L’esplosione del consumo di polizieschi, ma si potrebbe dire più in generale di tanta letteratura straniera, coincise con la necessità di fare i conti con un regime che, soprattutto dopo la metà degli anni Trenta, impose regole ferree all’editoria. Fin dall’inizio il fascismo aveva guardato con attenzione ai mezzi di comunicazione di massa, prima operando nella direzione del controllo e della censura, poi in quella dell’asservimento alla propaganda, in modo da assicurarsi una base di consenso più ampia possibile. Fu un processo lento, che si venne chiarendo gradualmente, dopo che furono eliminate le opposizioni. Una nuova Italia avrebbe dovuto sovrapporsi e cancellare quella vecchia; il mondo e gli italiani stessi avrebbero dovuto avere l’illusione che il nostro fosse un paese ordinato e tranquillo, privo di occasioni di disordine e liberato anche dalla delinquenza comune.

Per la carta stampata la linea adottata fu quella di una progressiva fascistizzazione delle testate. Una volta eliminata la stampa d’opposizione, quello che restava, e non era poco, avrebbe dovuto semplicemente adeguarsi alle direttive e alle parole d’ordine che venivano dall’alto. Non fu un’operazione indolore: qualche direttore fu defenestrato e una censura sempre incombente fece il resto. I giornalisti, come sempre accade, ebbero atteggiamenti differenti: una parte si rifiutò di collaborare, alcuni per cultura e convinzioni si adeguarono facilmente, altri si adattarono, altri ancora accettarono in modo contraddittorio questa situazione. I risultati furono diversi e da valutare caso per caso, anche perché non fu semplice controllare tutta la carta stampata in circolazione: di certo ebbero maggiore libertà d’azione i “magazines”, i periodici cioè a larga diffusione come la “Domenica del Corriere”. Qui il processo di adeguamento alle direttive, l’abbiamo detto, è rintracciabile, almeno nei suoi aspetti più immediatamente visibili e identificabili: linguaggio, immagini, argomenti. Se poi ci si addentra nei meandri di una lettura meno superficiale, di quella che poteva essere effettuata dagli organi preposti al controllo, ci si accorge che il vecchio s’intreccia con il nuovo, che la modernità e qualche voce dissonante s’insinuano in tante pagine, soprattutto in quelle che molto probabilmente più interessavano il pubblico e meno le autorità, inclini a sfogliare quanto passava nei loro uffici con occhio attento all’aspetto propriamente giornalistico e meno a quello più leggero delle rubriche di consigli pratici o a quello letterario. Non che il regime non si fosse impegnato nel campo della letteratura, anzi. Solo che questo avvenne dopo il 1930 e gli interventi furono episodici e privi del sostegno di una vera e propria politica culturale, perciò non era difficile trovare in circolazione libri sovversivi o ritenuti pericolosi. Come ricorda Maurizio Cesari, nelle biblioteche (controllate da commissioni dipendenti dal Ministero dell’Educazione Nazionale) era addirittura possibile leggere libri antifascisti (La censura nel periodo fascista, Napoli, Liguori, 1978). A maggior ragione non era difficile per una rivista pubblicare testi che, anche se non erano il frutto del lavoro di qualche oppositore, erano però malvisti, avversati per una serie di motivi. In particolare per quanto riguarda la “Domenica del Corriere” era il poliziesco d’importazione a creare qualche difficoltà. Li abbiamo visti quei romanzi, quegli autori, quelle storie così diverse sia da quelle che gli scrittori italiani offrivano e che trovavano spazio in altre riviste, sia da quelle che il regime aveva tentato di promuovere.

Il libro di massa, o meglio d’evasione per masse larghe ed indistinte di lettori, poteva essere un utile strumento di propaganda, ma in Italia il consumo di libri e quotidiani era ancora limitato alla borghesia (piccola, media, alta) ed era territorialmente concentrato nei centri urbani. Ben presto le gerarchie si accorsero che sarebbe stato più fruttuoso puntare l’attenzione su strumenti più popolari come radio e cinema.

Tuttavia il giallo, considerato immorale per contenuto e provenienza, fu oggetto di particolare attenzione. Il giro di vite si concretizzò dal 1935, quando, bloccare le aberrazioni di cui si faceva veicolo, divenne un imperativo. Perciò, oltre all’obbligo di pubblicare autori italiani, per una quota di almeno il 20% dei titoli, gli editori furono “invitati” a rispettare alcune regole: il criminale non poteva essere di nazionalità italiana ed in ogni caso doveva essere assicurato alla giustizia, non era inoltre lecito pubblicare storie in cui vi fossero dei suicidi. Alberto Tedeschi, traduttore e direttore della collana “I libri gialli “ di Mondadori, ha lasciato un’interessante testimonianza di quanto accadde in quegli anni, da cui emerge chiaramente l’amarezza con cui si accingeva, di volta in volta, a mettere mano ai testi. (Alberto tedeschi, Ma il vero colpevole sono io, in “La Repubblica”, 2 aprile 1979).

Agli scrittori italiani si chiedeva a gran voce di contrastare la produzione straniera e di farlo ispirandosi alla realtà più genuina del nostro paese. Ma dove era possibile trovare la vita “vera”, quella che avrebbe potuto fornire il materiale per la costruzione di un intreccio verosimile? Non nei giornali, dove la cronaca nera era stata bandita da tempo, non nelle piazze dove prevaleva un’immagine di normalità che escludeva a priori imprese criminali. Il dibattito finì per chiamare in causa anche i nostri giallisti, tra gli altri Augusto De Angelis, che, nella prefazione al suo romanzo Le sette picche doppiate, risponde a tutte le provocazioni invitando innanzi tutto a considerare questa letteratura non nel suo complesso, ma in base al valore dei diversi testi e a questo proposito cita autori come G. Simenon e G. K. Chesterton. I lettori, si legge, sono attratti da quel sottile gioco, che è la soluzione di un mistero. “Che questo mistero si racchiuda in un cadavere non è – nel caso specifico – né terrificante, né immorale, né morale: è naturale. Poiché, quale più grande mistero si potrebbe concepire di quello della morte?” (Augusto De Angelis, Le sette picche doppiate, Prefazione, Milano, Sonzogno, 1940, p. 14). Di per sé nessun genere letterario influisce in senso malsano sui lettori. Scrivere polizieschi è per De Angelis una risposta a coloro che vorrebbero “sterminarli”. Il suo desiderio è di creare un romanzo poliziesco “italiano”. “Impresa ardua”.

“Da noi – scrive - manca tutto, nella vita reale per poter congegnare un romanzo poliziesco del tipo americano o inglese.

Mancano i detectives, mancano i policemen, mancano i gangsters, mancano persino gli ereditieri fragili e i vecchi potenti di denaro e di intrighi disposti a farsi uccidere.

Non mancano, sebbene in scala ridotta, pur troppo i delitti. Non mancano le tragedie.

Perché non considerare tali ineluttabili fenomeni della vita sociale come materia di vita umana, come materia di indagine artistica?” (Augusto De Angelis, op. cit. pp. 18-19).

 

La “Domenica del Corriere”, che pure ospitò qualche autore di casa nostra, era tutta proiettata verso la produzione d’oltralpe, forse perché ritenuta più emozionante e accattivante per un pubblico già abituato a quella letteratura.

Del resto non sempre i prodotti nostrani erano all’altezza dei concorrenti stranieri. E’ il caso di uno scrittore del calibro di A. Varaldo che, in Casco d’oro, propose ai lettori un’avventura tutta centrata su un omicidio, in cui il protagonista si trova casualmente coinvolto e di cui è accusato. Da parte sua non vi è una vera e propria indagine, è piuttosto travolto dagli avvenimenti. Sono altri gli aspetti interessanti: una trama complessa con un numero notevole di personaggi a tutto tondo, uno stile gradevole, descrizioni vivaci, come quella che segue e che vuole darci conto di uno dei momenti più importanti del riposo di uno degli amici del protagonista: “Una radio attenuata lo cullava, dalla stuoia tutta abbassata faceva l’occhietto la bella giornata di giugno, ed il dottor Bagella quando si trovava accanto al bicchierotto di vernaccia non temeva il demone meridiano, un mito per lui, come si cantava un tempo nel ‘Boccaccio’” (Alessandro Varaldo, Casco d’oro, in “La Domenica del Corriere”, 6 gennaio 1935, n. 1).

Importare era quindi una necessità per chiunque si muovesse nell’ambito del giallo. Ritorniamo così al problema delle traduzioni. Se all’inizio del secolo era necessario conoscere almeno una lingua straniera, e di solito era il francese, in quanto la maggior parte dei testi raramente si trovavano in italiano, negli anni del fascismo questo non fu più necessario. Crebbe il numero di coloro che si dedicavano alle traduzioni, mentre l’interesse si spostava verso il mondo anglo-sassone. Esemplari le scelte operate da Mondadori, la cui politica editoriale fu improntata ad un sano realismo che coniugava esigenze economiche e necessità di non scontentare le gerarchie al potere, anche perché lo stato offriva ottime opportunità di smercio, soprattutto di testi scolastici. Egli comprese molto bene che i tempi erano maturi per una svolta e che l’imperativo era tradurre, tradurre bene e soprattutto proporre a prezzi accettabili prodotti di sicuro successo. Una politica condivisa dalla “Domenica del Corriere”, che offriva a buon mercato un ricco palinsesto: novelle, romanzi, informazione (nel senso più ampio possibile). Le edicole divennero, più delle librerie, il luogo in cui si creava, o meglio si formava il gusto del pubblico, e dove finirono tante pubblicazioni.

Il lavoro effettuato da Piero Albonetti sui pareri di lettura della Mondadori costituisce un’importante testimonianza di quelle che dovevano essere le preoccupazioni di allora: un libro veniva stampato dopo un’accurata valutazione, che teneva conto non solo di una censura, che con gli anni si fece sempre più attenta, ma anche di altre esigenze. A proposito della Quarta peste di Edgar Wallace, Giorgio Monicelli propone qualche adattamento del testo: cambiare la nazionalità dei membri di una banda che mette alle corde Londra, i quali sono tutti italiani e sono bollati, secondo quanto si legge, in base a criteri tipici dei paesi dell'Europa settentrionale (“sono tutti accoltellatori, superstiziosi, miserabili, presuntuosi, passionali, ecc.); abolire completamente il prologo, in quanto rivela ciò che il lettore potrebbe apprendere alla fine con una certa sorpresa ed è “di ambiente italiano falso e stonato” (Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30, a cura di Piero Albonetti, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto mondatori, 1994, pp. 123-124). Sorte peggiore toccò a G. Simenon. Pubblicare questo autore fu un’intuizione geniale e tuttavia non trovò spazio nella collana “I Gialli”. Le trame dei suoi romanzi sembrano presentare vicende imbarazzanti e scabrose.

Nel 1934 Enrico Piceni sconsigliò la pubblicazione dei Suicidi perché non era un gran romanzo ed era particolarmente deprimente, oltre ad avere un finale ed un titolo che ne avrebbe reso problematica la pubblicazione (Piero Albonetti, op. cit., p. 133). Stessa sorte ebbe il romanzo Les clients d’Avrenos, sia per la presenza di un suicidio, sia perché vi sono scene spinte, erotiche, donne che fanno il bagno nei fiumi e così via (Piero Albonetti, op. cit., p. 134).

Sono solo degli esempi che ci aiutano a comprendere quanto fosse difficile il rapporto con le autorità, ma che nello stesso tempo ci testimoniano la volontà di operare in modo da adeguare la narrazione ad altri bisogni.

Purtroppo poco o niente emerge sull’identità dei traduttori che misero mano ai romanzi pubblicati dalla “Domenica del Corriere”, e questo è un limite forte per la comprensione degli interventi operati. Quel che è certo è che le traduzioni erano effettuate in modo poco rispettoso, sia per obbedire alle direttive, sia perché il giallo privo di dignità letteraria, si trovò a vagare nel limbo di una non meglio definita “sottoletteratura” o “paraletteratura”, come direbbe qualcuno oggi. Che l’iniziativa partisse dai traduttori o dagli editori non ha molta importanza, ciò che importa è che l’idea che sottendeva questa operazione era probabilmente quella di adeguare i testi al gusto di allora, eliminando e modificando tutto ciò che poteva rendere meno fruibile il prodotto. I traduttori della “Domenica del Corriere” si sentirono abbastanza liberi e spesso non si limitarono ad apportare modifiche che nella sostanza rispettavano la volontà degli autori, ma intervennero in modo radicale. E’ vero che tradurre è in ogni caso un’operazione che mette in gioco una sensibilità diversa da quella dell’autore, è però anche vero che i romanzi che trovarono spazio in questa rivista erano più che mai considerati come una merce, perciò le esigenze di tiratura potevano spingere la redazione a chiedere determinati interventi per renderli più appetibili. E’ difficile stabilire a posteriori che cosa abbia inciso di più: lo zelo dei traduttori o le esigenze editoriali.

“Nessuno escluso” potrebbe essere il motto di questi operai della penna. I confronti effettuati tra le versioni presenti nella “Domenica del Corriere” e gli originali dimostrano chiaramente che la firma non contava nulla. Non dobbiamo scordare che anche le “Novelle Celebri” furono qui e là ritoccate, sia pure in maniera abbastanza rispettosa del testo. Questo destino toccò, ad esempio, a F. Dostoevskij (alla novella La centenaria venne eliminato il finale), ad A. Čechov, ad E. Allan Poe. A. Conan Doyle, considerato ormai un maestro nel suo genere, fu ripulito quando si lanciava in riferimenti poco simpatici nei confronti degli italiani, dipingendoli come crudeli e caratterizzati da una mentalità medievale. In questo caso non si tratta di censura, il regime non aveva ancora emanato regole restrittive. Perciò gli interventi furono “spontanei”, e trovano forse una giustificazione nei sentimenti d’orgoglio nazionale.

Se la situazione era questa, non è difficile immaginare quel che poteva accadere ad autori meno affermati. Nel Patto dei sei, pubblicato nel 1931, colpisce in primo luogo la trasformazione di un gran numero di discorsi diretti in indiretti e i tagli effettuati. All’inizio del romanzo due dei sei amici, che avevano stretto un originale patto, quello di andare per il mondo a cercare fortuna e di ritrovarsi a Parigi per tirare le somme ed eventualmente dividere con quelli che non ci sono riusciti, e sui quali sembra pendere una strana maledizione (il romanzo è costellato di strane morti), decidono di andare al ristorante. Ma, mentre nella “Domenica del Corriere” il tutto è risolto con poche parole: “Quando uscirono di casa la temperatura era mite e la notte luminosa.

Varcata la soglia del ‘Boreal’…” (S. A. Steeman, Il patto dei sei, in “La Domenica del Corriere”, 16 agosto 1931, n. 33), nella versione francese troviamo un lungo passo in cui vengono alla luce particolari interessanti sul loro stato d’animo.

"Cinq minutes plus tard, ils sortaient de la maison. La température était douce et la nuit tout éclaboussée par les pancartes lumineuses.

Les deux hommes respirèrent longuement et s’en furent côte à côte, d’un bon pas. Leur démarche était souple, élastique. Ils ne parlaient pas. C’eût été l’amoindrir que se communiquer le plaisir qu’ils éprouvaient à se retrouver dans une bonne vieille ville de la bonne vieille Europe, de porter des pantalons au pli impeccable, d’être rasé de frais, de n’avoir d’autre perspective immédiate qu’une soirée à passer dans un restaurant illuminé en écoutant, sans trop l’entendre, un air syncopé de jazz.

Sitôt la du Boréal franchie…" (Stanislas André Steeman, Six hommes morts, Paris, Librairie des Champs Elysées, 1931, p. 12).

Non è un caso isolato. Nei romanzi che è stato possibile confrontare (di molti degli originali non vi è traccia neppure nelle più importanti biblioteche europee e statunitensi) la presenza dei traduttori è pesante, imponente. Era un malinteso gusto “letterario”, che con ogni probabilità li avvicinava ai lettori, a sommarsi alla scarsa considerazione di cui godeva questa letteratura. Tutto era lecito perché non vi erano preoccupazioni particolari per una merce che sembrava non aspirasse ad essere altro, ed il cui fine era il guadagno, così come lo era quello della “Domenica del Corriere”e di tutti coloro che vi lavoravano intorno.

In S.O.S. di R. Pujol (in “La Domenica del Corriere”, dal 1° novembre al 27 dicembre 1931), dove gli interventi sono ancora più pesanti, vengono a mancare parti fondamentali che finiscono per mutilare un romanzo pensato non solo in funzione dell’emozione provocata dall’aspetto puramente avventuroso. La storia prende avvio da un fatto imprevisto, una richiesta d’aiuto, che giunge attraverso la radio, intercettata da due coppie di sposi in viaggio nei Pirenei che si trasformano in poliziotti dilettanti. Le loro ricerche finiscono per portarli a Lacave dove è appena stata assassinata una donna. A questa inchiesta partecipano due simpatici poliziotti, Thevenin e Chapotard, e un inviato del Ministero della guerra, Rennefert, giunto per proteggere un inventore che ha realizzato un potente ordigno bellico. Ancora una volta, dal punto di vista narrativo, i piani s’intrecciano, le figure si moltiplicano, gli ingredienti si mescolano, le vicende si susseguono incalzanti così come i travestimenti. Individuare quanto manca o è stato rimaneggiato è facile, proprio perché particolarmente evidente. Sono soprattutto le descrizioni a scomparire, e con esse alcuni passi in cui sono riportati degli indizi, che consentirebbero al lettore di seguire le indagini con maggiore cognizione di causa, oltre a tante informazioni utili per conoscere meglio personaggi secondari e non. Nella versione proposta dalla “Domenica del Corriere” mancano, ad esempio, le impressioni che suscita Montauban, dove Rennefert si sposta con il suo assistente per continuare le indagini: “Paul Rennefert, après quarante-huit heures de vaines recherches, connaissait a fond Montauban. Cette ville paraissait sans mystère. Elles avaient la calme un peu sournois des petites cités, mais sa population était tranquille, heureuse, et rien n’evoquait le moindre drame’’ (René Pujol, S.O.S., Paris, Librairie des Champs Elysées, 1928, p. 209). Scompaiono espressioni come «mon vieux» o affermazioni come “Il eût honte de son propre découragement, dont il n’avait jusqu’ici donné d’exemple a son subordonné” (Renè Pujol, op. cit., p. 210). Non sfugge che tutto questo trasforma la natura ed il carattere dei personaggi e stravolge stilisticamente il testo, che nell’impianto resta certamente uguale, ma che subisce una pesante rivisitazione. Non sorprende dunque che, nella nostra rivista, questo romanzo fosse semplicemente presentato come caratterizzato da “diaboliche astuzie di spie, fughe e sostituzioni di persone, delitti misteriosi, in pagine serrate, ricche di sorprese” (in “La Domenica del Corriere”, 25 ottobre 1931, n.33). In effetti, questa è quanto viene proposto con gli aggiustamenti necessari.

Come abbiamo visto, mettere mano ai testi era una consuetudine ben radicata, che precede le imposizioni del regime. Queste dovettero sembrare opprimenti a uomini come A. Tedeschi, ma forse dalla generalità non furono vissute in modo così drammatico. Se ritorniamo per un momento agli anni Venti, è possibile trovare conferme importanti. Maurice Leblanc, l’abbiamo visto, fu pubblicato a più riprese dalla “Domenica del Corriere”. L’eroe-protagonista dei suoi lavori, A. Lupin, è talvolta chiamato a risolvere dei misteri, proprio come un vero detective, anche in collaborazione con le forze dell’ordine. E’ quello che accade negli Otto rintocchi della pendola (Maurizio Leblanc, Gli otto rintocchi della pendola, in “La Domenica del Corriere”, cit.): otto misteri da risolvere, otto avventure da affrontare per amore di una donna. Qui il protagonista riveste consapevolmente il ruolo d’investigatore.

Nel racconto intitolato La pellicola rivelatrice Sergio Renine (al secolo A. Lupin) e Ortensia (la donna che intende conquistare) sono al cinematografo per vedere un film interpretato da Rosa Andrée, figlia della maestra di piano di Ortensia. La prima discrepanza che incontriamo riguarda proprio l’attrice che nella versione originale viene presentata come sorella di Ortensia, in comune hanno il padre che si è sposato due volte. Il mistero da svelare appare chiaro fin dall’inizio: è Renine a proporlo alla compagna e quindi anche al lettore.

Egli coglie negli occhi di una delle comparse i segni di un grande amore per la protagonista, un trasporto tale da fargli sostenere che Rosa Andrée sta sicuramente correndo in quel momento un grave pericolo. Sono intuizioni che solo Renine/Lupin potrebbe avere, l’unico capace di far emergere quanto di irrisolto vi è nella realtà di una vita apparentemente tranquilla. Una pellicola, due episodi girati in due momenti diversi in cui compare sempre lo stesso attore follemente innamorato e dall’aspetto rude, che sembra rivelare una volontà omicida nei confronti di una donna che non potrà mai avere: tanto basta al nostro protagonista per mettersi al lavoro. Cominciano a questo punto le pesanti interferenze del traduttore, alcune giustificate da scelte operate in precedenza, altre molto meno. Così è costretto ad eliminare quanto si riferisce a Rosa Andrée, nelle vesti di sorella, ma poi si lascia prendere dalla necessità di sfrondare il testo ed il risultato è che buona parte dell’originale scompare tra una sintesi ed un taglio. Man mano che si prosegue con la lettura ci si accorge che le differenze aumentano e non sono di poco conto.

Quando cominciano le indagini, per stabilire se una semplice sensazione può diventare qualcosa di più, strane coincidenze emergono: tutto lascia intendere che Dalbrèque (Dalbrégue) abbia rapito Rosa Andrèe. La ricostruzione di quanto è accaduto nei giorni che precedono la strana scomparsa dei due, è nella “Domenica del Corriere” meno ampia e dettagliata e, per alcuni particolari, non coincide. Ad Ortensia è attribuito un ruolo meno attivo, Dalbrèque, cui viene modificato il nome in Dalbrègue, diviene scenografo, mentre si trascura di descriverne il carattere. L’autista di Renine prende un altro nome, Adolfo invece di Clément, forse perché Clemente non sembrava adatto. Tutto acquista una dimensione diversa e talvolta alcune informazioni/deduzioni di Renine diventano gratuite, perché mancanti del necessario supporto delle indagini: quando si reca a casa di Rosa Andrée (particolare tra l’altro non presente nell’originale) che cosa trova? Che cosa gli consente di sostenere che ha viaggiato durante l’estate e che si è recata nel dipartimento della Senna Inferiore? Il lettore non lo sa. Inoltre un lungo passo è omesso: quello in cui il protagonista decide di rivolgersi alla polizia, sia per avere informazioni sia per ottenerne l’aiuto. Abbiamo un delitto (un rapimento), un delinquente (Dalbrèque, sospettato dalle forze dell’ordine per altri reati), un movente (la passione), una vittima (Rosa Andrée), un detective (Renine/Lupin), e dovremmo avere anche un ispettore di polizia doppiamente coinvolto: come poliziotto già in parte al corrente dei fatti, e come persona che ammira l’intuito di Renine, con il quale accetta di collaborare. Non è un intervento da poco: modifica, infatti, l’immagine di Lupin, o forse ne esalta un’altra, ben radicata nell’immaginario collettivo. La collaborazione ed il rapporto amichevole esistente tra i due, forniscono al lettore una chiave di lettura diversa di un personaggio che normalmente fa il “ladro” ed è per sua natura antagonista rispetto alle forze dell’ordine. Nella “Domenica del Corriere”, non solo Renine non cerca la collaborazione della polizia, ma vuole ad ogni costo batterla sul tempo nella risoluzione del caso.

L’intreccio si snoda in un’atmosfera in cui tutto sembra condurre ad un epilogo fatale. Tuttavia, man mano che la narrazione prosegue, alcune stranezze nel comportamento dei personaggi fanno presagire un colpo di scena, mentre il mistero assume sfumature che contrastano con le premesse. Alla fine si scopre che tra Rosa Andrée ed il rapitore è nato un amore travolgente. Constatata la situazione, Renine decide di farli fuggire insieme. Scelta che non stupisce e perfettamente in linea con la mentalità di un personaggio sempre in bilico tra rispetto delle leggi e loro violazione, sempre implicato in storie in cui il fascino dell’amore e della passione rappresentano uno dei motivi ispiratori del suo agire.

A stupire è piuttosto la versione originale (Maurice Leblanc, Arsène Lupin, Paris, Robert Laffont, 1986, vol. II), in cui questa parte del racconto è completamente differente. Si prova improvvisamente una strana sensazione, sembra di perdere il senso dell’orientamento: le indagini non sono uguali, i protagonisti si muovono in modo diverso, sono pochi i particolari a combaciare. Un’interferenza così pesante finisce per minare alle radici l’impianto narrativo voluto dall’autore.

Quanto emerso getta nuova luce sui romanzi pubblicati dalla “Domenica del Corriere”, ma, nello stesso tempo, pone importanti interrogativi sul contenuto di molti libri stranieri in circolazione. Il rispetto dell’opera nella sua globalità ed unicità, non era evidentemente la preoccupazione prevalente di tutta quella schiera di traduttori che erano nati contemporaneamente all’aumento del consumo di letteratura straniera. Il “poliziesco” pagò un prezzo alto: fu ripulito, sistemato, in poche parole manipolato a piacere. Questo costume ampiamente consolidato non ebbe – come abbiano visto – un peso relativo e dipese da diversi fattori. Certo il distacco con cui per molto tempo tanti scrittori italiani avevano guardato al “giallo”, non ne favorì la conoscenza e lo studio, perciò spesso furono gli stereotipi a prevalere anche nelle traduzioni. 

(in PROBLEMI, gennaio-agosto 2001, nn. 119/120)