“Si metta seduto. Per favore. Ho poco tempo.” disse la figura Michelangiolesca a cui era toccato di scendere dal soffitto della Cappella Sistina per risolvere l’ennesimo casino tra umani.

            Gli lanciò subito un’occhiataccia storta, iniziando a scuotere il capo.

            “Ho già detto tutto al suo collega.” fece Tatorino, tanto per mettere subito le mani avanti. “Ero in bagno e”.

“Lo so già che si era rintanato in bagno a fumare di nascosto come un ragazzino!”

            Tatorino alzò le spalle.

“Se fossi restato seduto in sala non è che le cose sarebbero state diverse”.

                “All’Ispettore Nardi ha detto di conoscere la vittima…”

Tatorino alzò le sopracciglia.

“Credo che avesse un gran sonno anche lui come tutti, io gli ho detto solo che sapevo chi fosse… Il nome me l’aveva detto la Bianca Milani mentre aspettavamo l’arrivo della polizia”.

“La vittima, insieme a suo marito, aveva un banco d’antiquariato e lei è un assiduo frequentatore di quei mercatini… ”

Tatorino decise di non cedere a quelle puerili provocazioni. “Si, ma non sono riuscito a focalizzarla, magari se vedessi una sua foto”. Il commissario si mosse verso la sua scrivania. “Ma non una foto da morta! Per cortesia.”

           Pontano emise un grugnito. Rimase lì in piedi come se non sapesse bene che fare o che pensare.

 “Mi domando cosa abbia spinto l’assassino a rischiare così tanto per ucciderla, perché ci vuole del sangue freddo per accoltellarla in quel modo. e poi, in mezzo a tutta quella gente“

            L’assassino doveva aver usato uno stiletto, un’arma che solitamente veniva impiegata dai

 Professionisti: un pugnale dalla lama molto sottile, lunga e affilata, che costringeva ad avvicinarsi alla vittima, ad averne un contatto estremamente fisico “. Occorre metterle una mano sotto il mento, far buttare indietro la testa alla donna, e tenerla ferma il tempo necessario affinché la lama entra ed esca molto rapidamente dalla nuca”.

            Tatorino deglutì.

 “Beh…non è che in una libreria, con 35 persone presenti, uno potesse usare una pistola” disse, sapendo bene che quel commento avrebbe fatto subito incavolare il commissario, ma Pontano neanche lo guardò, disse solo:

"Non ci crederà ma esistono le pistole col silenziatore”, e continuò a pensare, a chiedersi come mai, uno capace di uccidere in un modo così freddo e professionale, avesse scelto un posto inadatto come quello.

 “Inoltre era una serata un po’ particolare” disse Tatorino intuendo i suoi ragionamenti. “L’ingresso era riservato per sole donne e c’era anche una persona messa lì, sulla porta, proprio per controllare…”

            Pontano fece un’altra smorfia.

“Ma lei, esattamente, che ci faceva in una serata per sole donne?” disse, guardandolo perplesso, come se temesse la risposta.

 “L’ho già detto anche al suo collega: stavo sostituendo la Dottoressa Cristina Agostini, un favore che mi aveva chiesto la Bianca Milani, avrei dovuto tenere una piccola conferenza”.

 “Ah, sì, la cosa sulle sirene” disse Pontano, alzando le sopracciglia cespugliose. “Non mi dirà che crede anche alle sirene?”

Se ne andò alla scrivania scuotendo di nuovo il capo, prese il ricevitore, pigiò con forza un tasto, attese due microsecondi come fossero migliaia d’anni, poi esplose spazientito:

“Lobosco! Se hai un minutino di tempo potresti -gentilmente - sentire se Scarpelli ha già qualche risultato sull’arma impiegata nel delitto Calamai?… Sì, grazie. “, e ributtò giù. Come per sbriciolare il telefono.

Ritornò a guardare storto Tatorino. “Quindi, se era lì per lavoro, doveva trovarsi seduto al tavolo della conferenza, in una posizione privilegiata, davanti al pubblico, ma nonostante questo, anche lei come il Dottor Ceccarelli, la signora Cunningham e la Dottoressa Milani, non si è accorto di un bel niente!”

Tatorino si strinse nelle spalle.

“Capisco la signora Cunningham che stava leggendo le sue poesie ma voi, Cristobeato, stavate dormendo?”

            Tatorino tentò di descrivergli il tipo di serata, gli parlò della penombra, delle diapositive, dei vocalizzi, e di tutti quei suoni straordinari emessi dalla poetessa che avevano incantato la platea.

            “Era come trovarsi immersi in una specie di liquido amniotico ” disse, “una performance davvero incredibile”.

“Tanto incredibile che lei, a un certo punto, si è alzato per andarsene a fumare al cesso!” sbottò il commissario, lasciandosi andare alla spalliera della sedia.

In faccia gli vennero subito brutte chiazze rosse. Inspirò ed espirò, poi riprese il controllo,

“Va bene. Può andarsene. Grazie della preziosa collaborazione. Arrivederci.” e gli fece il gesto di smammare alla svelta, ma poi ci ripensò:

 “Oggi pomeriggio devo interrogare quella poetessa americana” disse, “da quello che mi ha raccontato l’ispettore Nardi, immagino che non sarà una cosa facile…”

A Tatorino scappò un sorrisetto.

“E’ una donna, diciamo: sopra le righe… Ricorda le immagini trasmesse dal Castello di Valenzano, vero?”

Pontano si colorò di un intenso color porpora. Si agitò, sulla sedia, imbarazzato. Tatorino approfittò di quel momento di debolezza del commissario:

“Posso chiederle una cosa?”

            Pontano dondolò il capo.

            “Chi era la donna che ha appena interrogato?”          

  “La signora Elsa Calamai… “ disse lui felice di poter cambiare argomento.

 “La cognata della vittima, Mattei mi ha detto che è da stamattina presto che era qui ad aspettarmi…”

            Era sconvolta. Voleva sapere esattamente cos’era successo perché in quella libreria doveva esserci anche lei, ma nel pomeriggio si era sentita male, un forte attacco di colite, e sua cognata ci era andata da sola.

            “Si sente colpevole, pensa che se ci fosse stata anche lei, forse, non sarebbe successo niente”.

“Strano… “ mormorò Tatorino, tentennando lì in piedi sulla porta.

            “E cosa ci sarebbe di tanto strano? E’ una donna sensibile, mi sembra ovvio che”. “ Ieri sera c’era anche lei in libreria, e ne sono più che sicuro.”Gli raccontò che le era passato proprio davanti, quando era andato in bagno. “E con quella pettinatura sarebbe impossibile non ricordarsela!”              

Pontano sbuffò:

“Sta perdendo colpi Dottor Tatorino, l’Ispettore Nardi ha interrogato tutti quanti e la signora Calamai non c’era…”

            “L’ispettore Nardi dovrebbe sapere che prima che lui arrivasse, alcune signore presenti se n’erano già scappate via terrorizzate dalla vista del cadavere”

            E la signora Elsa Calamai era stata fra quelle.

            “Pensavo che stamani si fosse sentita in colpa e che fosse venuta qui, di sua spontanea volontà, a scusarsi della sua fuga e a testimoniare…”

Pontano diventò prima rosso-granata, poi si scurì ancora fino alla tonalità melanzana, e sbottò in una terribile imprecazione aretina afferrando come un demone infuriato il telefono. Attese qualcosa come tre millisecondi, imbestialendosi ancora di più, e come la prima volta urlò:                         “Lobosco! O mi rispondete subito oppure”. Si bloccò all’improvviso, ascoltò con attenzione, poi, addirittura pronunciò un: “Grazie.”.

            “Chiamami subito il magistrato Cossu!” ordinò, “e se fosse già andata a pranzo, cercala al suo cellulare.” e riappese. Guardò Tatorino: “Il laboratorio ha rilevato tracce di idrossido di ferro nella ferita… Come se la lama dello stiletto avesse un po’ di ruggine”.

            Tatorino alzò le sopracciglia.

            “Questo, esclude l’ipotesi del professionista.” disse Pontano, contento di quella cosa.

“E ora vediamo di capire chi dice la verità tra lei, Dottor Tatorino, e la signora Calamai… Dirò a quel coglione di Nardi di fare immediatamente una verifica, insieme alla Dottoressa Milani, sulle persone realmente presenti”.

Tatorino, certo di avere ragione, si apprestò a salutare il commissario.

“Ancora una cosa” gli disse lui, mettendosi a frugare in una cartellina. “Lei conosce…”, spostò, alzò milioni di fogli e altre cartelline colorate, poi trovò finalmente quello che stava cercando.

Lesse un nome: “Achille Emperaire…”

            Tatorino ci pensò un attimo. “Sì, direi di sì… è un pittore francese, un impressionista…”

“Poi?”

            “Poi, basta. Non è che posso conoscere così, su due piedi, vita morte e miracoli di tutti i pittori che sono esistiti sulla terra!” sbottò, innervosendosi. Pontano si alzò rumorosamente come per liberarsi finalmente di quella sedia soffocante e della scrivania.

            “Ha voglia di venire con me alla filiale del Monte dei Paschi di Siena, quella in Corso Italia? Magari dopo, sempre se non mi fa incazzare, le faccio conoscere un bel posticino per mangiare…”

Il commissario Pontano e Davide Tatorino, entrarono nella camera numero 21 dell’Ospedale San Donato di Arezzo, esattamente come cane e gatto.

“La prossima volta gliela consiglio io una trattoria decente” si lamentò Tatorino.

“Se avesse fatto un’ordinazione meno complicata non li avrebbe messi in confusione!” reagì Pontano alzando subito la voce, “sarebbe bastato, semplicemente, prendere il piatto del giorno. E poi perché farla tanto lunga se l’olio che usano lì è di Buti o no. Io proprio a volte non la capisco”

“Anche Giovacchino Rossini non poteva fare a meno dell'olio di Buti” disse Tatorino, cercando aiuto più in alto, “e il Carducci lo decanta perfino in una sua poesia!”

Pontano si preparò a perdere di nuovo la pazienza ma un’infermiera si avvicinò di corsa dal corridoio.

Sssth! Guardate che siamo in un ospedale!” disse facendo gli occhiacci. Il commissario biascicò subito delle scuse, poi si voltò finalmente verso il paziente che occupava la stanza. Rintanato sotto le lenzuola come fosse gennaio.

“Il signor Calamai si è sentito male questa notte” disse, indicandolo a Tatorino. “Dopo che ha saputo di quello capitato a sua moglie, gli è preso un improvviso attacco di tachicardia. Adesso è sotto osservazione”.

Achille Calamai non mosse neanche un muscolo, girò solamente gli occhi in direzione di Davide Tatorino e sembrò sorpreso di quell’apparizione.

“Vi conoscete già?” chiese Pontano, cogliendo quell’occhiata. Tatorino gli fece segno di sì, soddisfatto: aveva capito perché la donna vista in libreria, e poi dal commissario, gli ricordasse un volto familiare. Era la sorella di Fosco: stesso naso, stessi zigomi alti…

            Un piccolo antiquario che lui conosceva solo di soprannome, che insieme alla moglie faceva i mercati tra Arezzo Pistoia e Lucca, un tipo molto più famoso per un altro genere di cose che non per la qualità della merce venduta.

Il bel Fosco era un uomo al quale anche i suoi attuali 56 anni d’età stavano benissimo come i foulard che portava sotto la camicia sportiva. Atletico, vanitoso, egocentrico, sarebbe piaciuto al grande Vate Gabriele d’Annunzio perché come lui andava matto per le avventure galanti, le spavalderie, per i gesti eclatanti come quando aveva inviato alla bella Paolina Bellandi, della profumeria “Vanity” in Piazza Napoleone a Lucca, un fascio di 101 rose rosse. In occasione del suo quarantesimo compleanno.

            Ogni terzo sabato del mese, giorno del mercato antiquario di Lucca, ci faceva il viottolo tra il suo banco e quel negozio, con la scusa di trovare una buona acqua di colonia e un dopobarba che gli andassero bene. Fregandosene altamente della presenza del suo gelosissimo marito.

Tatorino pensò che della moglie di Fosco, invece, non ricordava quasi nulla, anche quando l’aveva vista morta, non si era minimamente reso conto di chi fosse, eppure, davanti al loro banco, era sicuramente passato migliaia di volte.

Nazareno Benci detto Neno, ma chiamato anche “radio-mercato”, diceva che mentre il bel Fosco era sempre in giro a ravanare, lei, “Quella poveretta con più corna che un cesto di lumache!”, non si schiodava mai dal banco neanche per andare in bagno.E si portava perfino un panino da casa, pur di non allontanarsi e rischiare di perdere un cliente.

Ma lui, però, per quanto si sforzasse, non ne ricordava né aspetto né faccia, come se fosse ben mimetizzata con le brutte cose che tenevano sul banco.

“Sono venuto per chiederle informazioni riguardo al quadro nella cassetta di sicurezza del Monte dei Paschi…” disse Pontano, rivolgendosi ad Achille Calamai. ”Abbiamo trovato le chiavi nella borsa di sua moglie…”.

Lui sgranò gli occhi come se davvero non sapesse di cosa si stesse parlando. Pontano sbuffò. “Guardi che una delle due firme autorizzate è la sua…”

            Anche il Calamai sbuffò, come se lo star lì a spiegare gli costasse un’immensa fatica.

“La cassetta l’abbiamo presa cinque o sei anni fa” disse, in tono annoiato, “mia moglie aveva comprato dei gioielli a un’asta giudiziaria e li teneva lì…”

            Quando poi era riuscita a rivenderli a un avvocato di Perugia, eccitata da quel piccolo guadagno, immaginandosi subito chissà cosa, aveva voluto continuare a tenere la cassetta di sicurezza.

            “E il quadro?”

            “Sinceramente non so proprio di quale quadro stia parlando. Ce l’avrà messo lei, quella sognava gli affari anche di notte!” disse, facendo capire che a lui della cassetta di sicurezza, del quadro, e dell’antiquariato in genere, non gliene fregava niente. Era una cosa soprattutto di sua moglie, per lui era un lavoro come un altro, niente di più. Guardò il commissario come chiedendosi che diavolo volesse da lui, il perché di tutte quelle domande noiose, come se avesse già dimenticato che sua moglie era stata uccisa e che ci fosse un’indagine in corso.

In quel momento entrò sua sorella.

“Scusate” disse, irrigidendosi sulla porta, riconosciuta la mole del commissario.

            “Prego signora, venga… entri… stavamo solo chiacchierando…”

            Lei andò subito a baciare suo fratello sulla guancia e gli domandò premurosa:

“Come ti senti? Ero passata anche stamattina ma non mi hanno fatto entrare”.

            “Stavo chiedendo a suo fratello” disse Pontano, in tono ufficiale, interrompendo quel bel quadretto familiare, “se fosse a conoscenza del quadro depositato nella cassetta di sicurezza del Monte dei Paschi…”

            “Lui non ne sapeva ancora nulla” disse lei, guardandolo con tenerezza, come si trattasse di un pupo. “Quel quadro l’abbiamo comprato io e Carla. Avevamo fatto una specie di piccola società e sognavamo di mettere su un negozietto d’antiquariato. Il ritratto della cicciona, come lo chiamava lei, l’abbiamo trovato proprio qui ad Arezzo, alcune settimane fa, appena scaricato da un camion...”

            “Ed è un quadro di valore?” le chiese Pontano, facendo la faccia più stupida possibile.

Lei tirò fuori dalla sua borsa una scatola di Pavesini e li posò sul comodino.

”Dovevamo ancora fare delle ricerche, comunque è un quadro dell’ottocento e Carla pensava che ci avremmo ricavato almeno diecimila euro”.

            Suo fratello rizzò subito le orecchie come una lepre, sorpreso dall’entità della cifra.

“Non ci avrebbe rese milionarie” seguitò lei, “ma la nostra società sembrava partita subito bene! Pensi che l’avevamo pagato appena 800 euro!”

            Le scintillarono gli occhi come se sua cognata fosse ancora viva e il loro sogno possibile.

            Achille Calamai sembrò invece contrariato.

“Diecimila euro!” borbottò, “E pensare che mi ha sempre impedito di comprarmi la Mercedes Cabrio! Dicendo che non avevamo soldi!” si lamentò, esattamente come avrebbe fatto un bambino. Si voltò ora verso Tatorino ora in direzione di Pontano, cercando comprensione tra uomini: “Ne avevo trovata una bellissima” disse, rianimandosi, “un’occasione eccezionale! Solo dodicimila chilometri! Un gioiellino di colore nero… un vero schianto!”

            Si ributtò giù. Ancora incapace di farsene una ragione.

“Quando uno arriva a cinquantasei anni avrebbe il diritto di cominciare a godersi la vita” e ritornò sotto le lenzuola. “Mica siamo nati solo per lavorare!”

            Si girò dall’altra parte, intenzionato a dimenticarsi di tutto quanto.

            Sua sorella scosse la testa.

 “E’ proprio come un bambino piccolo” disse, ormai arresa a quella cosa, “ma non è cattivo…”

            Pontano tacque, a fatica.

“Mi conferma di nuovo il suo alibi, signor Calamai?”

            Fosco se ne restò voltato:

“Che alibi vuole che sia, commissario?” disse scocciato. “Gliel’ho già detto: prima di cena ho corso i miei soliti 12 chilometri e poi me ne sono tornato a casa…”

            Si era fatto una doccia, aveva cenato con la moglie, e quando lei era uscita per andare “in quella libreria di sfigate”, lui aveva guardato un po’ di televisione e letto un giornale sportivo, fino a quando la Polizia gli aveva telefonato e lui si era sentito male.

 

                                                        *

 

                                   Arezzo, sabato mattina.

Seduti dentro la pasticceria da Spumone, Tatorino e Raffaella stavano facendo colazione.

            “Domani dovrei fare un salto a Bibbiena ” le disse, “Ho una perizia sulla collezione del notaio Luigi Barbantini appena deceduto, i tre figli, prima di iniziare a litigare tra di loro, vorrebbero una stima esatta delle opere. Ti va di accompagnarmi?”

            Lei non parve molto entusiasta.

            “Magari, dopo, potremmo andare un po’ a zonzo per le Pievi dell’aretino, ci fermiamo a mangiare a Talla, andiamo a vedere il ponte di Annibale e poi quello di Sasso e”. Il suono del cellulare lo interruppe. Vide scritto: utente sconosciuto.

            “Pronto?”

            “Dov’è?”           

Dov’è, cosa?”

            Pontano soffiò, già innervosito.

 “Intendo: lei. Dove si trova in questo preciso momento?”

            Tatorino guardò Raffaella.

“Stiamo facendo colazione… siamo da Spumone e”.

”Allora  se ne resti fermo lì. Immobile. Passo io a prenderla. Lei cominci intanto a scusarsi con la sua fidanzata.”

            Tatorino abbassò le orecchie dispiaciuto, lei, ovviamente, intuì:

 “Forse dovresti farti assumere dalla Polizia di Arezzo…” disse, portando via con un sol morso, quasi metà del suo bombolone alla crema.

            Lui non disse niente perché non c’era niente da dire. Inzuppò tutta la sua brioche nel cappuccino, cercando di fare alla svelta.

            Quando uscirono trovarono già la vecchia Panda nera del commissario ad aspettare.

            “Mi spiace tanto di portarle via il fidanzato” disse Pontano, sapendo quanto quell’aggettivo desse fastidio a Tatorino.

            “Il mio fidanzato” replicò Raffaella, “vorrebbe fare domanda nella Polizia ma è timido e non ne ha il coraggio. Non potrebbe metterci una parolina buona?”

            “Onestamente non sapremmo proprio che farcene di lui” ammise Pontano, squadrandolo. “Vuole che le diamo un passaggio da qualche parte?”

            “No, grazie. Ho il computer portatile guasto e devo portarlo subito dal dottore…”

            Pontano scosse il testone. Tatorino guardò Raffaella:

 “Ti chiamo appena ho fatto.” le disse, facendo la faccia di chi, volente o nolente, era costretto a ubbidire.

            “Vedrai che mi trovi al negozio di Michela“ disse lei, come se avesse già digerito tutto, “Sono appena arrivate delle borse vintage, bellissime, e questa è la mattina giusta per farsi un regalo. Vuole che gliene scelga una anche per sua moglie?” disse piegandosi verso il commissario. Lui grugnì, subito imbarazzato, diede un potente colpo d’acceleratore per far capire a quel bradipo in giacca e cravatta, di sbrigarsi a salire, poi lo guardò con rabbia, per quella sua lentezza a volte davvero esasperante.

            Tatorino prese posizione dentro la scatoletta, piantò le unghie nel sedile, e sorrise al commissario per autorizzare il decollo. Lui allora rilasciò bruscamente la frizione e fece la sua solita partenza con strappo.

            Due secondi dopo erano già in fondo alla strada.

            “Il Magistrato vorrebbe emettere un ordine di carcerazione nei confronti della signora Elsa Calamai” disse sterzando, cambiando di marcia, e buttandosi all’improvviso in una stradina a traffico limitato. Tatorino deglutì. “Abbiamo degli elementi a suo carico” seguitò il commissario, “ma prima vorrebbe parlare con lei.”

            Scalò con violenza le marce per prepararsi a una ripida salita, e poi, quando ne ebbe passato il culmine, lasciò andare la macchina dall’altra parte come fosse un corpo morto, facendola sobbalzare sulle vecchie pietre del selciato medievale, poi infilzò di nuovo, a forza, la seconda, poi la terza, e la quarta.

             “Mi raccomando” disse, con tono davvero minaccioso, mentre tentava di girare verso Via Guido Monaco senza dover scalar di marcia, “non si metta a fare il cretino!”, l’auto si inclinò di lato, “perché il Magistrato Cossu ha davvero poco senso dell’umorismo!”. L’auto in due microsecondi passò dalla velocità della luce, allo zero, inchiodando davanti alla libreria “Il ciliegio”.

            “Tra poco dovrebbero arrivare anche la signora Calamai e il suo avvocato.”

            Scesero. Pontano salutò la donna agente ferma davanti la porta della libreria e fece segno a Tatorino di sbrigarsi, poi entrarono.

La Bianca Milani stava parlando con una donna dall’aspetto altero e bellissima, quasi da mozzare il fiato, vestita con un tailleur giacca-e-pantaloni grigio chiaro e scarpe nere col mezzo tacco, dalla linea sobria, ma molto raffinata.

            Pontano salutò prima la Bianca Milani e poi, con un qualche evidente imbarazzo, quella che presentò a Tatorino come: “Il magistrato Alice Cossu.”.

            Lei, sbrigativa e scontrosa, disse subito:

 “Buonasera Dottor Tatorino, il commissario mi ha riferito che lei ha visto la signora Elsa Calamai proprio la sera dell’omicidio, qui, nella libreria, giusto?”

            Tatorino esitò. La Bianca Milani sussurrò: “Scusate, tolgo il disturbo.”, salutò tutti, sorrise a Tatorino e, a passi incerti, un Bambi tra i cespugli di rovi, si allontanò.

Il magistrato Cossu, rimasta immobile in attesa, stava aspettando una risposta chiara e definitiva da Tatorino che, onestamente, ce la stava mettendo proprio tutta per dire qualcosa ma si era incantato, come davanti a un capolavoro del Vermeer.

            Quello che rapiva di lei era il suo insieme: i lunghi capelli corvini, il disegno del volto perfetto, gli occhi dal leggero taglio orientale appena truccati… Una perfezione così naturale che rendeva quella sua bellezza pulita, lieve, priva di ogni ostentazione.

            L’anno scorso a Marienbad, pensò Tatorino, ricordandosi di Delphine Seyrig, l’attrice francese nata in Libano, che aveva recitato nel film di Alain Resnais.

            “Ha finito?” gli domandò lei, irritata. Senza nascondere il fastidio per quello stupido imbambolamento.

            “Mi… mi scusi…” balbettò Tatorino che non si era accorto di trovarsi in stato di trance. “Si sieda.” lo pregò, innervosita. Sperando che lo star seduti migliorasse le cose.

            Tatorino s’impose di concentrarsi: le spiegò, ma cercando di non guardarla, che ricordava la signora Calamai benissimo soprattutto per quella sua pettinatura anni ’60.

            “E’ una parrucca.” disse il magistrato, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Tatorino alzò un sopracciglio come a dirle: questo l’avevo capito anch’io!, lei però lo fermò:

“Vada avanti.” disse, decisa a far presto.

            “Ieri sera avevo avuto la sensazione di conoscerla già e”. “E quindi?”         

   “Poi ho saputo che si tratta della sorella di Fosco… ed effettivamente si assomigliano molto e”. “E per Fosco, lei intende il signor Achille Calamai, immagino.”

            “Sì. Io lo conoscevo con quel soprannome, nell’ambiente antiquario tutti lo chiamano così”.

            In quel momento entrò nella libreria Elsa Calamai seguita dal proprio avvocato.

            Il magistrato si alzò, andò incontro ai due, salutò la signora e poi l’avvocato, e rimase a parlare con loro per alcuni istanti.

            “L’ho fatta chiamare per chiederle un favore” disse, rivolta alla signora Calamai, “potrebbe mettersi, per cortesia, nella stessa posizione nella quale si trovava ieri sera?”

            Elsa Calamai alzò le sopracciglia e guardò spiazzata l’avvocato.

            Il magistrato si scusò:

“Mi creda: non le stavo tendendo un tranello” disse, “non deve preoccuparsi, si metta laggiù, in piedi, dopo l’ultima fila di sedie, quasi con le spalle contro il muro”.

            La signora Calamai raggiunse il fondo della sala.

            “Le chiedo un’ulteriore cortesia” disse, alzando appena il tono della voce, “quando le passerà davanti il Dottor Tatorino dovrebbe asciugarsi gli occhi con un fazzoletto“.

            Elsa Calamai sembrò innervosirsi. Lei le fece ancora segno di stare tranquilla, guardò l’avvocato e gli disse: “Poi capirà il perché di queste mie richieste… Solo un attimo di pazienza.”

            L’avvocato fece segno di sì alla sua assistita, e lei, un po’ impacciata, si appoggiò al muro e cercò un fazzoletto dentro la borsa.

            Tatorino nel rivederla lì in piedi ebbe la conferma definitiva che la donna vista la sera precedente, era proprio lei, senz’ombra di dubbio.

            Rifece il breve percorso per raggiungere il bagno e le passò davanti. Lei fece il gesto di asciugarsi gli occhi, lui la oltrepassò, arrivò alla porta della toilette e si voltò.

            “Allora?” abbaiò Pontano, impaziente. “Ci conferma di aver visto la signora Elsa Calamai la sera dell’omicidio?”

            “Sì…“

            “Ma cosa sta dicendo?“ sbottò la signora Calamai, guardandolo sbigottita. “Io non mi sono mossa da casa… ma… è impazzito?”

            “La prego. Non adesso.” intervenne il magistrato, poi tornò su Tatorino: “Non la vedo del tutto convinto…”

            Tatorino esitò.

“E’che nel rivedere la scena ho la sensazione che mi stia sfuggendo qualcosa ”

            “Insomma: è lei, o no?” ringhiò Pontano, irritato da tutto quel tentennare.

            Tatorino si massaggiò la mascella, pensieroso.

“Potrebbe, per gentilezza, spiegarsi meglio?” chiese il magistrato facendo appello a tutta la sua infinita pazienza. “Cos’è che non la convince?”

            “Non lo so, è sicuramente lei la donna che ho visto ma…”

            Tatorino se ne restò sospeso così, tra la terra e il cielo.

            “C’è anche un’altra cosa…” disse, cercando di prendere tempo, “ieri ho fatto una ricerca più accurata su Achille Emperaire… si sanno poche cose su di lui, e come pittore non ha mai raggiunto nessun tipo di fama, né da vivo né tantomeno da morto…”

            E’ da vent’anni che un suo quadro ad olio non appare più in un’asta importante e, tolto qualche disegno e qualche sanguigna, in vendita non si trova nulla da tempo.

           "Non si può certo definire un pittore commerciabile…” disse, “le opere a disposizione sono poche e difficili da vendere anche in Francia, figuriamoci in Italia. Se non fosse stato per il ritratto che gli ha fatto Paul Cézanne non “.

“Ci sta facendo la lezioncina?” lo interruppe malamente Pontano.

“Mi lasci finire.“ disse lui, irritato, sentendo gli occhi del magistrato che lo stavano scrutando. “Intendevo dire che, tenerlo in una cassetta di sicurezza, mi sembra un’esagerazione e… ma è solo un’idea…”

Il magistrato Cossu, accortasi che l’avvocato della signora Calamai si era avvicinato per ascoltare, pregò il commissario e Tatorino di allontanarsi con lei di qualche passo.

            “Allora?” disse, abbassando la voce.

            “Diciamo che vi consiglierei di fare un esame radiografico sul quadro.”

            “Le cose, in genere, si fanno se hanno un senso” borbottò Pontano, non molto convinto. “Lei cosa ne dice Dottoressa?”

            “E’solo un’ipotesi, ma visti i pochi elementi che abbiamo per adesso, non possiamo permetterci di tralasciare niente. Chiederemo al laboratorio di effettuare delle analisi multi spettrali, magari potrebbe saltar fuori il movente di questo strano omicidio”, poi ritornò a quello che in quel momento gli premeva di più:

“Allora, Dottor Tatorino, era la signora Elsa Calamai o no, la donna che ha visto in libreria?”

 “Avrei bisogno di uscire fuori a fumare una sigaretta” disse lui sperando in un time-out. Agitato come il giorno dell’esame di Stato. Si allontanò scusandosi, evitando di guardare negli occhi il commissario.

Dall’ombra gli comparve accanto la Bianca Milani:

“Volevo darti una cosa” gli bisbigliò. Lui attese, impaziente di poter fumare. Lei gli consegnò un invito.

“La libreria è ancora sotto i sigilli della Polizia e quindi ho pensato di spostare di due settimane l’evento programmato per giovedì prossimo. Ho corretto io, a mano, la data dell’invito” disse, esangue, forse provata da quel lavoro manuale.

            Tatorino le promise che sarebbe venuto sicuramente, poi le sorrise e uscì di corsa, bisognoso d’aria aperta.

            Sul marciapiede salutò di nuovo l’agente donna, si accese una sigaretta e dette una lunga intensa boccata di fumo, guardando davanti a sé la vita aretina che gli scorreva tranquilla davanti…

            Una mamma che sgridava il proprio cittino, un vecchietto che stava mostrando al giornalaio un cesto di funghi: quasi due chili di porcini che doveva aver trovato sicuramente dalle parti di Palazzo del Pero, in quei boschi ricchi di querce, lecci e abeti, dove nascevano i migliori funghi aretini, e un vigile che si apprestava a multare un grosso Suv, parcheggiato in un’area di sosta per disabili.

            Senza pensare, mise una mano in tasca della giacca e tirò fuori l’invito che gli aveva appena dato la Bianca Milani. Lesse ad alta voce:

            “Ci son dei giorni smègi e lombidiosi / col cielo dagro e un fònzero gongruto / ci son meriggi gnàlidi e budriosi / che plògidan sul mondo infrangelluto, / ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi…”

            “E’ un invito per una serata di poesia…” disse subito all’agente vedendola che stava sorridendo per quelle parole così strambe.

            “Sono Poemetti, suoni e parole strane di Fosco Maraini… tratti dal suo libro Gnòsi delle fànfole…”

            Lo Tsunami gli arrivò in quel momento da dietro: il commissario lo agguantò sottobraccio e come un’onda anomala se lo trascinò via.

            “Venga. Per favore. La riaccompagno subito dalla sua fidanzata.”

            Tatorino perse la sigaretta di mano.

“Dovrei salutare il Magistrato e…”. “Lasci perdere il magistrato, per favore!“ disse Pontano incazzato nero. “Quando quella s’innervosisce diventa d’una pignoleria insopportabile e lei, fino ad ora, l’ha fatta solo innervosire”

            “Io? Ma se non ho”. ”Lei deve sempre -ogni volta- mettersi a fare il piacione” ringhiò soffiando come un bue infuriato, depositandolo davanti allo sportello della macchina.

            Tatorino cercò invano di spiegarsi.

“Al magistrato piacciono le donne, è chiaro?” disse il commissario, digrignando i denti e cercando di abbassare la voce. “Ora che lo sa: bene. Si metta l’animo in pace e non faccia più il cretino”

            …

            “Ma soprattutto se ne stia zitto!“ latrò, anticipandolo. “Non voglio più sentire nulla su questo argomento”

 

                                                                                                                      Fine seconda puntata

© 2008 - Massimo Cavezzali e Sauro Ciantini

http://davidetatorino.blogspot.com

I libri “I casi di Davide Tatorino” intitolati:

Una busta per Grace e La collana di pulcini d’oro,

sono editi in Italia da Neftasia Editore.