A dispetto del gran numero di porte “chiuse” e sfondate a calci nel corso della storia, Max Payne (ulteriore trasposizione cinematografica di un videogioco), per la regia di John Moore è un efficace, per quanto involontario, esempio, del detto conosciuto come “sfondare una porta aperta”.

Di porte aperte e sfondate comunque ce ne sono molte, ad iniziare dagli antefatti, e cioè “poliziotto (Max Payne/Mark Wahlberg in una interpretazione dimenticabile…), ridotto brutalmente allo stato civile di vedovo, si mette alla ricerca dei responsabili”. Senza molta fantasia questi altro non sono che la solita combriccola composta da militari ed esponenti di una multinazionale farmaceutica. Ad unirli il bisogno dei primi del “soldato perfetto” e il possesso da parte dei secondi di una sostanza stupefacente conosciuta come Valkyr, capace di cancellare la paura della battaglia. Peccato soltanto che a parte quell’uno per cento sul quale l’effetto è quello voluto, il restante novantanove finisce con ritrovarsi in un perenne stato allucinatorio.

Il genere, anzi il sotto-genere è quello del revenge-movie, che di film come si deve ne contiene a iosa (la trilogia di Park Chan-wook, Kill Bill, per citarne alcuni…), ma stavolta il risultato è di parecchio al di sotto perfino delle attese più mediocri, con un risultato che si colloca dalle parti di uno qualsiasi dei film di Steven Seagal.

Cornice noir con metropoli (New York) buia e piovosa dall’inizio alla fine con l’aggiunta degli immancabili effetti in CG, tra l’altro particolarmente monotoni, utilizzati per rappresentare il mondo da incubo evocato dalla Valkyr.