Il geometra Franco Marcozzi uscì stremato dal portoncino dello studio. Erano le una e quaranta e il suo stomaco, usurato dalle estenuanti pratiche catastali e dai troppi caffè, gorgogliava come un  “rivo strozzato”. D’altra parte, sempre per dirla con il suo poeta preferito, poco ci mancava che anche lui, come il cavallo di montaliana memoria, finisse stramazzato sul selciato del vicolo. Immaginò per un attimo la sua carcassa abbandonata nella canicola, facile preda dei cani randagi e di quei maledetti piccioni,  che gli istoriavano senza tregua i davanzali di pietra serena dello studio appena ristrutturato.

Il Marcozzi sospirò al pensiero che, invece di sudare nell’afa cittadina, avrebbe potuto volare su per una strada di montagna, in sella alla sua bici.

Già, la bicicletta … L’unica fedele compagna che non si era mai permessa di rimproverarlo. La sola in grado di ascoltarlo, senza rompergli  le scatole con problematiche femministe e ritorsioni sentimentali.

E mentre si avviava verso l’auto -  un ammasso di lamiere incandescenti sotto il solleone d’agosto - si sorprese a fischiettare una vecchia canzone, che sembrava scritta per lui: “Vai Girardengo, vai grande campione, nessuno ti segue su quello stradone …”

Eh, sì, quelle parole avevano il potere di evocare, nell’animo ormai disilluso del geometra Marcozzi, lontane ed evanescenti immagini di gioventù. Una gioventù che se n’era andata, di soppiatto, senza che lui, troppo impegnato in consulenze e rilevazioni topografiche, si rendesse conto che i capelli gli diventavano sempre più brizzolati e la pedalata più faticosa.

Eppure gli amici lo consideravano ancora un tipo brillante. Almeno quando recitava  in teatro, declamando le battute con  quella sua voce calda e sensuale, appena arrochita dai sigari e da  evidenti segni di bronchite cronica.

 

Anche quella sera, seduto sulla veranda del suo casale ristrutturato sulla collina di Serravalle, il geometra più sentimentale della provincia di Pistoia – e forse anche della Valdinievole – scriveva  sul suo portatile, con il piglio assorto di chi è deciso a lasciare ai posteri la propria sofferta autobiografia.

 

"Era nato con lo spirito libero e ribelle di chi vuole bere la vita: sempre con quel sorriso irridente stampato nel viso sporco dalla perenne polvere dei campi. Un viso nel quale la capigliatura folta e scura copriva di volta in volta, seguendo i capricci del vento, due occhi che sembravano   illuminarsi all'ingegno di chissà quale impresa. Agile come uno scoiattolo, furbo come una volpe, solare come una mattina agostana.”

Il Marcozzi sollevò lo sguardo dalla sua opera. Tirò fuori dal taschino della camicia una scatolina di metallo, l’aprì con religiosa attenzione e  prese l’ultimo Cohiba rimasto.

Consapevole che ogni  sigaro cubano esige un impegno che si tramuta in goduriosa libidine, lo portò alle labbra bagnandone  leggermente la punta. Poi, ne incise il cappuccio con l’apposita cesoia e, infine, concluse il rito dandogli fuoco con un fiammifero di legno.

“Oddio – si disse il nostro aspirante scrittore – forse il tono è un pochino enfatico … Ma rende bene il clima di quegli anni!”

Mentre assaporava una lunga, voluttuosa boccata, si rivide ragazzo, mentre saltava in sella alla bicicletta che aveva vinto alla fiera di Casale e si slanciava, eccitato dalla sfida,  su per le curve tortuose del S. Baronto.

Se ci ripensava, a distanza di più di trent’anni,  aveva ancora sulle labbra il sapore della lotta. Un sapore esaltante, che ora riaffiorava in tutta la sua intensità, mischiato a quello acre del cubano.

Guardò il cielo che faceva capolino dalle foglie di vite americana del gazebo: quel  nugolo di stelle, lassù,  sembrava proprio  un capannello di comari a veglia …

Non c’era proprio niente da dire. Era nato poeta. Un poeta prestato all’Ufficio tecnico del comune. Costretto ad ascoltare le  prosaiche invettive dei capi-cantiere, invece degli idilli leopardiani. Ma sempre un poeta!

Con un ampio respiro assaporò una folata di vento che veniva dal bosco di castagni che si perdeva sul retro della casa.

Si rimise all’opera, deciso a sfruttare l’aiuto delle Muse fino alla fine.

 

“Fin da piccolo si capiva che avrebbe avuto il carisma del capo.”

 

“Beh, non esageriamo … Diciamo che ero un tipo in gamba, anche se mi rimandavano sempre a Italiano e a Inglese. Ma questo si può omettere, perché non è funzionale al racconto. Dunque, dunque …”

Ecco, ora era giunto il momento di far entrare in scena Lei. Sì, proprio lei, la passione mai sopita della sua avventurosa adolescenza. La sua occasione perduta. La sua ninfa proibita.

Cercò le parole adatte per descriverla, così come gli era rimasta impressa nella mente. E  come  ancora gli appariva  nei sogni tumultuosi  di un’andropausa inesorabilmente segnata dal reflusso gastro-esofageo.

 

“Ma soprattutto lei. Una montagna di capelli ribelli, in perenne movimento, uno sguardo volitivo e deciso, due smeraldi cangianti che ti trascinavano in un  vortice periglioso e voluttoso. Anche lei una predestinata, destinata a rimanere un sogno proibito.”

“ Ad essere sinceri, la prima volta che ci incontrammo, sui banchi di scuola, lei mi tirò un destro da far invidia a Nino Benvenuti. Ma ben presto l’antipatia iniziale si trasformò in sentimento tenero e appassionato …”

 

“Divennero inseparabili: interminabili corse in bicicletta sulle strade polverose lungo gli argini, corse a perdifiato per cogliere il fiore più bello della collinetta, a fianco della chiesa, dopo il catechismo. Poi, quando la frescura della sera prendeva il posto dell'arsura del giorno, ci si ritrovava nella piazza del paese, stanchi ma con la gioia dello stare insieme.”

“ Ma, come in ogni fiaba che si rispetti, ecco irrompere sulla scena la bieca figura dell’antagonista. Colui che, con le sue arti diaboliche, sbarrerà la strada al nostro eroe e lo sfiderà sulle due ruote, con lo scopo di portarle via la bella dagli occhi cangianti come due smeraldi”

Il mio compagno di banco era un gran figlio di puttana. Ma devo ammettere che con le donne ci sapeva fare. Se non altro per via di quello sguardo ombroso e un po’ strafottente.

“Il suo era il fascino del lupo: ferreo alle regole del gruppo, ma, allo stesso tempo, uno che   ama cacciare da solo. Dal suo sguardo non traspare alcuna  emozione. Un segugio formidabile, dall'istinto infallibile, abituato a non mollare la preda. Un capo branco. La vita dura dei campi e la prematura mancanza di affetti gli avevano temprato un carattere forte e deciso; ma al tempo stesso, quella carenza di carezze, lo aveva reso vulnerabile nell'animo, e un perenne velo di malinconia lo accompagnava anche nelle giornate più spensierate ….”

 

“Se  per malinconia si intende che era sempre incazzato per colpa della sorella maggiore  che lo riempiva di busse … Ebbene, allora sì il mio antagonista, era perdutamente malinconico!”

           

“Così, come nel più classico dei romanzi, ecco che prende forma la trama: due amici/fratelli diventano nemici/avversari  e la bella è inevitabilmente contesa. Ed era bella davvero! ”

“O perlomeno a me sembrava bella. Oddio, l’ho rivista una decina d’anni fa e devo dire che aveva due fianchi da far concorrenza a un autotreno. I riccioli bruni, con il tempo, poi, erano diventati rosso carota con delle orribili mescioline che davano sul verde marcio. Insomma, si sa che il tempo non è galantuomo. Nemmeno con i primi amori! D’altra parte, come dice il Petrarca: “ … un vivo sole fu quel ch’i’ vidi; e se non fosse or tale, piaga per allentar d’arco non sana.”

Il Marcozzi si deterse con il palmo della mano le goccioline di sudore che gli scendevano sulla fronte, appannandogli le lenti degli occhiali. Scrivere lo entusiasmava ma, al  tempo stesso, lo lasciava esausto e  con una sensazione di inappagato svuotamento. Ma, soprattutto, con la frustrante consapevolezza di non riuscire ad esprimere il suo contorto mondo interiore.

Più di una volta aveva maledetto gli studi tecnici e aveva rimpianto di non essersi dedicato allo studio della filosofia, che aveva sempre considerato una disciplina congeniale alla sua mente speculativa e immaginifica. Ma ormai era inutile recriminare …

Il geometra sospirò e si rimise all’opera. Ora bisognava rievocare la grande sfida fra lui e il suo rivale. Era senz’altro il pezzo forte dell’autobiografia e bisognava ricreare sulla pagina quel clima epico. Il duello fra il Marcozzi ( Girardengo per gli amici) e Michele Biagini (“il lupo”) assumeva, a distanza di anni, i colori sfumati di un OK Corral. E come  in un vecchio  film in bianco e nero i due finirono per misurarsi sulla strada polverosa,  poveri epigoni di Kirk Douglas e di Burt Lancaster, ingenui eroi delle due ruote, oscuri samurai della provincia rurale …

 

“Era sempre la bicicletta il confronto: forza, resistenza, sacrificio, tattica, coraggio; era la prova una corsa in bicicletta lungo l'argine del fiume, dove si snodavano, tra dossi e buche, gli stradelli per accedere ai campi. Una corsa in parallelo fino a raggiungere il passaggio a livello incustodito che segnava il traguardo; una corsa piena di insidie perché, oltre alle buche, bisognava schivare anche improvvisi ostacoli: covoni accatastati sui cigli, carri trainati da buoi o da stanchi ronzini. I segni di vecchie croste sulla pelle dei ginocchi e delle braccia erano i bollini per la patente del più bravo. Ma era il passaggio a livello incustodito il punto interrogativo più grosso. È sempre stata la benevolenza divina a bilanciare l'incoscienza giovanile. E così fu anche per quell'ennesima volata. La più voluta. Il sudore che ti brucia gli occhi, la gola secca dalla polvere, i muscoli oramai allo stremo richiamati dall'orgoglio, il fischio del treno, lo sbuffo del fumo che irrita le narici, una massa metallica sempre più vicina e minacciosa.... urli che squarciano l'afa, scintille di metallo che sibilano nell'aria, una nube di polvere sollevata da pantaloni e camice stracciati. E alla fine quel sorriso irridente si erse mezzo insanguinato …”

 

“ Eccoci!  - si disse il Marcozzi, contemplando le parole sullo schermo del portatile.

In fondo, rievocare la sua prima vittoria, trasformatasi subito in una cocente sconfitta, assumeva un significato terapeutico. Sentiva che la scrittura  gli permetteva di liberarsi di tutta una serie di risentimenti che, in qualche modo, avevano condizionato negativamente la sua crescita e che non l’abbandonavano nemmeno ora che stava per varcare le soglie della senescenza.     

E poi, diciamocelo pure, scrivere era più conveniente che ingrassare uno strizzacervelli!

Magari nessuno avrebbe letto il suo romanzo. Ma che importava? A lui bastava dar voce ai ricordi evanescenti, alle impressioni sopite, al suo amore mai consumato. Inoltre, il suo, doveva essere – almeno nelle intenzioni – un inno  e un tributo alla grande passione della sua vita: la bicicletta!

“E vai con il finale!” si disse il geometra, vuotando il bicchiere di rhum che languiva sul tavolo di giunco. 

 

“Si conoscevano nell'intimo i punti di forza e di debolezza. Ognuno conosceva in anticipo le mosse che avrebbe fatto l'altro e sapeva che questa volta non era un gioco. Avrebbe vinto chi non avesse sbagliato. Infatti “... fu per forza o per amore che volle incontrare il suo amico campione... ” Così, come ad un appuntamento, si ritrovarono a svoltare al vecchio bivio, loro due soli. Girardengo svoltò lungo l'argine per la volata, l'ultima, fino al traguardo... il passaggio a livello... Già, in lontananza, si sentiva l'eco dello sferragliamento della locomotiva. Che notte, quella notte! La luna tirata a lucido, si beava del concerto dei grilli e del frinire delle cicale, che cantavano alla bellezza della vita, consapevoli del loro destino.”

“Ma le cicale friniscono di notte? “ si chiese amleticamente il nostro geometra, mordicchiandosi l’unghia di un pollice.

Dopo averci pensato per qualche secondo, decise che, a quel punto fatidico della narrazione, qualsiasi licenza poetica era lecita e continuò con foga affabulatoria:

 

“Iniziò così la corsa e, nonostante il fanale fuori uso,  riuscii a scansare gli ostacoli. Correvo, ormai alla pari con il fanale, dall'altra parte dell'argine. Avulso dal tempo e dallo spazio, mi  pareva di sentire i battiti del cuore del mio avversario, battiti tumultuosi, di passione e di sforzo. Lo sforzo dei muscoli protesi sui pedali … In gioco, adesso, con la vita c'era l'intera posta.”

Il Marcozzi era proprio soddisfatto. Finalmente era riuscito a liberare le parole. Quelle dannate parole che, per anni, si erano rifiutate di approdare sul foglio per  saldare un vecchio conto. E ora,come per miracolo, le frasi defluivano,  agili e pacificate, simili a un balsamo che lenisce ogni passato rancore.

Il finale era meno glorioso ma, nel suo impietoso realismo, assumeva contorni di drammatico lirismo:

 

“Sempre appaiati, nessuno voleva o poteva, mollare. In alcuni punti, dove gli argini si avvicinavano, ci sembrava di incrociare l’uno gli sguardi dell’altro. Sempre spavaldo e beffardo il suo … Eppure, forse per una mia speranza, o per la mia strenua volontà di vincere, quella volta scorsi un alone di paura. Paura di perdere. In lontananza si sentivano le grida del resto del branco che si era messo, in ritardo, all'inseguimento, ma ancor più vicino giungeva il minaccioso rumore metallico. Già l'acre odore del fumo pungeva le narici. Ma questa volta il lupo era troppo affamato e la volpe lo sapeva.

Giungemmo alla pari sui binari e il raziocinio questa volta ebbe la meglio sull'istinto e sulla disperazione.

Allora, come in un film già visto, sentii l’odore del metallo che stride tra fiammate di scintille, della polvere sulle giacche, dei pantaloni strappati, del sangue delle sbucciature sui ginocchi e sulle braccia. Seguirono pacche sulle spalle, encomi e promozioni, ma di quei giorni ho solo il ricordo di due smeraldi che mi condannavano alla sconfitta finale.

 Due giorni dopo aveva saputo che “ il lupo” si era preso la sua rivincita: la brunetta dagli occhi di smeraldo era fuggita con lui a Rimini. E lì, dopo alterne vicende, avevano aperto un chiosco sul quale campeggiava una beffarda insegna: “Il panino del campione”.

 

Il Marcozzi sbadigliò. Il gruppetto di stelle-comari se ne stava ancora lassù, a commentare con pietosa partecipazione, la sua vicenda ciclistica e umana.

 

“ Samantha, vuoi deciderti a portare la pratica del Pagnini all’Ufficio tecnico? Se non ci danno il permesso in tempo, finisce che ci mandano i vigili e ci fanno smontare tutto. E poi nessuno mi paga.”

“ Sì, vado, vado ….”  gli rispose, svogliata, l’apprendista geometra, mentre finiva di laccarsi un’unghia.

 

“È possibile che qui lavori soltanto io?”  si chiese il Marcozzi, in preda alla più cupa desolazione.

Il cellulare squillò in maniera sgraziata. Il geometra riconobbe il numero e lo spense con un’espressione scocciata: “ Ora basta! Glielo dico che non è più il caso … Non posso passare le mie serate in discoteca. Non ho più l’età! E poi, anche quando ce l’avevo, non mi è mai piaciuto.”

Samantha si lasciò scappare un sorrisino ironico e uscì carica di fogli, sbattendo la porta con un calcio, per non rovinarsi lo smalto. 

Il cellulare suonò di nuovo, con insopportabile insistenza.

“ Sì?  Olivia … carissima. Tu non immagini quanto lavoro abbia da sbrigare. E poi dicono che d’agosto non c’è nessuno … Figurati, qui c’è una fila che non ti dico. Sì, un minuto … prego, non spingete! Uno alla volta, per carità … Signora, un attimo e sono da lei … Ingegnere, mi aspetti, arrivo immediatamente … Come vedi, bella mia, non ho un minuto di tregua. Il mio nome finirà sicuramente inciso a caratteri cubitali sulla lapide dei caduti sul lavoro. È come vederlo! No, tesoro, stasera proprio non posso!. Dove? Al “Lady Godiva?”  Ma, figurati! Non ho quasi più capelli e ho anche un inizio di pancetta. Come faccio a venire al “Lady Godiva”? E poi ho tanto di quel lavoro da sbrigare … progetti da consegnare … Sai, roba di un certo impegno: pollai tecnologici, pied-à-terre  per avvocati adulteri, ponti mobili sull’Ombrone … Come? Va bene, d’accordo, sabato prossimo ti accompagno a Mirabilandia. Giuro. Ciao, amore …”

Il Marcozzi non poté  fare a meno di darsi dell’autolesionista. Era lucidamente consapevole che questo amore tardivo con una trentenne dalle passioni infantili  prima o poi, gli avrebbe  compromesso, oltre al conto in banca, anche le coronarie.

Ma ormai sembrava destinato a percorrere fino in fondo la sua discesa, senza freni e con le gomme a terra. Tanto per usare una metafora a lui familiare.

 

La cappa di afa sembrava intenzionata a non concedere alcuna tregua. Nemmeno quei nuvoloni grigi che sbucavano minacciosi all’orizzonte, facendosi largo dietro le montagne violacee, parevano promettere il conforto di un acquazzone notturno.

Il Marcozzi tirò fuori la bici e si lasciò andare, con un sospiro liberatorio, lungo i tornanti che portavano a valle.

La pianura gli apparve un po’ desolata. Gruppi di pensionati catatonici  sedevano pigramente ai tavoli dei circoli ricreativi. L’eco del telegiornale giungeva a intermittenza, mentre il geometra sfrecciava sulla provinciale, incurante delle invettive che, ogni tanto, gli giungevano da qualche frettoloso automobilista che lo sfiorava, “facendogli il pelo” alle ruote.

Vai Girardengo, vai grande campione nessuno ti segue su quello stradone …”

Le prime ombre della sera calavano, rasserenanti e materne, a placare le ansie del geometra-ciclista, la cui corsa rallentò all’incrocio, là dove finisce la pianura e incomincia la città.

“A Candeglia fanno la sagra della frittella unta” ricordò il Marcozzi, che, nonostante la minaccia del colesterolo, nutriva una passione inestinguibile per i dolci, specialmente per quelli fatti in casa.

In un attimo, svoltò a destra e si diresse, con il vento in poppa, verso Candeglia.

E fu all’ingresso del paese, fra nugoli di bambini schiamazzanti e mamme discinte, che il destino, ingrato e beffardo, gli venne incontro. E lo sfidò servendosi di una innocua frittella, che il solito bambino disappetente aveva gettato sull’asfalto, calpestando impunemente le norme più elementari dell’educazione civica.

Il Marcozzi sentì la bici farsi più leggera. Quasi inconsistente. Le ruote scivolarono a zigzag sull’unto e, ribelli agli ordini dei freni, andarono a sfasciarsi contro il cassonetto della raccolta differenziata, catapultando il malcapitato ciclista sull’asfalto ancora rovente.

Nell’angusto giardinetto del reparto di ortopedia, il geometra Marcozzi, reduce da un intervento al menisco e da un altro alla clavicola, fissava il fondo della vasca con mesta rassegnazione. Uno squillo stizzoso di cellulare lo richiamò bruscamente alla realtà.

“Sì, Olivia … oggi sto molto meglio. I medici mi hanno assicurato che in quaranta giorni si risolverà tutto. Poi, con un paio di mesi di fisioterapia, tornerò il leone di sempre … No, cara, non credo proprio che potrò venire con te a Sharm per le feste di Natale. Ma tu prenota pure. Dammi retta, vai con la tua amica Priscilla e magari vi portate anche quel giovanotto sempre abbronzato … Quello con tre campanelle agli orecchi, che gioca a rugby e che quasi non articola parola. Come si chiama? Ah, sì Jonathan, giusto lui. Va bene, Olivia, ci sentiamo presto. Baci, baci …”

Il geometra, contuso ma temporaneamente esonerato dai faticosi impegni sentimentali e lavorativi, tornò a fissare l’acqua torbida e melmosa che si increspava ogni volta che un pesce macilento affiorava alla superficie in cerca di un insetto o di una briciola.

L’odore nauseabondo delle ninfee marcite si mischiava alle esalazioni di disinfettante che provenivano dalle finestre del reparto. Quell’atmosfera di dissoluzione fisica e morale ben si accordava con lo stato d’animo del Marcozzi, che, per natura, era piuttosto incline alle malinconiche meditazioni di matrice decadente.

Per un istante il suo temperamento istrionico gli suggerì un immagine di se stesso abbastanza accattivante: si vide sul palco, vestito di nero, con il cipiglio gasmaniano e il gesto albertazzesco, mentre intonava con voce suadente il suo lamentoso “cupio dissolvi”.

Ma un altro squillo di cellulare lo richiamò improvvisamente alla prosaica realtà. Guardò il numero sul display: era Samantha.

Il Marcozzi esitò un attimo e poi spense il telefonino con un gesto deciso e irrevocabile.

“Basta con le beghe di lavoro! Basta con lo stress da prestazione!”

Il suo grido di rivolta si perse nel silenzio. Solo una pantegana, che gironzolava distratta dalle parti del magazzino, si fermò un attimo ad osservarlo incuriosita. Ma subito dopo corse ad infrattarsi nella vicina radiologia.

Fu in quel momento che il geometra-ciclista fece appello alle sue residue facoltà mentali e, contemplando incantato un grosso pesce grigiastro che apriva la bocca verso di lui, si pose lo shopenaueriano dilemma: “Chissà se anche i pesci scivolano?!”