Ve la ricordate la Jaguarmatic? Eh? E la Tigermatic?

Che belle che erano.

Io ce le avevo tutte, tutta la serie dico, e ci giocavo, e siccome avevo pochi amici e a calcio ero imbranato, al massimo stavo in porta, e anche lì prendevo giù dei gol a valanga, allora quando ero da solo a casa mi mettevo davanti allo specchio, quello del salotto, che guai a toccarlo, e puntavo dritto con il braccio come un legno, e facevo bang, oppure con la pistola contro la pancia un po’ chinato in avanti, strizzando gli occhi, che così ci vedevo un po’ meno bene e mi immaginavo un nemico di fronte, “O tu o io”, poi guardavo i caroselli e i film alla tv, e copiavo dallo sceriffo della Negroni, e da Giuliano Gemma, al cinemino dell’oratorio, adesso c’è un centro commerciale, anzi il cartello dice shopping center, che fa più moderno, ma lasciamo perdere…

E facevo come gli attori dei film, a chi spara per primo, perchè chi spara per primo vince, e chi vince c’ha ragione, e chi spara dopo, invece, perde, e chi perde muore.

E chi muore, non c’è un cazzo da fare, c’ha sempre torto.

A scuola li chiamavano quelli della Corea, ma gialli al massimo lo diventavano per l’itterizia, perchè stavano in case di merda, sporche e piene di germi, e fin da piccolo il babbo me lo diceva, “Lo vedi? Devi studiare, tanto, e poi prendi un diploma, e prendi un bel posto”, “Magari in banca”, sospirava la mamma, e lui si chinava e mi guardava fisso e mi sibilava nell’orecchio, “Se no finisce che vai a stare nella Corea”

E noi invece stavamo bene, io e mio fratello andavamo a scuola, d’estate un po’ di mare a Viserba, per Natale giù dalla nonna per i regali. A scuola a me piacevano solo i numeri e la storia, con i numeri ero bravo, dalle tabelline giù... no, su, sempre su bisogna andare... su fino alle equazioni. E della storia, mi piacevano i grandi comandanti, quelli che da niente avevano messo su un castello, poi un ducato, poi un regno, poi un impero, Cesare, Carlomagno, Napoleone, Hitler...

Coscienza a posto, dorme tranquilla, diceva sempre mio papà. Gran lavoratore, sempre puntuale in fabbrica, al lavoro anche con l’influenza, una sciarpa e il Vicks vaporub, fino a una certa età io mi credevo che il Vicks lo fabbricava la mamma, da tanto ce n’era sempre per casa, per tutti, appena si sentiva un colpo di tosse un attimo dopo c’era odore di Vicks. Papà era preciso, una volta la settimana lavava la 850, una volta ogni tre anni imbiancava casa, che la mamma ci teneva, bisogna andare all’onore del mondo, diceva, e questo comprendeva tutto, le pareti imbiancate e i capelli tagliati corti dal barbiere, camicie stirate e pantaloni con la piega, a scuola si studia e a casa prima di giocare si fanno i compiti, a tavola si sta composti e non ci si sporca e non si parla di certe cose, e di certe altre cose, poi, non si parla mai...

Coscienza a posto, ripeteva papà...

Io facevo sì con la testa a papà e dicevo, sì papà, facevo sì con la testa a mamma e dicevo, sì mamma.

E intanto giocavo con le pistole.

Me le costruivo anche, pezzi di legno e di tubo, attaccatutto, chiodi e nastro isolante, disegnavo i particolari con i pennarelli, e poi davanti allo specchio, arrenditi cane, muori traditore e poi...

“Ti ammazzo, figlio di puttana!”

Questa l’avevo sentita da uno più grande che l’aveva sentita al cinema, non sapevo neanche bene cosa voleva dire. Lo sentì anche la mamma, che si mise a piangere e lo disse a papà.

Tre schiaffoni fatti bene, di quelli che hai la faccia rossa come la salsa di pomodoro.

E niente più pistole, per tre mesi.

 

E poi niente più specchio, perché papà aveva avuto un piccolo aumento, e allora abbiamo cambiato casa, ci siamo avvicinati al centro si e no di cento metri, un paio di vie, ma per i miei era un gran risultato, e così una volta ogni tanto si faceva un giro a piazza Duomo, con la 850, che allora si poteva, papà metteva il vestito grigio, la mamma un completino a quadretti e si andava a bere un aperitivo (detto con un tono come a intendere che non era mica roba da niente, l’aperitivo), al Motta, “in Galleria”, roba da sciùri, bitter e oliva per papà, acqua minerale per la mamma, che aveva un fegato da stare sempre attenti, e aranciata e patatine per me e mio fratello. E lì in centro ne vedevi di sciùri, che c’avevano sempre l’aria di... non so, di qualcuno che non viveva lì, ma su un altro pianeta, dove tutti erano belli abbronzati e ben vestiti e scendevano da macchine che nel nostro garage ce ne entrava si e no metà, e ogni tanto prendevano un’astronave e venivano giù, a vedere cosa facevano quei poveri pirla che stavano qui, in mezzo allo smog, quelli che lavoravano come muli, quelli sempre senza un uno, quelli che facevano i cortei e gli scioperi, quelli che tiravano sassate e prendevano la gente a sprangate.

Quelli che mettevano le bombe...

Sessantotto e sessantanove, la bomba in quella banca, che ancora adesso dice che non sanno chi è stato, e quello là, il ballerino, che era il mostro, dopo si vede che non era lui, che non era più un mostro, ma comunque a me non interessava.

Perché su una cosa sola davo retta a papà, quando parlava di politica, ma lo faceva solo per dire che la politica è per i ricchi, i furbi e i ladri, “Tu pensa a studiare, mi ripeteva con il dito alzato come una spada,  e poi a trovare un buon impiego, il resto che si arrangino loro”. E in quel loro c’era tutto, presidenti, ministri, sindaci, generali e compagnia bella, e tutta la diffidenza di gente che era sempre stata in fondo alla scala, senza neanche guardare su, operai e contadini, casalinghe e cucitrici, e chi aveva fatto la guerra si era fatto accoppare senza neanche portare a casa una medaglia, pazienza, coscienza a posto...

E poi c’erano quelli come lo zio Nino.

Quelli di cui non si doveva parlare, né a tavola né in casa né mai, quelli che erano le pecore nere, perché non avevano un posto e non avevano messo su famiglia, e allora cosa voleva dire? Eh?

“Non me ne parli, diceva la mamma alla signora Lia, la vicina di pianerottolo, che ho un dispiacere, ma è mio fratello, cosa vuole, non viene mai e quando viene finisce sempre che il mio Giuseppe e lui attaccano da lite, prego tanto santa Rita, ma gli uomini lo sa come sono…”

Perché lo zio Nino, diceva papà, era uno che trafficava, e faceva un movimento con la mano vicino alle tasche dei pantaloni, le dita aperte, che giravano e quando smettevano di girare si erano chiuse, come se dentro c’era qualcosa, qualcosa che prima non c’era, qualcosa che forse era di qualcun altro, prima.

Però sul pacchetto regalo, rosso col nastro dorato, c’era ancora il nome del negozio, e la scatola nel pacchetto era ancora dentro il suo cellophane, nuova nuova… Non lo poteva sapere, lo zio Nino, che ero in punizione, niente pistole perchè avevo detto quella cosa là, niente specchio perché nel soggiorno nuovo lo specchio c’era, ma guai a sfiorarlo, guai a sedersi sul divano e le poltrone in vera pelle, anche se c’era la plastica sopra, guai questo guai quello…

Eppure lo zio Nino era passato una domenica, e si era fermato a pranzo, e aveva fatto il bis di cannelloni alla faccia di mio padre, e poi mi aveva aspettato quando ero uscito per andare a prendere il gelato, me lo ricordo ancora, davanti al bar Bamby, il tram che passava con un baccano infernale, e mi aveva dato il pacchetto, e nella scatola c’era...

Chi se la ricorda, la Oklahoma? Che la aprivi in due, e dentro ci andava l’aria, e nella canna il gommino rosso, poi chiudevi e la puntavi con due mani perchè era di ferro, e pesava un quintale, e schiacciavi il grilletto e paf! partiva il gommino, che faceva teng sulla lattina vuota dei pelati, pak sulla pagina de La Notte, il giornale di papà, e lo bucava. Che forte che era!

Poi ho imparato a metterci uno spillo, che infilzava il gommino per il lungo, e lo tiravi che si piantava nei cuscini, nei vasi di gerani della mamma, nel materasso… e nella coscia di Roberto, mio fratello, che era più piccolo e rompeva sempre,  cominciavo a non sopportarlo più, però non che l’ho fatto apposta, stavamo giocando è partito il colpo, lui si è messo a piangere, io a fargli ssssssstt, no, aspetta un attimo...

Le avevo già prese, qualche volta, ma mai come quella volta.

L’Oklahoma sparì più veloce di uno dei suoi gommini, e non l’ho vista più.

Papà il giorno dopo mi ha preso, ancora mi bruciava il culo (allora lo chiamavo sedere) dalle botte, e mi ha portato in centro, fino dalle parti di Sant’Ambrogio, e io credevo che dovevamo andare in chiesa, invece ci siamo fermati davanti a un portone di ferro in una muraglia, e mi ha detto “Lo vedi? Quello è San Vittore, dentro ci stanno i delinquenti, chiusi in cella. Vuoi andare a finire lì dentro?” Mi sono messo a piangere, no, no, no… “Vuoi finire a fare il galeotto?” No no no… e giù lacrime, e moccio dal naso…

Un po’ di tempo dopo, una sera che papà si era addormentato in cucina, perché in soggiorno no, che poi si sporca, e sul tavolo c’era La Notte, aperta, e un articolo col titolone, me lo ricordo, TUTTA A SAN VITTORE LA GANG DEL VENERDI’, banditi che rapinavano i gioiellieri che il venerdì portavano in banca gli incassi della settimana, furbi, avevo pensato io, e poi c’era una gran foto in bianco e nero, delle brutte facce in manette, in mezzo ai poliziotti.

E uno, uno di quelli con le manette, sembrava proprio lo zio Nino.

 

Il tempo era passato, a volte sembra che non faccia altro, il tempo, l’hanno messo lì solo per passare, la sveglia che prima ti diceva vai a scuola adesso ti diceva vai al lavoro, l’orologino placcato oro che prima ti diceva quanto mancava alla campanella adesso era un Timex con i numerini digitali, per sapere quando andare via dalla fabbrichetta zona Paullo, scatole di latta per i pelati i fagiolini la conserva, mai provato? I primi giorni, le prime settimane ti fischiano le orecchie anche quando dormi, il tatang-tatang delle scatole che corrono lungo la linea fino al palletizzatore, che come dice il nome fa i pallet di scatole, uno strato dopo l’altro, come una torta, una torta di latta cartone e legno, tatang-tatang, il tutto per lire cinquantaquattromilaquattrocento nette al mese, adesso con l’euro ci vai in pizzeria, se ne scegli una che costa poco, ma non ci facevi miracoli neanche allora.

Cazzo, il tempo che passava, e cominciare a capire cosa significa spalare merda tutta la vita, fare l’uperari, e un domani tirare su famiglia contando anche le cinque lire…

Quando c’è l’onestà... ci si era messa anche la mamma, che poi non stava più tanto bene, e diventava magra e bianca come lavata col Biòl, quello che è notte Biòl lava...

Coscienza a posto, dorme tranquilla...

Sì, e intanto che dorme gli altri si fanno i soldi, altro che il Biòl.

 

Com’è che si cambia vita? Facile: col totocalcio, tutte le settimane, con la lotteria della Befana, abbinata a Canzonissima, o se eri tanto bravo e sapiente andavi al Rischiatutto.

Come no.

Quante schedine, buone per pulirsi il culo. Quanti biglietti colorati, poi a sentir leggere i numeri da... chi era? La Carrà, Corrado, Mike Bongiorno?

Boh, della tv non mi fregava più molto. Giravo in motorino, e fumavo e andavo un po’ dietro alle ragazze, c’era quella faccenda della liberazione sessuale che avevamo capito che voleva dire che la davano via più facile, ma quelle che conoscevamo io e quei tre amici del bar si vede che non lo sapevano, già tanto se ne convincevi una a farsi toccare una tetta, e poi metà erano figlie di terroni, se succedeva il guaio o la sposavi o ti davano una coltellata...

Sì, lo so, la sto facendo lunga, ma è solo per farvi capire che non capivo molto, a parte il fatto che non volevo fare una vita così tutta la vita.

Per farvi capire che quello che è successo dopo, anche se non lo sapevo, ero lì che non aspettavo altro, cos’avevo da perdere? Il motorino e le scatole di latta, tatang-tatang? Il diplomino era finito sotto una bella lapide con scritto ‘bocciato due volte’, “Sei un senza vergogna, guarda la mamma, come piange, la farai morire!”

E poco dopo è morta per davvero, e se solo ero un po’ più piccolo mi sarei creduto per sempre che ero stato io, che era colpa mia.

Ai funerali era rispuntato lo zio Nino, e papà aveva fatto una faccia brutta, ma lo zio l’aveva guardato, con l’aria di dire, Provaci, provaci a mandarmi via dalla cassa che dentro c’è mia sorella, e papà aveva fatto gli occhi bassi e svoltato via, con la scusa che doveva dire una parola al prete.

Dopo, la sera, in casa non si poteva stare. Roberto era già ripartito, era di leva in Friuli, e io e papà proprio non era aria, lui borbottava da solo, io me sono andato al bar, anche se non avevo voglia e così ero lì, con una Peroni, e una mano nella tasca dei Wrangler, per sembrare un duro, e dall’angolo è spuntata un’Alfa, dall’Alfa  è spuntato lo zio Nino, con lui c’era qualcuno che non vedevo…

“Ciao, zio.”

“Allora?”

“Cosa?”

“Che fai?”

“Niente, lavoro...”

“E poi?”

“Poi boh…”

“Ah.”

“E tu, zio?”

“Sono di partenza. Ma torno, eh. C’è del lavoro qui a Milano, c’è da guadagnare, e tanto... Ma tanto a te mica ti interessa, te è meglio che viaggi sulla strada dell’onestà...”

Mi ha messo una mano sulla spalla, come se stesse per dirmi ciao, se védum, ma l’ha tenuta lì, ha stretto un poco, non tanto da farmi male, ma abbastanza che l’ho guardato in faccia, e negli occhi c’aveva una roba, c’aveva una forza, c’aveva le palle che papà non aveva mai tirato fuori.

Lampi di ferro, dentro quegli occhi, come Giuliano Gemma nel Ritorno di Ringo, come il biondo, Clint Eastwood, in quei film dei dollari.

E sotto la giacca, nella cintura, nascosta ma neanche tanto, spuntava una pistola. Vera. Cioè, non lo sapevo, ma sicuro che non tirava gommini.

L’ho guardata, lui ha guardato me, poi “Quando papà me le ha date per l’Oklahoma, mica gliel’ho detto che me l’avevi regalata tu.”

Mi ha sorriso. “Bravo.”

Io guardavo la pistola.

Lui l’ha presa e me l’ha messa in mano, ho fatto due occhi così, era sera ma ci potevano vedere...

“Devi capire una cosa: una pistola, da sola, è un pezzo di ferro che fa baccano. Una pistola è...”

Si è acceso una Gitane con un accendino tutto d’oro, me ne ha offerta una, buona da dio...

“Una pistola è uno scalino, che se stai attento e lo adoperi bene, ti fa andare un po’ più in su di dove stai adesso. E se continui a stare attento, se continui a essere bravo, uno scalino dopo l’altro, ci fai una scala. Che in principio non sai mai quanto è alta, magari è più lunga magari è più corta, l’importante è che non ti fermi, l’importante è che vai sempre su. L’importante è che quando hai finito, quando sei in cima, ci dai una pedata e via, trac, la butti giù, la fai sparire. Così dietro di te non ci sale nessuno. Perché se ci sale, è sicuro che butta giù te. Chi lo capisce diventa un re, magari non per sempre, magari non dura. Ma finché dura sei un re.”

Cesare, Carlomagno, Napoleone, Hitler... ho visto le loro facce in un lampo.

“Chi invece non lo capisce, e sono tanti, è solo uno stronzo con un po’ di culo, che fa appena in tempo a mettere le chiappe su una Mercedes e la forchetta in un mucchio di Beluga...”

“Di che?”

“Caviale, è una specie di... uova di pesce, una roba che mangiano i ricchi, a me non piace, ma fa chic... e non mi interrompere, cazzo.”

“Scusa...”

“Che quello che conta, non è mangiare caviale o guidare una fuoriserie, quello che conta è smettere di mandar giù quella merda, che adesso mandi giù tutti i giorni.”

Mi stringe più forte la spalla, e mi viene vicino.

“Quello che conta, è che la merda, anche il sapore ti devi dimenticare.”

C’avevo in gola una roba che non andava né su né giù. Grossa come il pesce che faceva quel coso, lì… il caviale.

“Allora?”

Ha fatto un passo indietro. Prendere o lasciare.

In quell’attimo, dall’Alfa è scesa l’altra persona. Viene lì e mi guarda appena, e io invece le faccio una lastra, riccioli cotonati e due gambe della madonna con certe calze velate color fumo, la mini nera di pelle, un attimo e ce l’avevo già duro come un sasso, come quando qualche anno prima mi facevo le seghe con Jacula, “Niiiinooo, dddàààii, che siamo già in ritardo”, ma lei ha detto vitavdo, con quella bocca, come le tipe dei varietà Tv, madonna ma una così come si faceva ad averla?

“Stai buona e non rompere i coglioni, che sono questioni di famiglia, poi vengo.” Non la guardò nemmeno, gli occhi piantati nei miei come i gommini con lo spillo dell’Oklahoma. “Allora?”

Il pesce andò giù, e aprii bocca e presi aria, e feci sì, sì con la testa, come con mamma, come con papà.

“Non ho sentito, sì cosa?”

“Sì, zio.”

“Bravo. Tu per ora tieniti pronto, quando è il momento ti faccio sapere.”

“Sì, zio. Grazie, zio.”

Tre sere dopo mi mandò a prendere dall’Oriana, “Ti mando un’amica per le nove”, lei arrivò alle dieci, “Scusa cavino, ma sono sempve in vitavdo”, mi portò in un posto vicino a San Siro, un palazzo con ascensore e moquette, mi portò su, quinto piano, dentro marmo e vetro, “Ma lo sai che sei davvevo cavino”, mise della musica, roba languida, “Mettiti comodo” e poi mi portò a letto, e nuda era... troppo, era… profumo e seta e reggicalze, il paradiso...

Una settimana dopo, dissi a papà che andavo via per il weekend, con degli amici.

E ci andai davvero, via, mica era una balla, e c’erano anche gli amici, amici dello zio Nino, con tre macchine e un furgone, e io ero il pivello, così dovevo solo fare la guardia, mentre loro infilavano un tizio nel furgone, era un conte o una roba così, lui non ci voleva entrare, ma era solo, e loro erano tanti e con tante pistole, pistole vere.

Dopo un po’ di giorni, andammo con lo zio e un altro della banda, Saro, un calabrese con due coglioni come le angurie, che non parlava mai e se parlava voleva dire che eri morto, andammo a prendere il riscatto, “Noi c’abbiamo dato appuntamento in un posto, ma là ci vanno anche gli sbirri,  sicuro come l’oro, e allora noi gli facciamo una sorpresa”, c’era la nebbia, una notte scelta apposta, dopo un quarto d’ora io mi ero già perso, “Ma stai tranquillo, che Saro c’ha un radar nel culo”, Saro ha fatto una smorfia che a esagerare somigliava a un sorriso, lo zio era l’unico a poter scherzare con lui, il tizio con i soldi l’abbiamo fermato sotto un viadotto dell’autostrada, in mezzo alla nebbia, sa la madonna dove.

Nelle due valigie c’erano cinquecento milioni tondi tondi, ce li avete presenti cinquecento milioni in pezzi da mille, cinque e diecimila? A cinquantaquattromilaquattrocento al mese, erano quasi ottocento anni a sentire il tatang-tatang

L’onestà... ‘sta minchia.

Un po’ di tempo dopo, ho rivisto lo zio. Gli ho chiesto se il conte era tornato a casa, che i giornali non ne parlavano. Mi ha guardato fisso.

“Ma di chi parli?”

“Ma… no, niente.”

Non ho mai più chiesto un cazzo. Né allora né dopo.

Erano bei tempi, per chi era in gamba, per un po’ bastava essere un po’ svegli e non troppo cazzoni e di lavoro, e di grana, ce n’era per tutti, anche di posto ce n’era per tutti, Milano si era ingrossata come un preservativo gonfiato, con tutta la gente che ci era venuta fin dagli anni cinquanta, a cercar lavoro, e ci si era fermata. C’era da fare per tutti i mestieri, muratore, elettricista, idraulico, impiegato. Anche per quelli come noi, che eravamo come gli indiani, piccole tribù, ognuno le sue tende, ognuno il suo pezzo di far west, acqua di fuoco e squaw. Non era più tempo di Cesare e Napoleone, adesso c’era Faccia d’angelo, e il Tebano, e Jimmy Miano, il René che si faceva i cazzi suoi alla Comasina, e i calabresi e i napoletani, e cominciavano a spuntare quelli di Palermo, Liggio, Calò... Tanti nomi, tante facce, chi se li ricorda più, qualche poliziotto in pensione, qualche vecchio giornalista, i ladri di adesso hanno le palle di plastica e rubano con un computer attaccato al telefono, non con le pistole...

Io adesso ci giocavo davvero, con le pistole. Tanti anni davanti allo specchio, a qualcosa erano serviti...

Era come quella vecchia canzone, bang bang, tu spari a me, bang bang io sparo a te, niente più gommini, niente più buchi nei giornali, se papà avesse visto la. 357 Magnum che mi portavo dietro, altro che Oklahoma, un cannone cromato che bucava carrozzerie, fermava un motore in corsa, cancellava facce e inchiodava corpi come un cristo alla croce, che se quelli sparati non avevano un documento, e se ce l’avevano era falso, riconoscerli era un bel rebus. Ne ho sparato qualcuno anch’io, quando c’è stato bisogno, non troppi, non troppo pochi. Il giusto per farsi rispettare.

Bang bang, la prima volta è dura, non ci sono cazzi, gli occhi che si spengono come a girare la chiave della macchina, e tutto il sangue che viene fuori, viene fuori, come un rubinetto che non si chiude più… A volte aspetti uno e devi farlo a freddo, a volte aspettano te e se non sei in campana, se non spari per primo o più dritto, hai perso, e chi perde muore.

E chi muore, non c’è un cazzo da fare, c’ha sempre torto.

Quando me lo dimentico, mi basta toccare la spalla, sotto la camicia, e sentire la cicatrice…

Per non pensarci c’erano i soldi, lo champagne, la coca e le fighe. Lo zio mi aveva praticamente regalato l’Oriana con la evve, era una brava ragazza, solo un po’ troia, peccato che si è messa a bere, pensare che voleva fare la ballerina e lavorare in Tv, era una fissa anche allora, comunque quando è finita fuori strada, ubriaca, vicino  a Gorgonzola, mi è dispiaciuto…

Anche se l’avevo già mollata, a quel tempo uscivamo con delle fighette di buona famiglia, si andava al night, si beveva, e nello champagne gli mettevamo una pastiglietta, le forniva un libanese amico dei calabresi, che faceva affari anche con noi, e oplà! con quella roba lì partivano e facevano, e si facevano fare, di tutto, ma proprio di tutto... Ci alzavamo al mattino dopo con le palle sgonfie, e un sorriso da gallo nel pollaio.

Poi uscivamo dal pollaio, e ricominciavamo a morire.

Uno alla volta, sempre più alla svelta.

Niente più tribù, niente più ognuno per sé e vaffanculo per tutti, no. Tutti adesso volevano tutto, qualcuno anche di più. Milano di colpo era diventata troppo piccola. Troppe forchette nello stesso piatto. E poi gli sbirri si erano messi a pestare di brutto, con i politici al culo, che i politici a loro volta al culo c’avevano la gente, stufa di portare i bambini a scuola e vedere uno con la testa sparata via nella macchina all’angolo. E noi coglioni a fare il loro gioco, sparandoci tra noi, come mosche che invece di succhiare ognuna il suo po’ di sangue dalla vacca, si mettono a litigare davanti al suo culo, per decidere di chi è.

E la vacca ci ha cagato sangue addosso a tutti.

Mitragliati al kalashnikov, come Saro che non parlava mai.

Spariti nel cemento, come Peppe l’Africano.

Incaprettati nel baule di una Mercedes, come uno dei Mammoliti.

Squartati e col cuore mangiato, come Turatello, il re...

Milano come Chicago, ve li ricordate i giornali?

Mica lo so com’era Chicago, Al Capone e il resto. Ma se eri un gangster, era a Milano che dovevi stare. Ed era a Milano che dovevi morire.

Lo zio Nino era invecchiato.

Uno come lui, che parlava di fare l’infame...

“Non è più come una volta, adesso è roba troppo grossa, la mafia, i politici, capisci, ormai la pistola te la puoi mettere nel culo, i napoletani mandano su paranze a fare rapine e rischi di pestargli i piedi, i calabresi si pigliano i sequestri e guai se ti intrometti, e la droga la manovrano da Palermo, o da Marsiglia o da Nuova York, non si capisce più un cazzo!”

“Zio” lo prendo per la spalla, sembra più vecchio di un secolo, “zio, la scala, ti ricordi? Uno scalino per volta, siamo saliti, ma non siamo ancora in cima”, mi prende la mano e la butta di lato, come uno straccio usato, “Ma che minchiate dici, quello era solo per modo di dire, adesso dobbiamo pensare a salvare la pelle, mettiamo via quello che abbiamo, ormai siamo in pochi, non ce la possiamo fare, e poi conosco uno che conosce uno della Mobile, che è culo e camicia con un giudice, vedrai…”

“Sì, e ti fai mettere in gattabuia per trent’anni.”

“No, se hai della roba da vendergli, informazioni, nomi, chi ha sequestrato quello, chi ha accoppato di su, chi ha rapinato di giù, fai un accordo, tu parli e loro in cambio chiudono un occhio sulle tue faccende, semplice e facile, e poi ti rifai una vita in Australia o in Brasile, capisci?”

Come no, penso, ad aspettare che un altro infame si vende il tuo, di culo, per parare il suo.

“E cosa vorresti vendergli, sentiamo.”

Mi ha guardato fisso, poi ha messo gli occhi giù, come papà con lui la funerale di mamma. “Lo dico solo a te, stasera ci vediamo al ristorante anche con gli altri e decidiamo, a pensarci troppo finisce che canta qualcun altro, tra un po’ qui sarà come il coro della Scala, o siamo i primi o ce lo prendiamo nel culo.”

E mi ha spiegato, era un giro di droga grosso, ma grosso proprio, che si stava mettendo in piedi, ero, coca, di tutto, rotte via mare, corrieri insospettabili, aziende con la pubblicità in tv che ci mettevano i chimici, funzionari di banca che ripulivano i soldi, e forse gente ancora più in alto… Lo zio aveva sempre avuto le orecchie lunghe, era stata una delle prime lezioni, “Quando senti qualcosa, mettilo da parte, qui, nella testa, che non si sa mai”, e mentre raccontava, con gli occhi che brillavano, per un attimo ho visto l’uomo che era stato, un duro vero, uno con le palle quadre…

Ma è stato solo un attimo.

“Ricordati, stasera alle nove, dal Napoli, non ti sbagli strada, eh?”

“Certo che no, siamo indiani, no?”

L’ho salutato.

Poi ho pensato un bel po’, ma non troppo, lo aveva detto lo zio, ho chiuso casa, sono uscito e ho fatto una telefonata, da una cabina.

Anch’io conoscevo qualcuno. Qualcuno che conosceva qualcun altro…

Otto morti al ristorante.

Sui giornali hanno parlato di San Valentino, anche se era già fine febbraio, ma era apposta per eccitare quelli che i giornali li leggono.

Un regolamento di conti, e anche persone che non c’entravano un cazzo, posto sbagliato, momento sbagliato.

Io ero già in Svizzera, dove avevo un conto che mi ero fatto aprire da una bionda tinta, anche sotto, che lavorava in una società. Scopata come dio comanda, era stata lei a dirmi, “Ma perché non ti fai un conto in Svizzera, i clienti del mio capo ce l’hanno tutti, un conto in Svizzera”.

I soldi per la soffiata a... quelli che erano andati al ristorante, li ho girati lì.

Insieme al malloppo della banda, che ormai non c’era rimasto nessun altro, a pretendere. Non proprio in cima alla scala, lo ammetto, ma era un bel pianerottolo.

Dalla Svizzera sono andato in Brasile, dove ho approfittato per farmi rifare la faccia da uno che aveva lavorato con Pitanguy, il chirurgo plastico delle dive,  bravo quasi come lui e meno caro, “se vuole togliamo anche scicatrisce di shpala”, no gli ho detto, quella è un promemoria…

Rio de Janeiro, poi Acapulco, avevo bisogno di un po’ di vacanze, per decidere cosa fare, adesso che non era più il tempo delle pistole...

Sono tornato a Milano a fine anni ottanta, non più giovane ma non ancora vecchio, e mi è sembrata Marte, altra gente, altri ritmi, altri giochi…

Ho nasato un po’ in giro, quando fai capire che hai qualche soldo da investire spunta subito uno incravattato che sorride e tira fuori una calcolatrice, e si mette a dirti allora, facciamo il caso di un capitale x, a un tasso annuo del tot, se il mercato va così allora, se invece va cosà allora…

A qualcuno lo avrei sparato volentieri, lo capivi  al volo che erano lì per portarti via anche le mutande e se in quel momento scorreggiavi avevano un vasetto per portarti via anche quella, ma mi sono ricordato del vecchio far di conto di quando andavo a scuola, e bene o male sono riuscito a non farmi inculare troppo, e sono ancora qui, con le mie attività, le mie storie, i miei cazzi, qualche acciacco ma mi tira ancora, e un domani c’è sempre il Viagra, coi bond Argentina ci ho smenato qualcosa, con le Parmalat invece zero, avevo nasato, la borsa non è mica il banco di beneficenza, ci vai se sei ricco e furbo e conosci qualcuno che ti dà la dritta giusta, e grazie all’autosalone, modestamente, qualcuno lo conosco.

Anche se il dispiacere ce l’ho sempre, di essermi fermato lì, a metà scala.

Anche se era solo una palla dello zio Nino, che voleva solo farmi diventare come lui, in odio a suo cognato e ancora di più a sua sorella.

Alla fine, ero io, quello che aveva ragione.

Perché io ero vivo, e loro tutti morti.

L’altr’anno, poi, la mia segretaria, con quella roba lì di internet, mi ha ritrovato tutta la serie.

La Jaguarmatic, la Tigermatic, la Lynxmatic, il Panthermatic...

Come nuovi, pagati un occhio a un collezionista tedesco che li aveva tenuti come il gambino di un santo.

Se ogni tanto uno non si può prendere una soddisfazione, che si lavora a fare?

Ce li ho in un armadio, e ogni tanto me le guardo, le impugno, le punto davanti allo specchio, che è grande come mezzo studio e lo posso toccare quanto e quando voglio, e strizzando gli occhi…

La 357 no, quella non la prendo mai in mano, sta sempre in fondo alla cantina, in una scatola.

Per ricordarmi, mi basta toccare la spalla, sfiorare la cicatrice… come adesso, d’inverno, che sto sveglio anche se è tardi…

E mi viene ancora in mente quella notte, che sarei dovuto arrivare prima, ma invece avevo girato bene in tondo, e mica perché mi ero perso, no, anche se non avevo il radar di Saro nel culo, era solo che volevo essere sicuro che fosse tutto finito, e dal Napoli era tutto finito, cazzo se era finito, quelli erano arrivati, avevano fatto il lavoro e se n’erano andati già da un pezzo, ma io dovevo controllare una roba, così mi sono avvicinato, la porta del ristorante era socchiusa, ho sbirciato dentro, cadaveri dappertutto…

E ho sentito i passi, un elefante nel silenzio…

E lo zio Nino lì in mezzo, attento a non mettere le scarpe nel mare di sangue, agitato, cazzo se era agitato, cercava qualcosa, cercava qualcuno…

“Cercavi me, zio?”

“Puttana troia!”

Lo avevo seguito fin sotto casa, ai bei tempi se ne sarebbe accorto, ma adesso non più, la paura gli aveva rosicchiato il cervello oltre ai coglioni, però il cannone l’ha tirato fuori lo stesso, bang bang io sparo a te

Ho sparato meglio io, anche se dopo un po’ la spalla ha cominciato a farmi male.

“Abbiamo avuto la stessa idea, zio. Fare piazza pulita e tenerci tutto, eh?”

“Senti...”

“Tu mi hai mandato al macello. E io ci ho mandato te.”

“Stiamo…” un rigurgito di sangue, “stiamo pari, no?”

Gli ho tirato in fronte. Ha avuto un tremito, come una scossa.

“No. Dalla scala ci sei caduto tu, zio.”

L’ho disteso nel bagagliaio, c’ho messo sopra una coperta e sono partito.

C’era la nebbia, ma non mi sono perso.

L’ho sepolto in una cascina abbandonata, dalle parti di Varese.

E ci ho buttato sopra dell’acido.

Il nono morto del ristorante, non l’hanno mai trovato.

E io sono ancora qui, davanti allo specchio.

Senza l’Oklahoma, però.

Quella, non l’ho mai più voluta.