Le feste, di nuovo le feste. E a lui le feste di fine d'anno lo intontivano un po', non lo entusiasmavano più. Troppe luci, troppe vetrine, troppi regali. Troppi incontri, e pranzi, e cibi troppo abbondanti. Troppo zucchero, troppo amore universale. Troppo rumore... E il troppo stroppia, dicono a Roma. Perché lui era un tipo tranquillo.

Eppure, quest'anno...

Quest'anno – se ne sentiva intrugliare il fondo del cuore, vellicare le corde più delicate dell'animo – era un anno speciale. Sì, certo, lo andavano ripetendo un po' troppo, un po' tutti, tutti un po' troppo, ne traboccavano stampa e tivvù, ne ridondavano tutti i discorsi, fossero ameni o fossero seri..., ma insomma era proprio così: finiva con l'anno il Secolo Venti; finiva, come finiva, una Storia, e forse la Storia... E anche se lui quella storia che la Storia era finita non la capiva, sentiva che un fine d'anno così non l'avrebbe visto mai più.

Anche perché, gli sussurrava una voce all'orecchio, campare più di centotrent'anni (quantunque allo stato dell'arte – genetica, clonica e trapiantistica – se ne parlasse di già) non gli pareva probabile.

Si sentiva bene, però. Nel fisico e nel morale. Si sentiva come si sente a trent'anni – trentatré, in verità – un maschio europeo, bianco, cristiano, svezzato a biscotti al plasmon e vasetti Gerber, cresciuto a fusó di pollo e  tacchino, nutrito a patate fritte ed hamburger, fumetti Tex e Domeniche-in. Un tipo sano, Roberto, aitante, bell'uomo, sereno, con una moglie Sonia bella ed elegante, e con un figlio Christian di tre anni, biondo bello e intelligente... In più: benestante in crescendo, casa di proprietà, mutuo pagato, BMW metallizzata. Quest'anno, poi, le entrate erano state eccellenti, e con l'extra che avrebbe intascato proprio in quei giorni era bingo! sul serio.

C'era solo quel neo, quel dover lavorare la notte di Capodanno. Anzi, di Capomillennio. Ma gli straordinari, si sa, sono così: ogni tanto ti toccano in un giorno di festa. Però..., oh: con quel lavoretto si sarebbe pagato, per sé e la famiglia, una settimana a Mahé e una bella Befana; e gli sarebbe inoltre avanzato un discreto mucchietto esentasse, accreditato appunto a Victoria, in azioni senza rischio e fruttuose – come minimo un 20% sicuro.

Quando uscì dall'ufficio, perciò, quel 24 alle tre, diretto a comprare regali per la moglie e per il figlio, Roberto era quasi felice.

Prese un tassì, e di lì a venti minuti era già nelle braccia amorose del Centro di Roma.

Luminarie e addobbi; caffè odorosi e stracolmi; tavoli in piazza con le stufe nemmeno accese; Piazza Navona un'immensa canestra di befane pupazzi croccanti e presepi; i corsi stellanti; vetrine d'ori e d'argenti; chic e kitsch; cianfrusaglie e utilité; videogiochi e uffici cambi; tourist office, ristoranti, panettoni, pellegrini, chiese, preti, fontanoni, cavalieri, grandi mostre, zampognari, telematica, canzoni...

Roberto ne uscì frastornato, ma contento dei regali. Per il figlio il più fantastico – un paccone d'un metro e mezzo; per la moglie il più prezioso – un pacchetto di venti centimetri.

Tornò a casa, baci, abbracci.

– Ciao, Robby – disse la moglie.

– Ciao papà – disse il figlio.

Mise i pacchi sotto l'albero, bevve un whisky, fece una doccia, telefonò.

– Sono Robby, mi dovete dire qualcosa?

– Sì – gli rispose l'uomo. – La busta è qui.

– Bene – disse Roberto, – sarò lì fra venti minuti.

Salutò moglie e figlio – nuovi baci, nuovi abbracci – Torno presto – e uscì.

Il luogo era il solito, il Manhattan Diamonds American Bar,  e anche l'uomo era lo stesso.

Roberto sedette al banco – tipico sgabello-trampolo, specchio a parete coperto da tremila bottiglie, lumi verdi abbassati, le spine delle birre. Chiese un Lagavulin torbato, con un cubetto di ghiaccio. Il barman lo servì; l'uomo venne a sedersi sullo sgabello accanto al suo.

– Come va?

– Bene – rispose Roberto. – Ma vorrei tornarmene a casa 'mbress 'a 'mbressa. Si può?

– Come no – rispose l'uomo.

Girò dietro al banco, aprì un cassetto, ne trasse una busta a sacchetto, robusta, di media grandezza, sigillata con spago e piombo. La porse a Robby. Robby la prese, terminò il whisky, strinse la mano all'uomo, salutò il barman, uscì.

La busta era bene imbottita, sembrava un cuscinetto, ma Roberto sapeva quello che conteneva, compresa la chiave. La mise in tasca, chiamò un tassì, dopo venti minuti era a casa.

Per quel giorno era tutto, e adesso... via al cenone in santa pace con la moglie e col figlio.

Da Napoli, come sempre, vennero sua sorella Delia e suo cognato Arnaldo, e la cena della vigilia fu una cena con tutte le devozioni: capitone, spaghetti a vongole, cefalo in bianco, friarelli, insalata di rinforzo, struffolli, roccocò... e quella ddie 'e pastiera del Caffè di Via dei Mille.

 

Paolo Arcàvoli Andigò il Natale lo aveva in uggia, lo teneva per un supplizio. Il Capodanno, le Feste, lo scocciavano, lo intronavano, lo lasciavano quasi morto. Le pativa come un'angustia, un pericolo senza nome. Gli portavano dritto in bocca, e dietro l'orbita dell'occhio, il salmastro di un male oscuro; gli serravano la gola con un groppo di nonsocché. Le aborriva, le temeva, le aspettava come un castigo, le viveva come una colpa... O piuttosto una penitenza – che al rovello degli altri giorni s'assommava come un tormento di sapore postmoderno: una mutanda sottomisura, un'allergia al dopobarba, una stipsi prolungata.

Non era stato sempre così, lo sapeva bene – e se provava a stabilire quella pena neurastenica in che anno s'era accasata nel suo sistema colon-stomaco-cervello, una data non gli usciva. Qualche anno, gli pareva. Non più di quattro, al massimo sette... Ma forse anche più.

Inoltre la penitenza era doppia, era tripla, perché doveva secretarla. Doveva, per copione, mostrare gioia e allegria, fare doni, dare baci sotto il vischio, andare a cena dagli amici, ospitarli a casa sua, andare alla Messa di mezzanotte e all'Angelus a San Pietro – sua moglie ci teneva – al veglione di San Silvestro e adesso, da due anni... come se non bastasse... al Senato per il concerto – Inno di Mameli e sinfonie, abito scuro e strette di mano, il saluto ai Presidenti, come stai sempre uguale non cambi mai come fai sembri un giovane di vent'anni... Pigli un canchero a tutti quanti.

Paolo Arcàvoli Andigò di decenni ne aveva sette, più tre anni: settantatré. Sua moglie Ada sessantuno, bella donna, molto cattolica, molto nota in società. Suo figlio Arcangelo, di trentuno, era un medico rinomato, già insegnava a Roma-2, e gli aveva dato un nipotino, Paolo come lui, di tre anni, biondo bello e intelligente. La nuora Desideria, ventott'anni, era una psicologa molto richiesta, molto bella, molto affettuosa – ma le cose tra quei due non andavano affatto bene.

Paolo Arcàvoli Andigò era un grande Giornalista, un Professore Universitario, uno Scrittore di saggi, uno dei Saggi del Paese. O meglio, lo era stato. Al momento, per l'età, era un ex d'alto bordo: ex Direttore di quotidiani, ex Professore della Sapienza, ex Scrittore di saggi... Ex vivo, aggiungeva lui nel suo eterno monologo interiore.

Un Saggio però – per la pubblica opinione, e cioè per i  leccaculo giornalisti e colleghi vari – lo era tuttora. Un Saggio che contava, che contava molto ancora.

Ma il rovello che aveva dentro..., quello..., solo lui lo conosceva. E non era..., ruminava..., un rovello della saggezza.

Paolo Arcàvoli Andigò passò la vigilia di Natale a casa dei Guelfi, dove s'erano raccolti, more solito natalizio, i Necci e i Desideri, i Liguori e i Bonafé. Età variabili – tra i cinquanta e i settanta; figli grandi, per conto loro; rami diversi..., ma legati per la vita dal passato e dalla sua ombra.

Paolo Arcàvoli Andigò sorrise, sorseggiò, mangiucchiò, baciò la mano alle signore, ascoltò le storielle, fumò il sigaro in salotto, disse anche qualche parola... Ma si vedeva che non ci stava: non ci stava col cuore, non ci stava con la testa. E gli altri – che avevano le antenne e da tempo lo tenevano sotto osservazione dal di qua e dal di là, dal di sopra e dal di sotto – si convinsero quella sera che il gran Saggio era stracotto.

Quando fu l'ora si salutarono e, ognuno per la sua chiesa, se ne andarono alla messa.

 

Il giorno dopo, festività del Natale, dopo l'agape celebrata – chi abbacchio e chi tacchino, quasi tutti fettuccine – ciascheduno con i suoi come vuole la tradizione, Nico Guelfi e il Desideri, Aldo Necci, Bonafé e Girolamo Liguori, si trovarono alla Rotonda, – l'aria mite come a maggio, turisti in défilé – attorno a un tavolo all'aperto, riparati dalla tenda, confortati dai cognac.

– Quello molla – disse il Guelfi.

– Ho paura di sì – commentò il Desideri.

– Chi ve l'ha detto? – chiese il Liguori.

– Detto, nessuno – rispose il Guelfi, – ma si vede a occhio nudo.

– Non l'hai visto ieri sera? – rincarò il Desideri.

– E poi qualche cosa – introdusse il Bonafé, – l'ha lasciato trapelare.

– Quando? Come? – sbottarono gli altri.

– Me l'ha detto Santacroce – precisò il Bonafé.

– Quel Santacroce? – chiese il Necci, che parlava sempre poco ma quel poco era importante.

– Quel Santacroce, sì – rispose il Bonafé, con un ghigno sarcastico. – Quello che ai vecchi tempi si faceva gli Affari... Riservati.

– Porca puttana! – stabilì il Necci

– Allora è fatta – disse Liguori.

– Porca puttana – ribadì il Guelfi.

 

Paolo Arcàvoli Andigò, ne sapeva infatti troppe. E davvero troppo grosse. Sapeva, per esempio, dove fosse e chi curasse un famoso memoriale; sapeva di chi era una certa manina, e chi aveva certe carte di una certa cassaforte; sapeva chi aveva la lista involata dal Ministero; sapeva chi era all'epoca il proprietario di una certa casa di Firenze; conosceva colui che aveva mosso il famoso bicchierino in una certa seduta spiritica... E sapeva e sapeva tutto ciò che non si sa.

Ma soprattutto sapeva a memoria i passi decisivi di quel certo memoriale; conosceva quelle carte e ne aveva una fotocopia; sapeva dov'era adesso, e quale incarico ricopriva, l'anfitrione fiorentino. E infine sapeva, uno ad uno, tutti i nomi di quella lista: a quel tempo, come lui, irregolari o fiancheggiatori – e qualcuno anche effettivo; in seguito e al presente, professori e giornalisti, deputati e sindacalisti, industriali, finanzieri, capi di azienda, amministratori delegati, editori, opinionisti. Egli insomma conosceva il segreto dei segreti...

Quel sapere approfondito, però, gli pesava assai. E questo era il rovello. E questa era l'angoscia.

All'inizio, naturalmente, stava tutto nella logica di quegli anni arroventati. Avevano combattuto, chi in un modo chi in un altro, e avevano perso. La ritirata era stata un obbligo, il risparmiarsi per un dopo. Il silenzio, lo strumento per preservare le forze ancora intatte, per aiutare chi era caduto, per continuare a proliferare dentro al corpo dello stato. Le professioni, le carriere, la condizione del sopravvivere. Per anni era andata così, lui al centro – pochi altri accanto a lui – di quella tela mai distrutta. Poi, grado a grado, il degrado degli scopi.

Le carriere erano diventate nient'altro che carriere; la crescita dentro al corpo dello stato, dapprima accettazione poi identificazione con i poteri; l'aiuto ai caduti, una spesa assicurativa; il silenzio, la condizione per mantenere le proprie posizioni sociali. Ma anche il mastice dello status quo repubblicano. La finzione sulle proprie idee, dapprima perdita di un'idea poi adesione alle idee padrone.

Tuttavia, di per sé, tutto ciò non avrebbe provocato quella crisi tormentosa dalla quale Paolo Arcàvoli Andigò si sentiva già travolto. Il fatto scatenante era stato quel morto.

Chi aveva deciso quella ripresa sul filo del sangue? Chi aveva progettato quell'esecuzione senza senso?... Ma un senso..., lo sapeva bene il Professore..., un senso c'è sempre. Sfuggiva a lui, ecco la novità. A lui, che sapeva tutto del passato e del suo prolungarsi malforme, questo senso di ora rimaneva incompreso. Toccava ora a lui..., a lui che aveva condiviso terribili decisioni..., toccava  a lui d’essere al buio, di non sapere, di poter solo ipotizzare. Non era difficile, certo..., ma proprio di qui veniva l’angoscia.

L'intervista che aveva letto lo aveva molto colpito. Diceva l'intervistato, il Presidente della Commissione, che il cancro della Repubblica non sarebbe stato debellato senza rompere quel silenzio, senza svelare il segreto. Diceva che per farlo occorreva assicurare una moratoria e un'immunità a tutti i protagonisti. Tesi ingenua, si disse Arcàvoli. Troppo da perdere da troppe persone. Non bastava salvarle dal carcere. Cosa sarebbe stato delle loro posizioni private e pubbliche, rotto il silenzio, svelato il segreto, rivelati nomi e cognomi? Come avrebbero potuto rimanere sui piedistalli del potere, dei poteri, tante odierne divinità che avevano quel passato? Quale terremoto avrebbe scosso lo Stato dopo quelle rivelazioni?... Ingenua proposta, concluse Arcàvoli, ma la questione era posta.

Fu così che decise. Il segreto doveva essere rivelato, procurato il terremoto. La Repubblica doveva avere il suo lavacro. Poi..., se n'era ormai convinto..., tutto poteva ricominciare senza più sangue e senza veleni.

 

Roberto Casaprota, detto Robby, trascorse gli ultimi giorni dell'anno facendo acquisti e sbrigando faccende. Il 28 andò all'ACI e pagò il bollo della BMW; il 29 alla Posta il canone TV; al pomeriggio comprò altri doni (meno costosi) per il figlio, per la moglie, per la sorella e il cognato; il 30 ritirò le prenotazioni per il veglione al Grand Hotel, fece visita ad una zia, confermò  i voucher per le Seychelles.

La mattina del 31 andò alla Stazione, deposito bagagli. Aprì la busta che aveva ritirato al Manhattan Diamonds, ne estrasse una chiave, lesse le istruzioni stampate su un cartoncino, aprì l'armadietto indicato, ritirò il pesante pacchetto che vi era contenuto, richiuse l'armadietto, tornò alla sua auto, fissò il pacchetto sotto il sedile di guida. Sedette al volante, riaprì la busta, ne estrasse una foto, la osservò per due minuti, la rimise nella busta, fissò anche quella sotto il sedile. Affibbiò la cintura di sicurezza, mise in moto, ripartì.

Il veglione fu molto bello, gran cena, gran ballo, smoking, décolleté. Il cognato stava in forma, battute e barzellette che pareva un varietà. Il pupo era a casa con la fidata baby-sitter filippina: ogni ora chiamavano per avere notizie. Lo champagne era francese, Dom Perignon millésimé. Da un grande schermo televisivo, da tutte le piazze del mondo, poterono seguire l'approssimarsi, e poi lo scoccare, della fine e del principio dell'anno-secolo-millennio. La festa, insomma, fu proprio una gran festa...

Allo scoccare della mezzanotte, mentre l'orchestra intonava il famoso valzer, le due donne e i due cognati, come del resto tutti quanti, s'abbracciarono e baciarono.

– Auguri, amore mio – Robby mormorò all'orecchio della moglie. – Buon secolo, adorata.

– Buon millennio – rispose lei. – E grazie – sussurrò guardando e mostrando il nuovo solitario che portava al dito.

Poi venne il momento. Roberto si levò, i parenti erano stati avvisati.

– Ragazzi – disse, – vado e torno. Al più tardi fra mezz'ora sarò qui di nuovo... Se dovessi tardare, ma lo escludo, chiamo sul cellulare. Divertitevi.

Ancora un bacio, ancora un sorso, e nel tripudio generale uscì dal Grand Hotel.

 

Paolo Arcàvoli Andigò al veglione non c'era andato. Quell'anno, con la moglie, con il figlio, con amici e parenti era stato chiaro. Chiaro e fermo. Gentile ma fermo. Fin dall'Immacolata aveva detto: – Faccio il cenone della Vigilia, vengo alla messa di mezzanotte, vengo all'Angelus il giorno dopo, faccio con voi il pranzo di Natale, sto con voi anche a Santo Stefano, a Capodanno con quelli della Vigilia..., ma al veglione no, non ci vengo. E non vi voglio intorno. Me ne sto a casa e non so nemmeno se aspetto la mezzanotte.

– Quello no – aveva detto il figlio. – Dacci almeno la possibilità di chiamarti per gli auguri.

– D'accordo – aveva ceduto. – Ma poi me ne vado a letto.

La moglie, naturalmente, benché non disdegnasse una certa mondanità, stanca com'era per tutte quelle feste, s'era dichiarata entusiasta: – Sì, ragazzi – aveva detto al figlio e alla nuora, – andate voi giovani, e divertitevi. A mezzanotte ci chiamate e brindiamo al telefono.

E così s'era deciso. E così era stato.

Ora, passata la mezzanotte, ricevuta dal Grand Hotel la chiamata augurale del figlio e della nuora (meno male che stanno superando...), mentre ancora la città impazzava con orchestre in dieci piazze, il Professore si preparava alla sua prima notte del "nuovo secolo" e del "terzo millennio".

La mente, però, era turbata. Il cuore pieno d'angoscia. Fra due giorni, così avevano concordato, avrebbe fatto visita al Presidente..., e tutto sarebbe finito.

Mentre la moglie si coricava andò ancora una volta nel suo studio. Aprì la cassaforte, ne trasse una busta gialla, l'aprì, ne estrasse un foglietto, rilesse per la millesima volta le parole e le cifre che vi erano dattiloscritte. Con quei dati il Presidente sarebbe arrivato ai materiali, e con i materiali  alla verità.

Richiuse la busta, la ripose nella cassaforte, serrò, spense le luci, si diresse al bagno.

Squillò il campanello della porta di casa. Chi sarà?, pensò. Possibile che il figlio?... Che abbiano litigato un'altra volta?

Preoccupato andò ad aprire.

Con sorpresa si trovò davanti un bell'uomo, sulla trentina, alto, in smoking, con un soprabito nero e una sciarpa bianca.

– Il professor Andigò? – chiese Robby Casaprota.

–Sono io – rispose, –Arcàvoli Andigò. Desidera? –

– Nulla – rispose quello. Ed estrasse dal paltò una Glock 26 munita di silenziatore.

Nessuno, neppure la moglie, udì i tre colpi che zittirono per sempre Paolo Arcàvoli Andigò – ex Professore, ex Giornalista, ex Scrittore di saggi, ex Saggio..., ex brigatista..., ed ora – come aveva previsto – ex vivo.