso stava per decollare.

“Non pensavo davvero che ci fosse così tanta gente appassionata di questo scrittore!” esultò, il Mannucci, subito dopo averlo salutato. “Mia nipote ha già scritto due articoli e il suo giornale sta organizzando insieme al museo un gigantesco evento!”

Gli americani erano un popolo che si entusiasmava subito, commentò, “Non si fanno tutte le seghe mentali che ci facciamo noi!”.

 La storia di un racconto inedito di Poe, scoperto in Italia, grazie alla lettera della figlia di un giornalista americano, li aveva fatti impazzire!

Varie associazioni e club gli avevano già ordinato 300 copie, e altre 380 le avrebbe spedite a Baltimora la settimana dopo.

“Ma… non ne avevi stampate solo 500?”

Il Mannucci s’impappinò. “Sì…” biascicò, “più o meno 500… ne avevo tirata qualcuna in più… ehm, per sicurezza…”

 Volle per forza pagargli un caffè. Lo trascinò al bar, continuando a vaneggiare su quello che sarebbe potuto succedere grazie a questo libro incredibile!

“Alla fine del mese verrà qui anche la televisione americana! Vogliono fare uno speciale, andranno prima a Genova, a riprendere la casa dove abitò la famiglia Parnell, e…”

“Hanno scoperto dov’era?”

“Ma non lo so… e poi chissenefrega! Comunque verranno a Firenze, a filmare il quartiere dove viveva il Semprini, la sua casa, il bar dove s’è ammazzato, e anche  la tipografia!” disse fiero.

Ordinò due caffè.

“Comunque, per pararmi le spalle, ho fatto fare al mio avvocato una ricerca accurata sull’esistenza in vita, d’eventuali eredi di Omero e… incredibile, ma non esiste nessun parente! Neanche alla lontana!”

Un tragedia che si stava trasformando in un vero affare.

Il barista poggiò i due caffè.

Il Mannucci tracannò subito il suo. Tatorino, guardò con sospetto il proprio: troppo basso, sicuramente quasi tiepido, in una tazzina che a malapena si riusciva a tenere in mano.

La Certosa dei Padri Circestensi situata sulla sommità di Monte Acuto, detto anche “Monte Santo”, vicino all’abitato del Galluzzo, a sud di Firenze, sovrastava di poco le nebbie.

Tatorino parcheggiò l’auto, si avvolse la sciarpa di cashmere grigio antracite, intorno al collo, ed entrò nel monastero.

Aveva un appuntamento con Padre Francesco Giusti, monaco circestense ed esperto restauratore di libri e manoscritti antichi.

Bussò, e la serratura del portoncino interno scattò.

Padre Giusti si affacciò poco sorridente. “Entra ”gli disse, facendolo passare in una stanza molto ampia, arredata solo con un tavolo e due sedie.

Faceva un freddo cane come se il riscaldamento non fosse ancora stato inventato.

Tatorino se ne restò in piedi, a guardare dalla finestrella, l’antico chiostro sottostante. Il porticato rinascimentale e le 66 robbiane raffiguranti i personaggi del Vecchio e Nuovo Testamento.

Padre Giusti strascicò una piantana per far luce sul tavolo, e si accomodò, mettendosi a frugare nelle tasche.

“Veniamo a noi” borbottò, e tirò fuori la lettera di Angelica Parnell.

Davide Tatorino si sedette. Padre Giusti sembrava irritato come se gli avessero fatto perder tempo per nulla.

“Se, e dico: se, questa lettera è davvero rimasta per cent’anni tra le pagine di un libro, insieme a una rosa” disse, in tono burbero, “la mia mente semplice si chiede: come mai su questi fogli così leggeri non è rimasta nessuna macchia?”

La stessa identica cosa che aveva pensato Tatorino prima di portargli la lettera.

Padre Giusti picchiettò le dita sul tavolo.

“Si potrebbe pensare che la rosa fosse già secca…” disse Tatorino, sperando di far buona impressione.

Il monaco si grattò la barba grigia con la mano sinistra, mentre con la mano destra fece dondolare quei cinque fogli di carta velina, tenendoli stretti tra pollice e indice.

“Non perdiamo altro tempo inutile” bofonchiò, “la carta è sicuramente dell’ottocento, probabilmente recuperata da vecchi libri dell’epoca… è facile mettere insieme qualche pagina bianca in questo modo…”

Invece l’inchiostro usato era degli anni ‘60, lo produceva la Günter Wagner per conto della Pelikan, si chiamava 4001 e lo vendevano in boccette, “Molto simili a quelle del Rosolio al mandarino che produciamo noi...”

Tatorino si sarebbe messo ridere se davvero, in quella storia, ci fosse stato qualcosa da ridere.

“Mi chiedo” si domandò Padre Giusti, con faccia scocciata e incredula, “chi può essere così fessacchiotto da procurarsi della carta originale dell’800 e poi, usare un inchiostro di quarant’anni fa, prodotto della Pelikan?”

Tatorino sapeva bene la risposta.

“E’ stata scritta neanche un paio di mesi fa… asciugata con della carta assorbente, o magari col phon, per cercare di scolorirla…”

Alzò il capo e guardò Tatorino. “L’ha fatta tuo nipote?” gli domandò, molto seriamente, “perché a un certo punto m’è venuta voglia di passarla sopra alla fiamma di una candela… per vedere se compariva qualche parola magica scritta con il succo di limone!”

Tatorino si scusò di avergli rubato del tempo prezioso.

“Adesso cos’hai intenzione di fare?”

“Se anche la lettera è un falso, figuriamoci il racconto…”

Padre Giusti annuì.

“Scriverò una lettera ai giornali e…”

“Fa quello che devi fare, ma non tirarmi in mezzo!” lo pregò subito Padre Giusti, alzandosi in piedi. “Non voglio giornalisti a ronzare attorno alla Certosa!”

“Come posso ringraziarla?“

“Ti sei già fermato alla distilleria? Facciamo tanti buoni prodotti: il brandy medicinale, il gran liquore giallo, il gran liquore verde, e un ottimo rosolio. Compri un bel cesto e siamo tutti pari.”

Tatorino sorrise e si alzò.

All’improvviso un soffio: un grosso gatto nero saltò sopra al tavolo.

Tatorino fece un balzo all’indietro.

“Sei ancora qua!” sbottò Padre Giusti, cercando di farlo scendere, ma il gatto rizzò pelo e coda, e digrignò i denti, senza spostarsi di un centimetro.

“E’ suo?”

Padre Giusti fece immediatamente cenno di no. “Dev’essere entrato dal portone, quando hanno aperto per la visita guidata delle 9 e 15!”

Mostrò a Tatorino il dorso della mano destra. “Ha già tentato di graffiarmi due volte! Penso di non rimanergli molto simpatico… ma è tutto il giorno che mi segue come un’ombra! Avevo detto a Padre Lorenzi di dargli un po’ di latte e poi di metterlo fuori, ma deve essergli scappato!”

Era una bestia di proporzioni enormi. Con un solo occhio, perché l’altro era un’orbita vuota, e una cicatrice che gli deformava metà del muso.

Il gatto soffiò di nuovo, e quando Padre Giusti restituì la lettera, fece un balzo cercando di agguantarla con gli artigli, ma Tatorino fu più svelto.

“Ma hai visto cos’ha cercato di fare?” disse Padre Giusti, incredulo. “È un gatto infernale!”

Tatorino uscì dalla stanza, raggiunse la distilleria, comprò un cesto pieno di sacchettini di caramelle, erbe, liquori e boccette varie, saltò in macchina e se ne scappò via. Tuffandosi nella nebbia. Scordandosi perfino di accendere i fari.

Passato Poggio Imperiale sentiva ancora l’occhio di quel gatto orribile puntato addosso.

  

L’uomo di burro. © 2009, Massimo Cavezzali e Sauro Ciantini.