Intrighi, enigmi, detectives, assassini, ladri furono gli elementi che caratterizzarono gran parte dei romanzi che entrarono nelle case dei lettori della “Domenica del Corriere”. Fin dagli esordi largo spazio fu riservato a racconti o romanzi polizieschi, una letteratura del tutto particolare, poco conosciuta e poco amata dal pubblico degli addetti ai lavori, ma che all’estero aveva già ottenuto ampio successo. Pioniera da tanti punti di vista, “La Domenica del Corriere” inaugurava, con la pubblicazione di Sherlock Holmes, un cammino, che poi sarebbe stato ripreso e ampliato da altre riviste e case editrici.

La presenza di Arthur Conan Doyle sul mercato italiano fu, almeno fino ai primi anni del ‘900, abbastanza sporadica, non solo perché l’editoria italiana si muoveva in modo ancora incerto nell’ambito di quella letteratura, ma anche perché non vi era la consapevolezza di importare un genere nuovo. Come ha rilevato Raffaella Raffaelli, in uno studio dedicato alla diffusione del poliziesco prima del 1929 (Raffaella Raffaelli, Il genere poliziesco in Italia prima del 1929. Le collane a carattere poliziesco, in “Problemi”, settembre-dicembre 1982, n. 65), questo era un autore di grande successo all’estero, e come tale trovò spazio nei cataloghi delle case editrici italiane. Lo stesso discorso vale per la “Domenica del Corriere”, che proponeva, sotto l’etichetta “romanzi di avventura”, libri molto diversi tra loro: tra questi un gran numero di gialli. Siamo ancora lontani dalle collane Mondadori, dedicate a questo genere, che proposero una serie di testi abbastanza omogenea, tenuta insieme dal presupposto di offrire romanzi, più o meno a buon mercato, in grado di stimolare nel lettore un interesse tale da non consentirgli di abbandonare la lettura intrapresa, che era anche una sfida intellettuale: basti pensare alla collana economica, dove il piacere continuava con i giochi enigmistici.

Un primo passo sulla via della diffusione come genere, con caratteristiche proprie, venne effettuato dalla Sonzogno con due collane: “I romanzi polizieschi” e “I racconti misteriosi”, rispettivamente del 1914 e del 1919. Contemporaneamente e timidamente si apriva in quegli anni un dibattito che sarebbe diventato successivamente intenso e coinvolgente. Con la fine della prima guerra mondiale intellettuali, giornalisti, scrittori furono costretti a misurarsi con i cambiamenti avvenuti nella società e nel mondo delle lettere: tra questi l’esistenza di un nuovo pubblico con gusti propri, la presenza sul mercato di opere nuove e di riviste che, a diversi livelli, proponevano una letteratura, tutta tesa verso il grande pubblico, meno attento agli aspetti tecnici, ma disposto a farsi coinvolgere in un intreccio avventuroso, avvincente, piacevole. Così nelle edicole era possibile trovare gli uni accanto agli altri periodici il cui livello era sicuramente diverso, ma che avevano in comune l’aspirazione a ritagliarsi una fetta di mercato: “L’Illustrazione Italiana”, ad esempio, ebbe l’ambizione di entrare nelle case della buona borghesia, perciò il giallo fu escluso. Più modestamente, ma non tanto, “La Lettura”, oltre ad autori come Marino Moretti o Corrado Govoni, non disdegnò di ospitare il popolare investigatore inglese Sherlock Holmes. Esisteva dunque una domanda, anche se non ben strutturata, che stimolava il mercato e che lo spinse a guardare oltre i limiti della produzione nazionale e a saggiare nuove strade.

Il lancio di Arthur Conan Doyle da parte della “Domenica del Corriere” è inquadrabile in una chiara volontà di offrire una pagina letteraria facilmente fruibile, ma nello stesso tempo originale. I primi racconti (i cui diritti furono acquistati direttamente dall’autore) furono pubblicati nel 1899 e furono presentati al pubblico in modo da accompagnarlo nella scoperta di un personaggio del tutto nuovo rispetto a quelli cui era abituato. “Il poliziotto dilettante” fece così la sua comparsa in un articolo in cui era descritto come un super-man tutto logica e cervello, un uomo capace di ricostruire la storia di un delitto e di acciuffare il colpevole, partendo da un lieve indizio e applicando una logica inflessibile (Sherlock Holmes “il poliziotto dilettante”, in “La Domenica del Corriere”, 30 aprile 1899, n. 17). Una settimana dopo la serie ebbe inizio con La lega dei capelli Rossi (Arthur Conan Doyle, La lega dei capelli rossi, in “La Domenica del Corriere”, 7 maggio 1899, n. 18) e, fino al 1927, questa fu una presenza abbastanza costante.

La maggior parte dei racconti fu pubblicata nei primi tre anni, poi le apparizioni furono meno assidue, ma non per questo meno significative: il pubblico dimostrava, infatti, di gradire ancora vicende che, scritte in un’epoca in cui le certezze dello scientismo avevano consentito la nascita di un personaggio fatalmente tutto immerso in questo tipo di cultura, erano caratterizzate da un’atmosfera e da una sensibilità ormai superate anche in Italia. Ma i lettori della “Domenica del Corriere”, nonostante fossero cresciuti numericamente e culturalmente, non erano degli specialisti e quindi avevano bisogno di tempo per abituarsi alle novità. Sherlock Holmes, inoltre, si era guadagnato, e a buon diritto, un posto nello scaffale dei classici. Ecco perché la sua presenza ebbe sempre rilievo eccezionale, al punto da occupare talvolta la prima pagina, e continuò ad essere accompagnata da interventi critici, volti a migliorare le conoscenze su alcuni aspetti dell’autore e del suo proverbiale investigatore. Nel 1921 venne chiarita da E. Mondini l’origine di questo personaggio: il modello cui lo scrittore inglese si era ispirato non poteva che essere una persona a lui molto vicina, il suo professore, che faceva il chirurgo e che era dotato “di una straordinaria facoltà di osservazione e di un sorprendente potere di intuizione e di deduzione” (E. Mondini, In attesa di Sherlock Holmes. La realtà di un personaggio fantastico, in “La Domenica del Corriere”, 30 ottobre-6 novembre 1921, n. 44). Era inoltre un appassionato studioso di criminalità. Nel fedele compagno, Watson, Arthur Conan Doyle aveva rappresentato se stesso.

Ancora più interessante la riflessione sul rapporto con il progresso scientifico. Quasi a mettere in guardia il lettore, lo si sollecitava a considerare che la scienza aveva oramai messo a disposizione della giustizia numerosi strumenti, per cui a volte i casi risolti dal nostro straordinario detective potevano risultare meno sorprendenti della realtà (Adolfo Padovan, A proposito di Sherlock Holmes. Come si scoprono i delinquenti, in “La Domenica del Corriere”, 13-20 novembre 1921, n. 46). Era un pretesto per parlare dei progressi nel campo della criminologia, intanto però un filtro veniva introdotto tra opera e pubblico: segno dell’importanza che il genere aveva assunto, ma anche del tempo che era trascorso dalle prime pubblicazioni.

Negli anni Venti e Trenta le proposte della “Domenica del Corriere” si moltiplicarono. Troviamo gli uni accanto agli altri scrittori come Sax Rhomer, Maurice Leblanc, E. Phillips Oppenheim, J. S. Fletcher, S. A. Steeman, Ludwig Von Wohl, Alessandro Varaldo, e molti altri.

Gli autori, in prevalenza stranieri, erano numerosi e più che mai inseriti in un circuito di produzione e fruizione che li spingeva a scrivere, con notevole impegno, un volume dopo l’altro. L’offerta si era ampliata e adattata ad un pubblico di non specialisti, le cui richieste e modalità di lettura non erano più quelle del passato. L’urbanizzazione, che aveva interessato anche il nostro paese, l’aumento della criminalità e della microcriminalità, diremmo noi oggi, spingevano indubbiamente verso un tipo di letteratura che dava in fondo delle certezze: il colpevole, bene o male, assicurato o no alla giustizia, era sempre individuato e anche quando il protagonista era un criminale come Arsèn Lupin, le motivazioni che spingevano al delitto erano tranquillizzanti. Così, passo dopo passo, lentamente, senza brusche accelerazioni, i lettori della “Domenica del Corriere” percorsero il cammino della letteratura poliziesca nelle sue diverse forme, imparando a riconoscerne le caratteristiche. Certo restavano delle zone d’ombra: il poliziesco continuava, infatti, a non godere di grande considerazione, come emerge chiaramente anche dai romanzi pubblicati. Nelle Straordinarie vacanze di Oscar Rely (Antal Medek, Le straordinarie vacanze di Oscar Rely, in La Domenica del Corriere”, dal 4 aprile all’8 agosto 1937) la vicenda prende avvio proprio dalla lettura di un giallo. Si tratta di un romanzo criminale (il termine era ancora usato come sinonimo di poliziesco), ma non di uno qualsiasi, uno ancor più sciocco della media, perciò la fantasia finisce per sopperire alle mancanze del testo. Spesso è considerato come un oggetto di grande interesse, ma di scarsa qualità, roba da mettere nella valigetta, da portare in viaggio, come fa Adriano, la vittima in Dalla sera alla Mattina, consapevole che il sonno lo avrebbe colto e che avrebbe lasciato il libro inevitabilmente nel momento più emozionante (Kurt Krispein, Dalla sera alla mattina, in “La Domenica del Corriere”, dal 10 novembre al 22 dicembre 1940).

Se allarghiamo lo sguardo e usciamo da questi racconti, la situazione non cambia. Nella maggior parte dei casi erano visti come romanzi di poco conto, una lettura leggera, facilmente fruibile in qualsiasi situazione, pura e semplice rielaborazione di uno schema. Questo punto ci viene chiarito con lucidità da Emilio Radius che, nel 1939, scrive sul “Corriere della Sera”: ”Ogni romanzo giallo, naturalmente reca sul frontespizio il nome dell’autore, anche se la paternità di opere simili è spesso paragonabile a quella dei compositori di enigmi: si tratta invero di rielaborazioni più o meno abili per le quali viene adoperato quasi sempre lo stesso materiale” (Emilio Radius, Autarchia ed etica del romanzo giallo, in “Il Corriere della Sera”, 29 aprile 1939). Di conseguenza anche gli autori, per molto tempo, furono considerati come appartenenti ad un mondo marginale, quello della letteratura “da due soldi”. Questo modo di sentire, largamente diffuso, non spinse certo a tenere conto dei valori letterari -anche se alcuni intellettuali, come Bontempelli, cominciavano a riconoscere dignità a questo genere -, e spiega perché spesso troviamo le une accanto alle altre opere tanto diverse per livello e caratteristiche: erano le pagine di un unico grande libro. Il dibattito finì per coinvolgere anche le gerarchie al potere. Il fascismo non nutrì una grande simpatia per il poliziesco, anzi ad un certo punto fece di tutto per ostacolarne la circolazione e ciò per diversi motivi: qualche volta i colpevoli erano personaggi con i quali il lettore poteva simpatizzare e a cui era concessa la fuga qualora avessero agito a fin di bene, non di rado la polizia veniva presentata come impotente di fronte alla criminalità e si ricorreva ad un detective privato; il giallo metteva in dubbio la moralità delle classi superiori, protagoniste certo di delitti in guanti di velluto, ma pur sempre di delitti; era in un certo senso un prolungamento della cronaca nera che, eliminata dai giornali, rientrava nelle case sotto mentite spoglie, e, in ultima analisi, era portatore del “malcostume straniero”. La lettura di alcuni interventi apparsi sul “Bargello”, il settimanale della federazione provinciale fascista fiorentina (1929-1943), è più che mai illuminante per cogliere il fastidio con cui si guardava a questa letteratura. Si creò quasi un’anomalia: pur detestando questo genere, il regime cercò di stimolare una produzione autarchica –imponendo agli editori la pubblicazione di una quota fissa di romanzi prodotti nel nostro paese -, per evitare che gli italiani fossero costretti a viaggiare, tra un delitto e un altro, in grandi città ed in piccoli villaggi, fuori dei nostri confini. Il risultato fu un’offerta tardiva e numericamente poco significativa. Perciò chi voleva divertirsi con delle indagini, doveva immedesimarsi in personaggi che venivano da fuori, come quelli proposti dalla “Domenica del Corriere”, dove una folla di detectives allietò un pubblico oramai più che disponibile a lasciarsi travolgere dai grandi e piccoli drammi gravitanti attorno ad un delitto.

Generalmente sono i grandi agglomerati urbani (Londra, Parigi, Amsterdam, ecc.) ad ospitare i nostri personaggi, lo scenario ideale per dei racconti che fanno perno sul crimine, sulla violazione della tranquilla vita borghese. Non sono i bassifondi, quelli che possiamo ritrovare nei Misteri di Parigi, ma i quartieri della piccola e media borghesia ad avere un ruolo centrale. Sono quartieri nei quali il lettore si orienta con facilità e che non hanno, dunque, bisogno di essere presentati con dovizia di particolari. Man mano che ci si allontana dalle grandi città, la descrizione dell’ambiente diventa più minuziosa e la lettura acquista un fascino del tutto nuovo. Nel romanzo La fanciulla che salvò una città, Martigues, che si trova in Provenza, vicino Marsiglia, viene dipinta proprio come avrebbe potuto fare un pittore. Poche righe e questa cittadina ci appare nei suoi tratti salienti: composta da tre centri Jaucquièries, Isle e Ferriere, e caratterizzata da un gran numero di canali, tanto da meritarsi l’appellativo di “Venezia provenzale”, fino alla grande guerra mantiene la fisionomia graziosa e sonnolenta di villaggio di pescatori. Poi lo sguardo si posa sui giganteschi depositi cilindrici delle raffinerie che si sono sovrapposti. Un gran numero di persone di ogni paese, chiamate alla realizzazione di questi impianti, vivono in strani accampamenti, ma tutto questo non impedisce “agli abitanti di Martigues di serbarsi gelosi custodi del fascino proprio alla loro triplice cittadina, ricca di sì caratteristiche grazie da richiamare pittori di ogni nazionalità, cui offre soggetti ed ispirazione in abbondanza” (J. Toussaint-Samat, La fanciulla che salvò una città, in “La Domenica del Corriere”, 31 luglio 1932, n.31). In qualche caso una semplice riflessione è sufficiente ad inquadrare l’atmosfera di un paese. L’ispettore Malaise, protagonista del romanzo Angelo o demonio?, ci fa comprendere quale sia l’aria che si respira nel villaggio, in cui casualmente si è fermato, ripensando alla sua lunga carriera, durante la quale “aveva incontrato il mistero ed il delitto sotto molteplici aspetti. Li aveva visti nascondersi nella notte e più raramente svolgersi al sole. Li aveva scovati nell’intimità di salotti profumati, agli sportelli di grandi banche, nell’ombra dei ponti nei giardini silenziosi e nei bugigattoli. La sua immaginazione non sarebbe però mai stata capace di assegnare loro una cornice simile a questo villaggio che si sarebbe detto addormentato per sempre” (S. A. Steeman, Angelo o demonio?, in “La Domenica del Corriere”, 2 ottobre 1932, n. 40).

I pericoli potevano perciò annidarsi ovunque e la pace poteva in qualsiasi momento essere turbata da eventi originati da forze che provenivano dall’interno, o da una delinquenza difficilmente controllabile perché frutto di culture extraeuropee. Forte fu l’interesse nei confronti del mondo orientale, un interesse che si concretizzò in situazioni o personaggi che rappresentavano il “male”, i cui contorni non sempre erano ben definibili a causa del sovrapporsi di pregiudizi, pratiche superstiziose o religiose che complicano abilmente le trame (strani misteri poco comprensibili dagli europei). Così Sax Rohmer mette in scena a Londra il mondo cinese e i contrasti che all’interno di questo si generano: ad esempio, tra società segrete (o Tong) che talvolta entrano in conflitto, “e, siccome la vita è valutata assai poco […] un certo numero di morti sopravvengono” (Sax Rohmer, Ombre gialle, in “La Domenica del Corriere”, 27 marzo 1927, n. 13).

Si guardava al di là della realtà più immediata per cercare i germi che potevano incrinare le sicurezze della società borghese, così come si prestava molta attenzione al mondo dell’occulto, dell’ignoto. Sedute spiritiche, strane profezie, poteri medianici eccezionali vengono a turbare la tranquillità di una famiglia, di un intero quartiere o di una cittadina. Alla fine è quasi sempre la razionalità ad avere la meglio, ma non sempre le cose prendono questa piega, anzi vi sono dei misteri che non trovano per nulla una spiegazione. In Vicolo Gerber n. 7 una profezia mette in agitazione gli abitanti di Dornburg. A mistero si somma mistero quando, durante una seduta medianica, la protagonista scrive su alcuni biglietti la data di morte dei partecipanti.

L’intrigo si complica ulteriormente: un omicidio viene commesso proprio il giorno in cui la profezia deve realizzarsi. Il dramma si consuma durante la prima rappresentazione di un’opera in cui è previsto l’uso di una pistola caricata a salve. Tutto ruota attorno al teatro di questa città, i personaggi vi lavorano, oppure hanno investito del denaro. La vittima è Molar, il regista, che per l’occasione interpreta anche il ruolo di protagonista. La sezione criminale della polizia è composta da un commissario e sei agenti, un numero esiguo e tuttavia giustificato dal fatto che è difficile che qui si verifichino fatti tanto gravi come un omicidio. Nonostante la scarsa dimestichezza con indagini così importanti, il commissario è “scaltro” e si comporta come se avesse “l’esperienza dei colleghi abituati a lavorare nelle metropoli”. Innanzi tutto si fa raccontare l’accaduto dal poliziotto in servizio, fa ricostruire la scena ed infine interroga i presenti. I testimoni sono quindi ascoltati dal giudice istruttore. Man mano che l’inchiesta procede aumenta il numero dei sospettati, anche perché molti hanno subito dei torti. Alla fine si scopre che Molar si è ucciso accidentalmente. Solo un uomo avrebbe potuto evitare tutto questo: il Barone, che preferisce non interferire con il destino. La rivelazione avviene alla fine, dopo la sua morte. Egli lascia un testamento in cui, oltre a raccontare la sua versione dei fatti, commenta l’accaduto prestando particolare attenzione alla profezia che apre il racconto e alle previsioni effettuate durante la seduta medianica, che si sono tutte realizzate. Nel ribadire che in fondo nella vita vi è una componente insondabile, si augura che la scienza un giorno possa trovare una spiegazione a certi fenomeni. Per il momento, nonostante la vanagloria del genere umano, una sola cosa è certa: “Noi non sappiamo nulla, nulla, nulla!” (Hans Possendorf, Vicolo Gerber n. 7, in “La Domenica del Corriere”, 7 maggio 1933, n.19).

La fiducia nella capacità della scienza di penetrare in tutti gli aspetti, aveva assunto indubbiamente sfumature molto diverse rispetto a quelle che ci si potrebbe aspettare in una società in continua evoluzione tecnologica, che stava consentendo di percorrere in lungo ed in largo il mondo, in un tempo sempre più breve, a persone, merci, informazioni, cultura. La fiducia nell'illimitato potere della tecnologia di risolvere i problemi da tempo era venuta meno e spesso era il mondo dell’occulto, del sensazionale ad attrarre l’interesse. Mentre, gradino su gradino, gli uomini erano impegnati a salire la scala del successo economico e professionale, nel loro intimo maturavano fragilità ed incertezze: la paura di perdere i frutti dei sacrifici di una vita, il timore per una realtà sempre più violenta, in cui presagi di guerra si sarebbero presto materializzati. Buona parte degli investigatori non poteva perciò avere le stesse caratteristiche dell’ottocentesco Sherlock Holmes, personaggio tanto amato e presente nella “Domenica del Corriere” per tutti gli anni Venti, eppure ormai così lontano dalla sensibilità di allora.

Al di là delle Alpi e dell’Oceano nuovi personaggi facevano capolino: il modello conandoyliano era entrato decisamente in crisi, anche se continuava ad essere consumato, al suo posto il giallo psicologico-d’atmosfera ed il giallo d’azione offrivano nuove suggestioni. Con G. Simenon e R. Chandler gli investigatori diventavano più umani; la vita vera, reale entrava nei loro libri. Nei romanzi di R. Chandler irrompeva la società americana, carica di violenza, stretta tra crisi economica, proibizionismo, sparatorie, inseguimenti. Con G. Simenon l’investigatore è tutto teso a comprendere il mondo in cui è costretto a lavorare, a capire con il cuore quello che gli sta intorno, nel tentativo di scoprire chi è il colpevole e quali sono le ragioni del suo agire. Più che cercare indizi materiali da ricostruire, cerca di scovare uno sguardo, un atteggiamento; il delitto non è più un semplice pretesto da esibire e “svelare”.

Nel giro di venti anni, quelli compresi tra le due guerre mondiali, nella “Domenica del Corriere” apparvero, decine e decine di romanzi a puntate a sfondo poliziesco, con un mistero da risolvere, con degli investigatori professionisti od occasionali, con dei colpevoli più o meno astuti; libri che partivano da un mistero e giungevano ad una conclusione, seguendo sentieri diversi, perché diversificate erano le possibilità offerte da questo genere; una folla di personaggi e storie che a volte avevano poco a che fare con i grandi modelli del passato, altre volte ne rivelavano la presenza nei metodi d’indagine, nelle caratteristiche dei personaggi, nella struttura, in un abile intreccio tra vecchio e nuovo. Sherlock Holmes, ad esempio, veniva spesso citato per definire un atteggiamento tutto proteso verso un’indagine basata sullo spirito di osservazione e rielaborazione degli indizi e, contemporaneamente, per prenderne le distanze. Nel romanzo Le straordinarie vacanze di Oscar Rely ci troviamo di fronte due personaggi, poliziotto e collaboratore, con caratteristiche ben distinte. Il primo è il protagonista ed è un ispettore dalle caratteristiche eccezionali: sagace, astuto, con un’intelligenza aperta, dotato di una cultura enciclopedica, laureato in medicina e capace delle imprese più straordinarie; è ventriloquo, imitatore di suoni, prestigiatore fantastico, attore impareggiabile. La sua carriera era stata strepitosa, anche perché non aveva trascurato nulla nella preparazione: “…dallo studio approfondito della criminologia scientifica all’arte di colpire con una pistola una moneta gettata in aria, dalla conoscenza perfetta di otto lingue alla ginnastica acrobatica; dal lancio del laccio alla lotta giapponese e messicana; dalla prestidigitazione all’ipnotismo; dalla chimica criminale al paracadutismo”(Antal Medek, Le straordinarie vacanze di Oscar Rely, in “La Domenica del Corriere”, 11 aprile 1937, n. 15). Anche lui come Sherlock Holmes ha un amico, il barone Tassilo, “uno dei centomila collaboratori dilettanti e segreti che la polizia trascina dietro di sé” (Antal Medek, Le straordinarie vacanze di Oscar Rely, in “La Domenica del Corriere”, 17 aprile 1937, n. 16) e che rappresenta il suo opposto. E’ un supporto poco serio, che spesso conclude qualcosa solo per caso, è maldestro, un po’ ridicolo nell’aspetto e nelle movenze, convinto di essere molto utile, dopo che l’ispettore in qualche occasione lo ha gratificato per il suo operato, si crede una specie di Sherlock Holmes. Le posizioni vengono dunque ribaltate: non è il personaggio principale (l’ispettore) ad avere quale modello l’investigatore inglese, pur assomigliandogli molto per l’eccezionalità delle sue conoscenze, ma il suo Watson (barone Tassilo), poco dotato e poco importante ai fini della soluzione del caso. Del resto l’ispettore presenta abilità e capacità che superano ampiamente quelle già notevoli del personaggio conandoyliano.

Un investigatore per passione è Cesare Alessandro Raffinot, che si ritiene un emulo dei grandi poliziotti dilettanti. “Ritiratosi a vita privata, dopo un commercio di esportazione che gli aveva fatto girare il mondo intero, si era dedicato a risolvere alcuni problemi di genere poliziesco che minacciavano di rimanere insoluti mercè un dono singolare di osservazione, un’acutezza incomparabile, una finezza prodigiosa, quell’omone di apparenza volgare aveva avuto successo in molti casi in cui i professionisti si erano sbagliati” (Leone Groc, Il mistero del telefono, in “La Domenica del Corriere”, 27 maggio 1923, n. 21).

Anche in lui qualcosa di nuovo compare, che lo distingue e lo rende originale. La sua fisionomia è definita insignificante e mediocre: cinquant’anni, baffuto, tarchiato, con una pancia particolarmente evidente. E’ goffo: usa un colletto troppo alto, indossa una rendigote troppo lunga, scarpe troppo strette, cappello a cilindro troppo largo. Ha, in compenso, uno sguardo vivo, chiaro, penetrante. Ha una figlia che fa la giornalista e che ha ereditato le sue doti d’investigatore. A lei toccherà l’ingrato compito di scoprire che l’autore del delitto è il padre, che muore suicida (espediente ancora utilizzabile e ampiamente utilizzato). Tutto viene così sconvolto non solo a causa delle caratteristiche del protagonista (non può sfuggire la somiglianza, sia pure solo per l’aspetto un po’ buffo, con Poirot, il noto personaggio di A. Christie), ma anche da un finale a sorpresa, in cui il suicidio viene a riparare una situazione paradossale: il personaggio positivo, si trasforma in negativo.

In Lingua di fuoco di Sax Rohmer tre sono i personaggi che hanno un ruolo nelle indagini: Paolo Harley, un avvocato impegnato durante la guerra in missioni segrete, l’ispettore Wessex di Scotland Yard ed il sergente detective Stokes. Uomini molto diversi tra loro: l’ispettore è presentato come un artista nel suo lavoro, sebbene un po’ limitato; all’opposto il sergente, che non stima molto il suo superiore, non è molto diplomatico e preferisce l’azione fisica; infine Harley affianca alle capacità logiche, quelle intuitive, irrazionali, è dotato di uno strano dono di prescienza che però talvolta finisce per offuscare la parte puramente analitica della sua mente (Sax Rohmer, Lingua di fuoco, in “La Domenica del Corriere”, dal 30 ottobre 1927 al 12 febbraio 1928).

E’ un ottimo osservatore anche l’ispettore 109 (J. Toussaint-Samat, La fanciulla che salvò una città, in “La Domenica del Corriere”, dal 31 luglio al 25 settembre 1932), così come lo è Silà, protagonista del romanzo di S. A. Steeman L’infallibile Silà. Eppure, nonostante le loro abilità logico-deduttive, sono meno infallibili di quanto si potrebbe pensare. Silà, detective privato dal classico aspetto da avventuriero, che non disdegna di approfittare delle occasioni che gli si presentano per commettere dei furti (ma questo si scopre solo alla fine), dice di sé: “…io non sono Sherlock Holmes. Io sono più forte di Sherlock Holmes” (S. A. Steeman, L’infallibile Silà, in “La Domenica del Corriere”, 13-19 novembre 1938, n. 47). Il suo metodo è analogo: da una serie di osservazioni trae delle conclusioni e fin dall’inizio si mette alla prova, in una situazione simile a quella del personaggio inglese quando vuole impressionare qualcuno dando un saggio delle sue capacità, solo che il narratore sottolinea a chiare lettere che Silà non ha indovinato tutto, anche se tutto quello che dice su di lui è possibile. Quest’ultimo non è altri che l’assistente, una specie di Watson impegnato a scrivere la storia del suo straordinario e ambiguo principale, comparso dal nulla e che nel nulla scompare.

La maggior parte delle indagini viene condotta dalle forze dell’ordine, punto di riferimento fondamentale in un’Europa che stava cercando un assetto stabile e la pace sociale, a tutti i costi. Una nutrita schiera di self-made men balza subito agli occhi, così come il progressivo umanizzarsi di queste figure. E’ quello che accade all’ispettore Miral, protagonista della storia raccontata nella Sposa di un giorno (A. Bernède, La sposa di un giorno, in “La Domenica del Corriere”, dal 10 maggio al 9 agosto 1931). Lo “scoiattolo”, così lo definisce il direttore della polizia giudiziaria, è figlio di un commissario dalla carriera modesta. Diviene poliziotto non per la lettura di romanzi polizieschi o cronache sensazionali, ma perché spesso sente il padre lamentarsi dei numerosi delitti impuniti. Dotato di buona cultura, ha seguito un solido corso di studi ed ha soggiornato all’estero per migliorare la conoscenza delle lingue; entra nella polizia, dove segue la trafila, compiendo i servizi minori, ma importanti, per imparare il mestiere, fino a che non si mette in luce conducendo le inchieste più difficili con successo, anche se l’occasione clamorosa non si è ancora presentata.

L’ispettore La Gro è famoso in tutta l’Olanda e oltre, eppure non ha l’aspetto del duro, sembra piuttosto un “commerciante di bulbi di tulipano”, un po’ grosso, grigio di capelli, di media statura, calmo, ha un debole per la musica (un paio di volte la settimana dà concertini a domicilio). Quest’uomo dall’apparenza così insignificante che guarda “il triste mondo con i suoi occhi scuri, pensierosi e pacati” (Kurt Krispien, Dalla sera alla mattina, in “La Domenica del Corriere”, 17 novembre 1940, n. 47), durante le indagini alterna alla razionalità necessaria alla conduzione di un’inchiesta, l’intuito che consiste in una sensazione, una specie di istinto che lo induce a fare certe scelte: un altro uomo ordinario le cui doti vanno al di là della pura e semplice logica. Nella Via delle lampade il maggiore Gordon è accusato di essere troppo legato alla tecnica poliziesca e di tenere in poco conto i valori psicologici (F. M. Macciò, La via delle lampade, in “La Domenica del Corriere”, dal 28 luglio al 3 novembre 1940). Creatura di questo mondo è sicuramente il londinese ispettore Dwayne, uomo di poca fantasia, che ha sempre dovuto lavorare e quindi non ha potuto “esercitare la sua mente in voli poetici”; del resto, “oltre a non avere assolutamente tempo per leggere libri”, è convinto di non esservi neppure “troppo portato” (J. S. Fletcher, Il mistero di Bartenstein, in “La Domenica del Corriere”, 30 giugno 1929, n.26).

Nuove prospettive culturali animano gran parte di questi personaggi; il loro obiettivo non è più solo quello di svelare un mistero, desiderano anche comprendere le piccole o grandi tragedie che sono legate ai delitti su cui indagano. Per fare questo devono entrare nella mischia, sia che si tratti di poliziotti sia che siano detectives privati, come Enrico Pedigrew, che, uscito da Oxford, si cimenta come attore, anche se la vita del teatro non sembra essergli congeniale: è la vita vera ad interessarlo.

Così, dopo aver interpretato la parte di un poliziotto, sente che quella è la via da seguire. Diviene detective privato e confessa ai lettori che il suo metodo preferito è quello di entrare nell’ambiente delle sue ricerche, per cogliere il nocciolo della questione, senza farsi scoprire. Il modo più sicuro è quello di assumere un’aria “ingenua” e “una professione di scarsa importanza” (E. Phillpotts, L’ultimo lupo, in “La Domenica del Corriere”, 16-22 aprile 1939, n. 17). Lontano dall’acume di Sherlock Holmes, Pedigrew si colloca in una linea ideale che conduce a Maigret.

L’ispettore Malaise, che tanto desidera uscire dalla banalità dei casi che normalmente gli si presentano, si lascia travolgere dal desiderio di imbattersi in un’avventura straordinaria che unisca naturale e soprannaturale, e si abbandona all’immaginazione, “lui che durante più di vent’anni non aveva visto ed ammesso che il positivo” (S. A. Steeman, Angelo o demonio?, in “La Domenica del Corriere”, n. 40, cit.). Opera a Bruxelles ed assomiglia in modo impressionante a Maigret: cappello all’indietro, pipa tra i denti, ciglia aggrottate. Malaise ama ascoltare “pazientemente i lunghi discorsi di certa gente” (S. A. Steeman, Angelo o demonio?, in “La Domenica del Corriere”, 9 ottobre 1932, n. 41), anche se possono sembrare fastidiosi, perché sono generalmente molto istruttivi. Grazie alla mania di fare sfoggio di arte oratoria, non viene omesso nessun dettaglio. E quando si accorge di non riuscire a trovare il bandolo della matassa per risolvere il caso che gli è capitato, si reca da un delinquente, notoriamente abile nel risolvere enigmi e a cui dà la caccia da molto tempo, per chiedergli le sue impressioni. Questi gli risponde così: “Voi avete respirato l’atmosfera della casa del delitto, avete interrogato i suoi abitanti… Quando voi richiamate alla memoria le ore passate in questo villaggio sperduto, quali sono le immagini che prima si presentano alla vostra mente?” (S. A. Steeman, Angelo o demonio?, in “La Domenica del Corriere”, 8 gennaio 1933, n. 2). I consigli che gli dà gli sono utili per individuare la chiave di lettura del dramma. Si reca nuovamente dal criminale per cercare di capire quale sia il suo segreto. Subito gli chiede se la “scienza” che possiede gli provenga dai libri che tiene in casa. La risposta è negativa. L’ispettore a questo punto incalza, vuole sapere: “Ma allora? Sherlock Holmes aveva un metodo proprio, sapete… Padre Brown, il geniale Padre Brown di G. K. Chesterton possedeva egli pure il suo segreto… Quale è il vostro?” “L’immaginazione” (S. A. Steeman, Angelo o demonio?, in “La Domenica del Corriere”, 15 gennaio 1933, n.3) - risponde. Nulla di più e nulla di meno di un indefinibile istinto.

Questi investigatori, proprio perché non agiscono nel mondo dell’eccezionale, hanno bisogno di avere accanto a sé uomini e non figure sbiadite. Gli aiutanti non sono ancora alla pari con i loro capi, non hanno la loro intensità, il loro gusto per l’avventura, la stessa inclinazione per le indagini complicate, ma non sono nemmeno più solo dei semplici pretesti narrativi. Nell’Introvabile autobus ci troviamo di fronte un commissario innamorato del proprio lavoro, “un brav’uomo e un integerrimo funzionario, popolarissimo nel suo quartiere, ove [per] la sua alta statura, le sue spalle da gigante, i suoi grandi baffoni, i suoi modi rudi e il suo buon onore” è soprannominato ‘il buon commissario’ (Leone Groc, L’introvabile autobus, in “La domenica del Corriere”, 9 marzo 1924, n. 10). E’ generoso e sempre di buon umore. Gli piace fare lunghe prediche al suo segretario, Ettore Mainfroy, che ha un carattere completamente diverso. Un tipo calmo, poco incline all’azione, felice di operare in un quartiere tranquillo, ama la monotonia del suo lavoro. E’ di statura media, ha modi svelti, ha una fisionomia simpatica, è molto elegante ed è uno specialista in nodi di cravatta. Di fronte ai paventati enigmi del capo, si lancia in ostinati ragionamenti per spiegare anche gli aspetti più oscuri. Così diversi, eppure così uguali per l’onestà e la bontà, si stimano molto e vivono in pieno accordo.

L’atteggiamento di fronte al crimine è, in questi romanzi, abbastanza vario. Prevale la fiducia nella possibilità di ristabilire l’ordine turbato. Contrariamente, però, a quanto avrebbe voluto il regime, non sempre i colpevoli sono assicurati alla giustizia, soprattutto se il detective (generalmente privato) opera più per amore d’avventura che per altri motivi. All’estremo opposto, se la polizia è impotente di fronte a certi criminali, uomini straordinari devono occuparsene. Nell’Uomo che ritorna il protagonista, parlando delle sue imprese, così si esprime: “Ai malfattori che si possono arrestare per mezzo della legge pensa la polizia meglio di me. Gli uomini contro i quali io combatto, invece, sfuggono alla tenaglia del Codice… Ufficialmente si è quasi sempre impotenti contro di loro, sarebbe come uccidere dei microbi con una rivoltella…” (Ludwig Von Wohl, L’uomo che ritorna, in “La Domenica del Corriere”, dal 1933 al 18 febbraio 1934). L’ispettore messo in scena nell’Uomo che risorge è così spregiudicato da uccidere i delinquenti senza farsi troppi scrupoli (R. Pujol, L’uomo che risorge, in “La Domenica del Corriere”, dal 17 febbraio al 19 maggio1935).

Qualche volta sono i criminali ad interpretare la parte più importante e ad accattivarsi le simpatie del pubblico. Può sembrare persino banale parlare di Arsèn Lupin, il famoso personaggio di Maurice Leblanc, protagonista di numerose serie televisive, di cartoni animati, e tanto popolare da far quasi dimenticare il nome dell’autore. Nella “Domenica del Corriere” comparve fin dai primi anni del Novecento e rimase ben presente nel ventennio preso in esame. Basti ricordare alcuni titoli: I denti della tigre (dal 6-13 marzo 1921 al 28 agosto-4 settembre 1921), Gli otto rintocchi della pendola (dal 9-16 aprile al 18-25 giugno 1922), Arsenio Lupin lavora…(dal 19 febbraio al 15 aprile 1928), La Cagliostro si vendica (dal 22 settembre 1935 al 19 gennaio 1936). Affascinante dandy della letteratura, malato di avventure, ladro per passione, è, a suo modo, animato da sentimenti di giustizia, entra in punta di piedi nelle case di persone che possiamo definire di dubbia moralità o che tali sono considerate dal sentire comune: strozzini, collezionisti poco onesti, assassini, ricattatori, ma anche parlamentari e chiunque possieda ricchezze eccessive. Vittime sono inoltre banche, compagnie d’assicurazione, chiese, e così via. E’ un simpatico furfante in guanti di velluto, dotato di un grande charme, in grado di ammaliare i cuori femminili che inevitabilmente si aprono al suo amore. Un personaggio così non poteva che conquistare il pubblico, perché gli è vicino e lontano nello stesso tempo: come delinquente non è quello che si è abituati ad immaginare, insomma non fa paura, ed è rassicurante sia per gli obiettivi che sceglie, sia per la sua attitudine a svolgere indagini su casi complicati con l’aria di chi fa qualcosa per riparare ad un torto.

Lupin non è l’unico furfante ad avere il ruolo di protagonista. Vi sono i dodici giannizzeri di Madama, una terribile banda che si sta sciogliendo e i cui componenti non si vedono da molti anni. Il capo, che è una donna, ha deciso di restituire ad ognuno le confessioni firmate che le sono state consegnate per cementare il loro sodalizio. In cambio devono compiere un’ultima impresa. Accettano, sia pure a malincuore, alcuni sono veramente cambiati, altri no, e questi ultimi finiscono per pagare, anche con la vita, un passato che non è morto, ed è il destino, il loro destino, a condurli ad un esito fatale. Il criminale dai connotati più negativi è quello che durante la guerra ha rivestito i panni della spia (E Phillips Hoppenheim, “Madama” e i suoi dodici giannizzeri, dal 13 gennaio al 21 aprile 1929).

S’intrecciano vicende familiari e amorose, riconoscimenti ed innamoramenti, un po’ feuilleton e un po’ romanzo d’avventura.

Del tutto originale il “pluriassassino” Sir Joseph Londe, un uomo affetto da una strana mania e autore di numerosi delitti. In primo luogo incontriamo un interessante personaggio femminile, un’impiegata del Foreign Office, che è considerata fra tutti la più brillante per la sua intelligenza superiore (non è un fiore nel deserto, molte sono le figure femminili ad avere un ruolo attivo in questi romanzi). Miss Lancaster si rivolge ad un collega perché svolga delle indagini sulle persone scomparse a Dredley, tra queste vi è anche suo padre. Il giovane dapprima si rifiuta di prestarle ascolto, ma poi si lascia coinvolgere. Sir J. Londe, nel frattempo, continua a mietere vittime. E’ pericoloso, in grado di cambiare personalità e luogo con estrema facilità. Opera con la moglie, che nei suoi crimini non ha una parte secondaria, anche se in qualche occasione lascia trapelare un barlume di lucidità o semplicemente di umanità. Durante la guerra hanno servito, con spirito di sacrificio, la patria: lui è un chirurgo e come tale ha visto scorrere il sangue a fiumi. Tutto questo ha fortemente impressionato i due coniugi, i quali si sono convinti di avere il cervello di un colore anomalo. Una volta uscito dal manicomio, il protagonista inizia spasmodicamente a cercare un cervello “sano”, ne esamina molti, ma tutti gli sembrano malati come il suo. I malcapitati sono attratti dall’alone di normalità che la coppia riesce a creare intorno a sé. Miss Lancaster corre parecchi rischi pur di incastrare i due pazzi. E quando finalmente la cattura è imminente, vi è un colpo di scena: Sir J. Londe prende coscienza dei suoi crimini e va incontro alla morte. (E. Phillips Hoppenheim, La terribile mania di Sir Joseph Londe, in “La Domenica del Corriere”, dal 16 settembre al 25 novembre 1928).

Si conclude così una storia inquietante, non priva di imprevisti, caratterizzata da un contenuto poco consueto, molto vicino al genere horror, che tanto successo riscuote oggi soprattutto fra le giovani generazioni; una storia in cui il delitto trova una sua lontana giustificazione. Sia nel giallo enigma, in cui si tratta di identificare il colpevole, sia nel thriller, in cui tutte le energie sono spese per catturarlo, si presuppone che dietro gli avvenimenti ed i comportamenti vi sia un vissuto che muove le azioni umane. Interessanti sono le parole di Bannister che, Nella via delle lampade, cerca di giustificare i propri atti criminosi spostando l’attenzione del lettore sul dramma che presiede e precede l’epilogo: per giudicare è necessario conoscere le cause, “fare un viaggio di esplorazione a ritroso, tenendo presente che il male è come il fiume che non scorre se non ha sorgente. E le sorgenti […] sono fenomeni spontanei, fatali. La sorgente delle mie colpe è una sola: la miseria” (F. M. Macciò, La via delle lampade, in “La Domenica del Corriere, 3 novembre 1940, n. 45).

 

La maggior parte delle vicende s’intreccia secondo lo schema “mistero – indagine – svelamento”, si parte da un delitto, sono quindi condotte le indagini, al termine delle quali il lettore viene illuminato con una spiegazione che colma i vuoti volutamente creati durante la narrazione. In Vicolo Gerber n. 7 (Hans Possendorf, Vicolo Gerber n. 7, in “La Domenica del Corriere, dal 22 gennaio al 7 maggio 1933), come abbiamo visto, vi è un omicidio, cui segue l’indagine che inizia nel modo più tradizionale: il commissario si fa raccontare l’accaduto dal poliziotto in servizio, fa ricostruire la scena ed infine interroga i testimoni. Il tutto è raccontato da un narratore esterno e, solo alla fine, il mistero è svelato.

Sono più che altro gli ingredienti ad essere ritoccati e rivisti di volta in volta. Non mancano tuttavia spunti interessanti, piccole novità o semplicemente rielaborazioni più efficaci.

Hans Possendorf nella Scomparsa di Maria Cordéro (Hans Possendorf, La scomparsa di Maria Cordéro, in “La Domenica del Corriere”, dal 7-13 maggio al 13-19 agosto 1939) traccia il ritratto del “buon” rapitore, che tenta di sottrarre una bambina al meccanismo infernale della cinematografia americana. In una storia ambientata in un mondo come questo, in cui il clamore della pubblicità è necessario e fondamentale, l’intervento della stampa in tutti i fatti riguardanti divi e “divine” è normale. Pertanto questa irrompe prepotentemente nella storia. Anche nell’Invisibile A. X. (Ludwig Von Hohl, L’invisibile A. X., in “La Domenica del Corriere”, dal 14 maggio al 10 settembre 1933) la carta stampata svolge un ruolo fondamentale; il misterioso A. X. la usa per i propri scopi, in un gioco continuo tra annunci, anticipazioni e inseguimenti che falliscono inesorabilmente (A. X. è l’amico, il giornalista, il ladro, e muove la storia in modo da giungere al lieto fine).

Kàlman Déry nel romanzo E’ arrivato l’ambasciatore costruisce in un modo molto suggestivo il mistero di un omicidio, che viene a turbare la tranquilla notte di un usuraio che, sconvolto dal dolore per la morte del figlio, continua a rileggere le lettere che gli ha inviato dal fronte. Quella è l’unica lettura da molto tempo e a sfogliare quelle carte, ormai ingiallite, quelle cartoline, gli sembra ogni volta di risentire la voce del figlio. “E’ bello vegliare così, soli con i propri ricordi, quando attorno a sé, almeno così sembra, tutti dormono. C’è un raccoglimento più profondo, più mistico, quasi. E di notte le persone evocate si fanno più palpabili, si ricordano meglio, sembra di riudire il loro riso, di riascoltare le note esclamazioni…” (Kàlman Déry, E’ arrivato l’ambasciatore, in “La Domenica del Corriere”, 17 aprile 1938, n. 16). Il vecchio alza quindi lo sguardo all’orologio di legno che, come un sarcofago, era eretto vicino a lui. Improvvisamente, uno, due, tre, quattro, cinque colpi d’arma da fuoco, vicinissimi e secchi, vengono esplosi nella casa. Gli spari irrompono, come in un film giallo, e lacerano quel velo di dolcezza che caratterizza tutta la descrizione che precede.

In Viso grigio (Sax Rohmer, Viso grigio, in “La Domenica del Corriere”, dal 22 aprile al 9 settembre 1928) i personaggi coinvolti nella vicenda costruiscono, tassello su tassello, il romanzo: non sono semplici comparse, hanno una storia e una personalità. Nell’Ultimo lupo di E. Phillpotts la seconda parte degli avvenimenti, quella che prende il nome La tela del ragno, è raccontata non più da un narratore esterno che guarda i personaggi che si muovono sulla scena, ma dal detective che si occupa delle indagini e che è stato tirato in ballo dal reverendo Boyd, suo vecchio e fedele compagno di collegio con una lettera accompagnata da un volume antico. Il nuovo narratore giustifica il suo intervento in questo modo: “…implorava il mio aiuto per risolvere un caso speciale e disperato. Seppi così la storia che voi conoscete già” (E. Phillpotts, L’ultimo lupo, in “La Domenica del Corriere”, cit.)

Nell’Uomo truccato è la linea su cui s’inseriscono i fatti che precedono e seguono un delitto che sembra essere destrutturata. La storia inizia con il ritrovamento del cadavere di un medico, vi sono le prime indagini per ricostruire l’accaduto, impresa non difficile per i gendarmi che si trovano sul posto. Ciò che non è chiaro è il movente, si sa solo che sono state rubate delle carte. Il Procuratore fa perquisire la casa della vittima nella speranza di trovare qualche indizio (un appunto, uno scritto). E’ il cancelliere che casualmente trova, nelle tasche della pelliccia del morto, alcuni fogli scritti con una calligrafia fitta e minuta. Questo documento “forma il racconto di cui la fine violenta del dottore è soltanto un sanguinoso epilogo” (Maurizio Renard, L’uomo truccato, in “La Domenica del Corriere, 26 febbraio-5 marzo 1922, n.9). Coerentemente con la natura del materiale utilizzato, il narratore avverte il pubblico che quanto “sta per apprendere è soltanto una relazione assai imprecisa delle osservazioni raccolte dal medico Belvoux […] un diario intimo, in cui egli ha raccontato tutto quel che non poteva trovar posto nel suo memoriale tecnico, fatto sparire da temibili ladri alla vigilia di essere trasmesso all’Accademia delle Scienze […] questi appunti senza lustre letterarie, che, unendo alla precisione di un rapporto la sincerità di una confessione, ricostruiscono le peripezie di un’avventura tragica e meravigliosa” (Maurizio Renard, L’uomo truccato, ibid.). Il lettore avverte l’impressione di un ribaltamento, che in fondo è più apparente che reale: un omicidio è sempre la conclusione di una serie di eventi, cui segue la ricostruzione. L’investigatore si guarda intorno, fruga nel presente e nel passato della vittima per capire “chi, come, perché”.

Solo che in questo caso la vicenda viene ricostruita dalla vittima stessa, attraverso “un memoriale”, che è poi il vero romanzo. La conclusione non è in realtà lo svelamento del mistero, ma il delitto che si trova all’inizio.

Accanto a personaggi che parlano o confessano, ve ne sono altri che non lo fanno, o non possono più farlo, e vi sono situazioni in cui la chiave di lettura resta ben celata fino alla fine. In questi racconti anche il “non detto” (ciò che viene taciuto) ha un’importanza notevole: sono quei buchi neri che l’investigatore deve scoprire (illuminare) in un gioco continuo con il pubblico. La più classica delle sfide è quella che vede il lettore impegnato nel mistero che si cela in un omicidio compiuto in un luogo chiuso ed in cui, apparentemente, nessuno sarebbe potuto entrare. Particolarmente stuzzicante l’enigma del Mistero del telefono di L. Groc, in cui una steno-dattilografa trova la morte in una cabina telefonica sprangata all’interno. La testimonianza della proprietaria del caffè, corroborata dalle dichiarazioni dei clienti, non lascia alcun dubbio: la vittima è entrata da sola e nessuno si è avvicinato fino alla scoperta del cadavere (Leone Groc, Il mistero del telefono, in “La Domenica del Corriere”, dal 27 maggio al 29 luglio 1923). E’ sempre L. Groc a porre i lettori di fronte a situazioni di questo tipo: questa volta è il cassiere di un negozio, che ha con sé del denaro e dei documenti, a svanire nel nulla dopo che è entrato in un ascensore (Leone Groc, Lo scomparso dell’ascensore, in “La Domenica del Corriere”, dal 25 giugno-2 luglio al 13 agosto 1922).

In Un cattivo soggetto, dove è possibile cogliere le caratteristiche del giallo d’azione, è la suspance a prevalere più che l’interesse per la soluzione del caso. Il protagonista, impegnato in un’indagine sul contrabbando di armi e stupefacenti da parte di un manipolo di turchi, guidati da una donna, si scatena in una serie di imprese degne di un film americano. E’ abbastanza spregiudicato da lasciare a Gerusalemme la tranquilla poltrona di ispettore-capo, per assumere le spoglie di assistente-doganiere, per di più scapestrato e poco simpatico, che ne combina di tutti i colori per entrare nelle grazie dei contrabbandieri e condurre le indagini dall’interno. In questo caso l’enigma viene meno, e compare invece una vicenda che si snoda tra una peripezia e l’altra, tra fughe ed inseguimenti (Ludwig Von Wohl, Un cattivo soggetto, in “La Domenica del Corriere”, dal 15 agosto al 7 novembre 1937).

Ampiamente presente nella “Domenica del Corriere” anche la spy story, la cui presenza trovò un complemento in rubriche come “Avventure di spionaggio” e “Ricordi di un agente segreto”. Le avventure e le indagini su casi di spionaggio internazionale, oltre a stimolare una curiosità legata ovviamente a vicende che s’intrecciano in modo da creare un alone di mistero, erano particolarmente gratificanti in quanto il nemico, questa volta esterno, era sempre ben identificabile: la Russia bolscevica. Quel che era accaduto a Est non poteva che suscitare avversione e, del resto, la svolta a destra dell’Europa e le tragedie che si consumarono in quegli anni furono anche il frutto di questa grande paura collettiva. Le angosce di allora spesso si materializzavano nei romanzi e nei racconti. Non si tratta di un fenomeno isolato: un periodico come “L’illustrazione Italiana” – che si rivolgeva ad un pubblico dai gusti più raffinati - non era immune da inquietudini come queste. Uomini e donne provenienti dalla Russia sono presenti in tanti romanzi e la loro immagine non è positiva, salvo che non siano dei rifugiati, degli scampati al pericolo. L’interesse per le altre realtà diventa in questo caso politico, non è solo la volontà di parlare di mondi diversi, talvolta poco conosciuti e poco rispettati, ad animare questi scrittori. La grande paura del comunismo, dello spettro che aveva dato uno scossone a tutta l’Europa, è facilmente rintracciabile. Grandi trame contro il mondo occidentale, divengono oggetto di narrazione: furti di importanti documenti, sparizioni di plichi, omicidi. Nella Fanciulla che salvò una città di J. Toussaint Samat miss Gildcrhirst, che abita in Provenza ed apparentemente è una pittrice, in realtà è una spia al soldo dei bolscevichi (J. Toussaint-Samat, La fanciulla che salvò una città, in “La Domenica del Corriere”, cit.). Anche Bannister, nella Via delle lampade, compie i suoi crimini per Karpoff, che è un agente segreto russo (F. M. Macciò, La via delle lampade, in “La Domenica del Corriere”, cit.). Tuttavia se il giudizio è implicitamente ben chiaro, non appesantisce gli intrecci, diventa un espediente narrativo di grande efficacia, considerato il pubblico che fruiva di queste opere.

Negli anni Trenta comparve I misteri della R.E.F. di Luca D’Andalo (pseudonimo di un romanziere italiano di cui non è stato possibile scoprire il nome).

Siamo in una grande città (forse in Germania) e la R.E.F. è una specie di pentagono, in cui si fanno esperimenti e ricerche per fornire l’esercito di armi sempre più potenti. La segretezza è d’obbligo, chi entra a farne parte, non ne esce più, neppure fisicamente, sia pure per brevi periodi o per fare una passeggiata (il villaggio è chiuso). Non vi è esclusione di colpi, chiunque sia sospettato di essere una spia di qualche potenza straniera viene immediatamente ucciso. In questa organizzazione si infiltrano tre agenti segreti italiani, che devono impadronirsi di un congegno che è in grado di rendere impotenti le flotte aeree nemiche. Due di questi sono animati da spirito di vendetta: il padre è stato vittima di uno spiacevole incidente durante la prima guerra mondiale (dopo l’arresto, viene condotto nella sua casa, dove subisce prima l’umiliazione di vedere i figli, orfani di madre, respinti brutalmente mentre chiedono pietà per lui, e poi l’onta di essere condotto a morte passando attraverso una calca furente). Questa volta il racconto vede le spie schierate dalla parte giusta, quella che deve vincere (Luca D’Andalo, I misteri della R.E.F., in “La Domenica del Corriere”, dal 7 giugno al 13 settembre 1936).

“La Domenica del Corriere”, come abbiamo visto, offrì una gamma abbastanza varia di temi e soluzioni narrative, che tutte insieme ci danno conto di una vivacità in parte in linea con i tempi ed in parte originale. Tuttavia, considerato il grande numero di testi stranieri pubblicati, questa prima lettura rischia di non essere corretta se non si tiene conto della qualità delle traduzioni, il cui peso, come vedremo, sarà notevole.

(in PROBLEMI, gennaio-agosto 2001, nn. 119/120)