È almeno dagli anni Settanta, dall’uscita cioè del Padrino di Coppola, che il crimine organizzato in generale e la mafia italo-americana in particolare attraggono l’attenzione e l’interesse tanto del grande pubblico letterario e cinematografico quanto degli accademici e degli storici. In questa atipica puntata della nostra rubrica verranno presi in considerazione due lavori aventi per argomento le nuove forme di crimine organizzato emerse dalla caduta del Muro di Berlino. Entrambe le opere in questione sono uscite in edizione originale nel 2005 ed entrambe affrontano il medesimo problema. Ciò che rende interessante e sensata la comparazione che segue è la radicale divergenza di prospettive che i due autori dimostrano e sostengono nei loro testi. La coincidenza del soggetto e la totale difformità del trattamento sono gli elementi che mi spingono a tentare questa sintesi, considerando per la prima volta in questa rubrica due opere di saggistica. L’intento non è certo quello di restituire una trattazione esauriente del problema né di ricapitolare soluzioni o politiche, bensì quello di mostrare come l’argomento stesso si presti a sguardi e discorsi sostanzialmente opposti; in chiusura vedremo più in dettaglio come queste prospettive siano applicabili alla narrativa noir. Spero ciò possa giustificare la lunghezza di questo intervento, che viene infatti spezzato in due parti.

Il tema dei due saggi, come accennato nel titolo, è quello della criminalità organizzata. L’illecito cui si riferisce Moisés Naìm e il capitalismo delinquenziale di Michael Woodiwiss sono in fondo la stessa cosa. O meglio, due facce della stessa medaglia.

Naim Moises lowres
Naim Moises lowres
La medaglia non è altro che il crimine, la grossa criminalità internazionale che muove centinaia di miliardi di euro ogni anno in ogni angolo del globo e che sta mutando ed espandendosi di pari passo con la nostra epoca. Lo sviluppo di una Rete internazionale, il potenziamento del sistema dei trasporti, l’indebolimento del potere coercitivo a disposizione degli stati-nazione, l’imperversare del dogma del ‘libero mercato’: sono solo alcuni dei fattori che hanno permesso la creazione di quelle vaste sacche di illegalità di cui trattano i nostri autori.

Prima di entrare nel merito, è opportuno chiarire perché esaminiamo qui queste due opere e in che modo possono interessare il discorso sul genere noir che in questa rubrica avete visto svilupparsi nel corso degli ultimi due anni. La ragione è semplice: il noir ha come elemento costitutivo e irrinunciabile la presenza, fisica o astratta, della violenza, e quindi del dolore e della morte. La violenza assume spesso, se non sempre, nel nostro genere le forme della delinquenza. Da qui l’onnipresenza di poliziotti, investigatori, detective vari e ovviamente: ladri, assassini, rapinatori, truffatori, uomini in vario modo violenti. I criminali da romanzo sono altrettanto spesso delinquenti abituali, e quindi non di rado criminali professionisti, gente che vive di delitti o traffici illeciti o tutti e due. Risulterà a questo punto evidente che l’argomento dei due saggi qui considerati riguarda direttamente il contenuto romanzesco del noir, il tema, l’argomento, gli elementi stessi della narrazione pertinente il nostro genere. In che modo allora può un’opera saggistica o di cronaca influenzare la lettura, o la scrittura stessa, di un romanzo?

È questo il punto focale del presente articolo: l’idea che nell’ultimo ventennio siano avvenuti nel mondo reale una serie di cambiamenti, di spostamenti, di evoluzioni dei quali la narrativa odierna non può fare a meno di tenere conto, e di rendere conto, nel raccontare le sue storie. Il noir tradizionale, che viveva di loschi figuri, padrini nerovestiti e picchiatori con passato pugilistico, sta segnando il passo. Il suo discorso, la sua narrazione, è sempre più distaccata dalla realtà. Sempre meno e sempre meno importanti sono i crimini commessi secondo le modalità cui il ‘vecchio noir’ ci ha abituato. Le vecchie strutture criminali sono state sostituite o si sono evolute in formazioni essenzialmente diverse, e conducono i propri affari seguendo percorsi ben distanti da quelli per così dire ‘fisici’, immediati, empirici, del noir tradizionale.

Questa idea del mutamento strutturale delle imprese criminali e quindi anche dell’ordinarietà della delinquenza è comune ai due autori di cui si parla in questo articolo.

Pablo Escobar
Pablo Escobar
Forse l’unica parte del ragionamento su cui Woodiwiss e Naìm potrebbero essere d’accordo è proprio questa: la criminalità organizzata del terzo millennio non ha più molto a che vedere con la mafia alla Mario Puzo o con i cartelli colombiani in stile Pablo Escobar o tanto meno con le ‘nuove mafie’ internazionali, russe indiane cinesi e via dicendo.

Il problema, il nocciolo della questione, è altrove. Il nocciolo della questione è questo: quali sono le attività illecite che maggiormente danneggiano il tessuto sociale e quindi la vita di una comunità (nazionale, internazionale, locale)? Dove vanno cercati gli enormi fiumi di denaro ‘nero’, cioè illegalmente guadagnato, che costituiscono l’indotto criminale? Chi detiene il potere innanzitutto economico della criminalità organizzata?

Queste sono le domande e a queste domande fino a poco fa si rispondeva quasi all’unisono: le grosse organizzazioni mafiose, Cosa Nostra in primo luogo, e poi a seguire tutti i suoi epigoni. Gli ‘imperi del male’ delittuosi e immorali, oggetto di campagne di law-enforcement fin dagli inizi del Novecento. Don Vito Corleone era il simbolo di questo concetto di delinquenza strutturata non casuale, rigorosamente organizzata secondo le leggi dell’onore, dell’omertà e del familismo. Così come Pablo Escobar e i suoi simili rappresentarono a partire dagli anni Ottanta la nuova ondata di ricchissimi trafficanti-assassini degenerati e sadici (tutti abbiamo visto Scarface e almeno qualche episodio di Miami Vice). La rappresentazione della violenza organizzata passava dunque per figure di spicco del sottomondo criminale, i grossi nomi, i vip del delitto, ricchi e potenti come e più di uomini d’affari legali o di esponenti delle istituzioni che davano loro la caccia. Nell’immaginario collettivo il Trafficante e il Padrino, giusto per citare i due ‘tipi’ più universalmente riconosciuti e riconoscibili, rappresentavano e rappresentano tuttora l’apice dell’illegalità: il vertice dell’impero del crimine. La sommità della piramide era ed è una figura affascinante e contraddittoria, attraente e repellente, ambigua e torbida; uno stereotipo cinematografico magistralmente costruito e dettagliato da registi importanti quali Francis Coppola e Brian DePalma, da attori del calibro di Marlon Brando, Robert DeNiro, Al Pacino, non a caso tutti di chiare origini italiane, visto che il prototipo di tutti gli ‘imperi’ è la mafia siciliana, e la corrispondente distorsione hollywoodiana.

Illecito
Illecito
Ma è proprio questo prototipo a venire criticato come obsoleto tanto da Michael Woodiwiss quanto da Moisés Naìm.

L’idea di fondo condivisa dai due autori è che le attuali dinamiche del crimine organizzato siano di natura ‘reticolare’ e non verticistica-piramidale. Non esistono più sommi capi che comandano eserciti e controllano territori, spostano merci e gestiscono la violenza e l’ordine nei propri dominii. Questo vecchio modello criminale appartiene a forme ataviche sorpassate dalle esigenze del mercato globale, che è il vero campo di gioco e d’esercizio degli affari illeciti. Ciò non vuol dire che il Trafficante e il Padrino siano scomparsi o si siano tramutati in businessmen attivi sul Web. Lo spostamento è molto più sottile e potenzialmente devastante per le istituzioni incaricate di combattere la criminalità e preservare l’integrità e la salute dei propri cittadini.

Tanto il docente universitario di storia americana, Woodiwiss, quanto il direttore della rivista di affari internazionali ed ex-ministro venezuelano, Naìm, sostengono che si è verificato e si sta ancora verificando un tale cambiamento, il passaggio dal verticismo mafioso alla ‘rete’ informale e ‘liquida’ dei trafficanti del terzo millennio. È proprio in questo punto del tragitto analitico che i due autori si separano e imboccano strade divergenti e dissonanti.

A causare la ‘divergenza’ è la scelta stessa dell’oggetto della loro analisi. Per Naìm il centro dell’attenzione sono i successori, per così dire, dei vecchi ‘tipi’; i pronipoti del Trafficante e del Padrino, che usano tecnologie al passo coi tempi, che girano il mondo facendo affari nei campi più disparati, senza seguito di scagnozzi, senza basi fisiche o fabbriche di beni illegali. Il nuovo criminale globalizzato secondo Naìm è flessibile e vario nei suoi traffici, non specializzato e non limitato da un know-how specifico. È un mediatore; mette in contatto le parti interessate all’affare, sia esso una partita di cocaina, un carico d’armi, di persone, di informazioni.

Arcàngel de Jesùs Montoya, interpretato da Luis Tosar
Arcàngel de Jesùs Montoya, interpretato da Luis Tosar
Volendo trovare un riferimento visibile potremmo forse prendere l’antagonista del film di Michael Mann Miami Vice: Arcàngel de Jesùs Montoya, interpretato dallo sconosciuto ma abilissimo attore Luis Tosar e di cui Sonny Crockett (Colin Farrell) a un certo punto dice: ‘È l’ultimo grido. È globalizzato’. Arcàngel non è un Padrino e non è un Trafficante, non nel senso tradizionale del termine. Non è quindi né Tony Montana né Michael Corleone. È un po’ di entrambi ma con la differenza che lavora col computer invece che col mitra, ha una relazione ‘aperta’ che esclude la gelosia da maschio latino, non è vendicativo, non vuole dimostrare niente e non cerca la gloria. Vuole solo i soldi. Vuole fare affari. È la nemesi globalizzata di Montana e Corleone. È il prototipo che forse Moisés Naìm avrebbe scelto se avesse dovuto indicare un corrispettivo filmico del suo trafficante illecito; l’aggiornamento, la messa a punto del modello tradizionale: il Padrino e il Trafficante sparati nel XXI secolo attraverso la Rete.

Termina qui la prima parte di questo intervento. La seconda e ultima verrà pubblicata a breve. Vedremo così in che modo Michael Woodiwiss ribalta la prospettiva di Naìm e costruisce la sua analisi del fenomeno criminale a partire dall’inizio del XX secolo.