Marco De Franchi è nato a Roma e attualmente vive in Toscana.

È Sostituto commissario della Polizia di Stato in servizio presso la Squadra Mobile e ha fatto parte del gruppo investigativo che ha condotto l’inchiesta sulle nuove BR fino all’arresto dei responsabili degli omicidi D’Antona, Biagi e Petri. Anche da questa esperienza è nato il romanzo La carne e il sangue. Ha pubblicato in numerose antologie e riviste come L’Eternauta e M-Rivista del Mistero. Un suo racconto è apparso di recente nell’antologia La Legge dei Figli, per Meridiano Zero. Molti suoi racconti, oltre alla traduzione del romanzo breve Gli Occhi nel Bosco, sono apparsi in Francia. È stato soggetti sta e sceneggiatore di fumetti per le riviste Lanciostory e Skorpio. L’autore ha voluto rispondere ad alcune domande che gli ho posto. Quindi senza indugiare oltre lascio a lui la parola.

Per i lettori che non ti conoscono potresti presentarti in due parole?

Mi presento con una negazione. Non sono un poliziotto scrittore. Lo dico non per snobismo ma perché è semplicemente la verità. Scrivo e pubblico con alterne fortune da più di venti anni, da prima che mi passasse per l’anticamera del cervello l’idea di fare lo sbirro. Ho fatto lo sceneggiatore di fumetti. Mi sono occupato di narrativa fantastica e noir. Ho avuto anche un torbido passato di recensore di libri altrui. Poi, faccio “anche” il poliziotto. Però, alla fine, non mi dispiace l’accostamento. Ci sono ottimi colleghi che scrivono ottimi libri.

Sono in buona compagnia.

Come molti che, al giorno d’oggi, si occupano di narrativa la scrittura non rappresenta la tua occupazione principale. Riferendoti alla tua esperienza personale puoi raccontare come riesci a conciliare quest’hobby con il tuo lavoro?

Permettimi però di correggerti. Scrivere non è uno hobby. Uno hobby è fare collezione di monete antiche. Scrivere è qualcosa di molto diverso.

È passione, è anima, per me è una parte integrante e predominante della mia stessa esistenza. Che però, come giustamente fai osservare, è fatta anche di altro. C’è il lavoro, che mi occupa gran parte della giornata e, a volte, della notte. C’è la famiglia, ci sono i figli, che nel mio caso sono piccoli e hanno bisogno della mia attenzione. C’è la mia compagna, che ha bisogno del mio amore. Per questo ho veramente poco tempo per scrivere ed è una cosa che mi fa soffrire. Ma tant’è. Lo faccio nei ritagli di tempo (e lo stile sicuramente ne soffre). Nei fine settimana. Qualche volta la sera.

Quello che invece non trovo inconciliabile (se il senso della tua domanda è anche questo) è la sostanza delle mie due attività (lo sbirro e lo scrittore). Sono due mestieri che hanno molto in comune.

Hai ambientato il tuo romanzo dal titolo “La carne e il sangue” sullo sfondo dei casi che hanno portato all’arresto dei responsabili degli omicidi D’Antona, Biagi e Petri. Questo solo perché costituisce il tuo lavoro o c’è dell’altro?

Con “La Carne e il Sangue” mi sono occupato per la prima volta di un’esperienza personale scaturita dalla mia attività in polizia. Ho spesso affondato le mani nelle storie e nelle suggestioni che mi sono capitate facendo lo sbirro, ma solo per metterle a disposizione di narrazioni che riguardavano altro. Chiamato però a far parte del gruppo che ha investigato sugli omicidi D’Antona e Biagi ho avuto la ventura non solo di partecipare a una delle indagini più stimolanti e importanti della mia vita professionale, ma anche quella di conoscere da vicino i protagonisti, negativi e positivi, di questa vicenda. Soprattutto quelli negativi, i terroristi, hanno colpito la mia fantasia di scrittore, con le loro contraddizioni, il loro amore sconfinato per una causa aberrante, il loro vissuto personale apparentemente immerso in una normalità borghese e perciò inquietante. Insomma, mi sono trovato per le mani una, anzi tante storie che meritavano di essere raccontate. Ho pensato che valesse la pena provarci.

Nel corso della vicenda narrata c’è una forte contrapposizione tra due donne: Lucia, una moglie innamorata e una madre amorevole che, quando le esigenze lo richiedono, si trasforma in Federica, militante rivoluzionaria e combattente spietata fedele alla causa delle BR, e Serena D’Amico, un commissario di polizia che ha sacrificato la sua vita alla caccia ai terroristi. È un caso che siano due personaggi femminili? In quali di questi due personaggi si riconosce di più l’autore De Franchi?

Non so se è un caso. Forse l’animo femminile mi sembrava più idoneo ad ospitare quel contrasto di sentimenti e sensazioni e dolore che sono alla base della storia. Le donne sono più sincere di noi uomini, più autentiche, più disposte a tutto, se capisci cosa voglio dire. Fare agire Lucia e Serena su quello sfondo così tragico mi pareva potesse fornire più spunti di riflessione, più occasioni narrative. In quanto a chi mi sento più vicino non saprei risponderti. Per la tenacia mi piacerebbe assomigliare a Serena, la poliziotta. Ma Lucia/Federica, per paradossale che possa sembrare, è più onesta, più limpida. Più interessante dal punto di vista della narrazione.

Oltre a quelle più strettamente giuridiche quali fonti hai usato per documentarti?

Quando iniziai ad occuparmi di indagini di terrorismo (prima il mio campo principale era la lotta al narcotraffico) m’immersi non solo nella lettura necessaria e necessariamente rapida degli atti che riguardavano le indagini immediate ( profili di brigatisti, sentenze, informative varie) ma anche nella storia del terrorismo Italiano, dal dopoguerra ad oggi. Un argomento, per la verità che mi aveva sempre interessato. Ho approfondito sui libri di Bianconi, Pansa, Fasanella, Galli, ed altri. E poi ho iniziato a leggere le tanto deprecate autobiografie degli stessi terroristi. Morucci, Franceschini, Braghetti, Segio, solo per dirne alcuni. Ho dovuto superare un certo disagio, almeno all’inizio, soprattutto a fronte del dolore sempre vivo delle vittime di quelli che oggi – ma non tutti – pontificano da libri e cattedre universitarie. Ma era necessario.

Alla fine, però, la fonte migliore a cui ho attinto sono stati gli stessi protagonisti della storia che avevo vissuto. Roberto Morandi e Cinzia Banelli, in prima  battuta. Sono stato tra quelli che hanno fatto irruzione in casa del brigatista Morandi, a Firenze, la mattina del 24 ottobre 2003. Ho visto l’uomo, la sua famiglia, la sua casa. Ho frugato tra le sue cose. Ho colto lo sguardo di sua figlia. In quel momento ha iniziato a nascere in me l’idea di scrivere qualcosa. Perché mi sembrava ci fosse, davvero, qualcosa da raccontare.

A quale personaggio del tuo romanzo sei più affezionato? Perché?

Certamente all’ispettore Maltese. È solo un comprimario, ma rappresenta tutti quelli che si sono fatti il culo su quella maledetta indagine. È uno che lavora nell’ombra, quietamente, e che si pone delle domande. Fa il suo dovere ma si pone domande. È quello che dovrebbe fare ogni buon poliziotto.

Oltre ai libri che sicuramente usi per documentarti quali altre letture fai?

Sono un lettore onnivoro e immagino che molti rispondano così a questa domanda. Ma per essere scrittore bisogna prima leggere, no? Romanzi, quindi, che siano di genere o mainstream, basta che siano buone letture. E poi una predilezione per la storia recente e per i saggi che ci fanno intravedere quello che c’è dietro il sipario di ciò che chiamiamo realtà. Nonostante li abbia letti per la prima volta nell’adolescenza, non finisco mai di apprezzare i libri di Carlos Castaneda. Tanto per dirne uno.

Nella vicenda narrata nel tuo romanzo gioca un ruolo fondamentale l’amore. Secondo te può veramente essere un’alternativa alla cupezza e alla violenza di questo mondo?

Non solo l’amore è la risposta alla violenza, ma ne è anche la fonte. L’amore è il principio e la fine di ogni cosa. L’amore di un terrorista per la propria causa, per le proprie idee è autentico anche se funesto. L’amore di un poliziotto per la verità è sacro, ma può essere fatale. L’amore di una madre per suo figlio può portarla alla morte. Ecco perché credo che l’amore sia il tema fondamentale del mio romanzo, ma anche di tutti i romanzi che sono stati scritti dalla notte dei tempi. L’amore e il mistero. Ma forse l’uno è l’altro sono la stessa cosa.

Sono rimasto colpito dal fatto che chiunque racconti vicende legate al terrorismo in Italia, e anche tu non fai eccezione, sia dalla parte delle forze dell’ordine che dei terroristi usa un linguaggio crudo, scarno, angosciante e spietato, avaro di descrizioni. Secondo te c’è un motivo? Se si quale?

Veramente quando esordii, nel 1984, con un romanzo breve di genere horror, dissero del mio stile che era “asciutto, cinematografico”. Quindi questo è forse proprio il mio modo di raccontare. Detto questo, credo che lo stile debba in parte adattarsi al mondo che descrive.

Il noir, ad esempio, secondo me è più un modo di raccontare che una struttura narrativa. Se è la disperazione che fa muovere i personaggi, disperato deve essere anche lo stile. L’importante è non copiare, non restare attaccati a stereotipi che poi fanno sembrare i romanzi tutti uguali. Insomma: distinguersi, battere strade nuove, originali. Con moderazione.

Secondo te per quale motivo le ambientazioni gialle e misteriose in questo periodo sono tornate così in auge da colonizzare in massa oltre ai romanzi anche altri media come la televisione?

Il mistero, come dicevo prima, è una delle basi del racconto, nella sua accezione originale, qualunque sia l’argomento del contendere. Il mistero è nel DNA della nostra vita e quindi della letteratura, da sempre. Penso però che questo recente interesse generalizzato per il noir, il mistery, il giallo sia semplicemente un fatto ciclico. Forse legato alle paure contingenti che questo inizio millennio ci sta regalando.

Non so quanto durerà, sinceramente. E non so quanto il giallo o il noir in genere ci abbiano guadagnato da questa tendenza attuale. Certo, molti ottimi autori italiani hanno avuto la possibilità finalmente di emergere e farsi conoscere. Ma a questa greppia non si sono messi a “mangiare” anche alcuni che qualche anno fa storcevano il naso davanti a un libro giallo?

Che consigli daresti a chi si volesse affacciare al mondo della scrittura?

Non mi sento così qualificato da dare consigli. Dirò le solite cose banali che però, guarda un po’, sono quelle più vere. Leggere tanto.

Informarsi. Confrontarsi. Accettare i rifiuti. Non mollare mai. E ne aggiungo una mia personale: circondarsi, se possibile, di amici che condividono lo stesso amore per la narrativa. Andarli a cercare, se necessario. A me ha aiutato molto. Se non avessi avuto lo sprone di fratelli di penna come Nicola Verde, Errico Passaro, Gabriele Marconi o Luigi de Pascalis (per citarne alcuni) avrei abbandonato da tempo.

C’è una domanda che non ti è stata posta a cui vorresti rispondere?

Mi aspettavo la domanda classica: e adesso che cosa stai scrivendo? E avrei risposto: non te lo dico. Scusami. Per scaramanzia.