Il commissario Soneri è approdato su Rai Due nella serie di sceneggiati Nebbie e Delitti, nel novembre 2005, con il volto di Luca Barbareschi. Nei panni di Angela, la compagna di Soneri riflessiva e intelligente, la donna che forse ogni uomo vorrebbe al suo fianco, c’è Natasha Stefanenko. Il prossimo libro di Valerio Varesi uscirà agli inizi di novembre e sarà un poliziesco con Soneri. Il tema di fondo sarà il terrorismo e la sua genesi a partire dalla nascita di un piccolo gruppo di fuoco in un paese desolato del Po.

Oggi Varesi, oltre che scrittore affermato, continua il suo lavoro di giornalista alla redazione bolognese di La Repubblica. E dal momento che Varesi non indietreggia quando lo si invita alla riflessione, non sono riuscita a resistere alla tentazione di porgli domande che partissero dalle frasi più significative dei suoi romanzi, per spaziare, dalla pagina scritta, a piccoli assaggi esistenziali. E valermi della sua predisposizione filosofica per sondare insieme a lui una visione della vita che, dalla finzione narrativa, arriva a lambire la realtà.

«La città nella nebbia, soprattutto. La città senza più una dimensione certa, nel suo cuore ricurvo di vicoli, dove un cielo d’acqua deforma come una lente mal tornita le distanze, trasformate in prospettive ingannevoli» (L’affittacamere). In un momento in cui va di moda la letteratura prosaica è coraggiosa la scelta di non rinunciare alla poesia?

Forse vado controcorrente, ma continuo a pensare che una prosa di qualità, benché piegata alle esigenze di ritmo e di rappresentazione di un romanzo, sia ancora ben riconoscibile da un lettore di qualità. Non va dimenticato che un testo deve sedurre, affascinare, creare musicalità nell’orecchio di chi legge. Se così non fosse, scriveremmo romanzi tutti con lo stesso passo narrativo e con una sorta di lingua standard.

E che fine farebbe, a questo punto, lo stile? Credo che se uno si cimenta con un romanzo, non deve mai dimenticare che la forma è il contenuto.

«Un commissario doveva sapere che ogni persona può avere una storia da raccontare» (L’affittacamere). Soneri è dotato di questa capacità d’ascolto che oggi si va perdendo.

Va perdendosi perché oggi si pensa che un delitto si possa sempre risolvere con gli strumenti scientifici. Si crede che i Ris riescano a risolvere tutto coi loro microscopi. L’indagine, dall’ascolto, dalla ricostruzione delle motivazioni del delitto, dalla paziente ricostruzione dell’ambiente, patrimonio di un’indagine classica, si sposta sempre più verso la minuziosa spigolatura dei reperti organici e delle tracce lasciate dall’assassino. Lavoro utile, ma non risolutivo. La prova è che quasi mai le indagini scientifiche portano alla prova schiacciante. Si va quasi sempre a costruire una serie di indizi lasciando poi alla Corte nell’aula di giustizia l’onere della decisione se siano sufficienti o no.

«Non c’era dubbio che il mondo si stesse avviando verso la barbarie» (A mani vuote). Allora sono veritieri i proverbi, si stava meglio quando si stava peggio?

Non sono nostalgico. Voglio solo dire che un po’ di anni fa erano più presenti nella nostra vita le idealità. Ciascuno si sceglieva un orizzonte dentro il quale incasellare la propria vita. Questo orizzonte era un sistema di interpretazione del mondo sostanzialmente di matrice filosofica. Le società erano così formate da gruppi che si riconoscevano in idealità le quali, tradotte in politica, organizzavano la nostra vita. Oggi a organizzare la nostra vita c’è solo l’economia, il denaro eretto a unico parametro e per conseguenza il nostro futuro è cieco, privo di prospettive ideali. La barbarie è anche questa via senza uscita che conduce solo alla disperazione, alla totale assenza di speranza.

Il rapporto con Angela riveste la relazione di un interesse letterario che altrimenti non sussisterebbe se si trattasse di un matrimonio felice. Però delle volte lui innervosisce il lettore (anzi, la lettrice).

Capisco che non tutte le donne vorrebbero avere accanto uno come Soneri. È un tipo difficile, ma anche vero, genuino. In un mondo pieno di personaggi banali, forse si può pagare anche lo scotto… Non sarebbe ben peggio un uomo tutto preso dai problemi aziendali che alla sera legge ‘Il sole 24 ore’?

«(Lui:) Sono un anarchico e un randagio… anche tu, del resto. (Lei:) Passiamo il tempo ad annusare le nostre tracce nella speranza d’incontrarci ogni tanto» (L’affittacamere). Lei passa con disinvoltura da constatazioni sempre molto dignitose sul loro rapporto a suggerimenti investigativi. E’ una sua via di fuga?

No, è un’esigenza ineludibile del romanzo poliziesco. E’ sempre difficile far coabitare qualcuno che non c’entra con l’indagine con un personaggio centrale e seriale qual è Soneri. Prova ne è che i principali investigatori letterari hanno rapporti di lontananza con le loro compagne (Maigret, Montalbano) o hanno storie saltuarie con donne che restano sullo sfondo. Logico, quindi, che Angela interagisca un poco con l’indagine del compagno anche in virtù del fatto che è un avvocato.

«Quel che facciamo da un certo punto in poi della vita è cercare di riempire il vuoto che ci si para davanti. Per questo progettiamo, ci poniamo dei traguardi, corriamo per raggiungerli… Mi sembrano ridicoli anche gli assassini, nella loro smania di affermare se stessi. Se solo sapessero…»(L’affittacamere) Se solo sapessero cosa?

Eh… che c’è un fondo di assurdità nella vita dal momento che il tempo macina tutto e anche noi, per dirla con Soriano, ‘ben presto un’ombra saremo’. Da questa prospettiva, la vita e ciò che facciamo non può non parerci vana e assurda. E’ una delle conclusioni in cui s’è infilato l’esistenzialismo di Heidegger senza più riuscire a uscirne.

Solo la prospettiva religiosa ci salva. Camus aveva provato a dare una soluzione giustificando in qualche modo Sisifo e il suo inane gesto. Ne sono usciti splendidi romanzi, ma non è riuscito a essere risolutivo calmando il più grande rovello umano.

Quando dici che solo la prospettiva religiosa ci salva: qual è la tua prospettiva religiosa?

Io, per ora, non posso contare su una prospettiva religiosa. Sono nel dubbio. Dico, tuttavia, che chi ha il dono della fede ha risolto tutti i problemi esistenziali perché si proietta in una dimensione che scavalca ampiamente il senso di assurdità che ci attanaglia. Nel suo caso il baricentro è oltre questo mondo in una trascendenza che salva. Ma per gli altri (e sono l’assoluta maggioranza, consapevole o inconsapevole) non c’è una soluzione. Salvo quella di non pensare in prospettiva, di vivere la vita come qualcosa da spendere al meglio, come suggeriva l’anarchico Max Stirner, accettandone tutti gli aspetti: quelli buoni e quelli cattivi. Ho un amico che è partito da posizioni di comunismo estremista ed è approdato al saio. Lui ha trovato l’uscita di sicurezza dal vicolo cieco. Ma forse è più facile che la trovi uno così che un baciapile irrimediabilmente ateo.

La tua formazione filosofica trapela qua e là non solo nei dialoghi. Ma preferisco inquadrarla ora -rompendo gli schemi- sotto l’aspetto culinario. Scorre in te una vena epicurea?

Epicuro non era uno che propugnava i piaceri carnali nel senso triviale dell’oggi. Il suo motto era ‘vivi nascosto’, vale a dire non mischiarti alla chiacchiera, al cicaleccio e alla vanità delle cose umane, ma vivi distaccato da tutto questo e coltiva i piaceri dell’intelletto. Questa visione della vita filtrava ogni cosa, compreso il sesso e il cibo nobilitati in una visione del mondo dove ogni elemento aveva una propria giustificazione in un orizzonte ideale.

Il cibo, però, è sempre stato un componente della riflessione. Per così dire, la facilita, fa scorrere i pensieri. Non è un caso che i simposi di Platone fossero accompagnati da sontuose libagioni, molto vino e anche fumi d’oppio.

Ancora filosofia. «Ci si addormenta bambini e ci si sveglia già vecchi: quel che è successo in mezzo è solo un sogno convulso che svanisce presto». (L’affittacamere) Sei d’accordo con Oscar Wilde: «La vita è un brutto quarto d’ora ocmposto da momenti squisiti?»

Preferisco ribaltare questa visione. Non credo che la vita sia brutta, anzi. Io ne gioisco, ma penso che le azioni umane la rovinino proprio perché nessuno pensa che il nostro essere nel mondo è a tempo. Se riflettessimo sulla nostra condizione di esseri finiti e mortali, non avremmo quella stupida cattiveria che ha portato Sartre ad affermare: ‘l’inferno sono gli altri’.

«Soneri continuava a fissare la foto. Un momento di vita fermato per sempre. Era questo che gli piaceva della fotografia: quell’implicita ribellione al tempo che tutti proviamo» (L’affittacamere). Che rapporto hai col tempo?

Da uomo di mezz’età comincio a sentirlo stretto. Quando sei giovane non pensi che a crescere, vivi una condizione di spensieratezza perché non ti poni il problema di tirare le somme. C’è tempo, appunto. Puoi avere ancora tutto intatto anche se sbagli a scegliere. Nella mezz’età cominci a fare bilanci e scopri che è troppo tardi per molte cose. E poi la tua condizione cambia. Non sei più solo figlio, ma diventi contemporaneamente figlio e genitore.

Poi i tuoi genitori invecchiano, muoiono e con loro muore anche una parte di te, quella che loro ti riflettevano. E’ così la prospettiva cambia radicalmente e comincia una sottile angoscia che non ti molla più.

Mi piace tantissimo il fatto che Angela non venga descritta come una bellona. La cosa mi avrebbe annoiata molto. Invece hai conferito al personaggio una carica di carattere e sensualità delicata ma molto potente.

Mi piacciono molto le donne di carattere, quelle che hanno un fascino dovuto contemporaneamente al loro essere decise e sicure secondo canoni quasi maschili e, allo stesso tempo, con tutte le adorabili fragilità femminili. In Angela ho forse proiettato i miei gusti.

Così come mi piace molto il fatto che non vi siano scene di sesso esplicito. Fermo restando che, in generale, le scene erotiche potrebbero andar bene se avessero una loro funzione narrativa. In questo caso hai dosato le componenti con maestria.

Non c’è nulla di più attraente che alludere in materia di sesso. L’organo sessuale per eccellenza è il cervello e se lo si fa lavorare si ottiene una sensualità molto maggiore rispetto a una descrizione esplicita. Anais Nin è una maestra in quest’arte. Non c’è niente di più difficile che costruire un racconto erotico e niente di più facile che cadere nella banalità se non si è capaci di farlo.

«Anche noi stessi siamo un enigma se ci si guarda troppo dentro» (L’affittacamere). Tu in che rapporti sei col tuo enigma?

Dentro ciascuno di noi albergano più persone. Questo come dato di base. Inoltre ogni sera ci addormentiamo e ogni mattina rinasciamo un po’ nuovi. Se uno non è attento all’ascolto di se stesso, se trascura il precetto socratico di conoscersi, rischia di scoprirsi diverso da come credeva di essere e ciò può essere molto spiacevole.

Mi metto al riparo da questa eventualità con un continuo ripensamento su ciò che sono, ma la cosa non è sempre indolore.

Una tal Marta dice: «Quando vado in sala operatoria vedo di cosa siamo fatti: di visceri puzzolenti, di un’attrazione momentanea di composti che la vecchiaia devasta e di chimere o spettri. Null’altro». (L’affittacamere) Queste parole sarebbero potute anche essere state pronunciate da Soneri?

Anche da lui, certo. La Yourcenar ha magistralmente riassunto tutto questo nella straordinaria descrizione dell’imperatore Adriano davanti a chi lo stava curando: ‘E’ difficile restare imperatore al cospetto di un medico’. Lui, il divino, non è che un mucchietto d’ossa e carne flaccida infiacchita dalla vecchiaia e da una grave malattia. E’ un organismo che si sta inceppando per sempre. E’ così per il dottore che lo esamina.

«Soneri... non capiva perchè la solennità di tamburi e tromboni gli facesse sempre scappar da ridere» (Le ombre di Montelupo). E’ sottile la linea tra il solenne e il comico? Qual è il segreto per non oltrepassarla, in letteratura?

Sottilissima. Pensiamo a un’uniforme: la si può portare alla maniera di Alberto Sordi o in quella di Richard Gere. Credo che in letteratura aiuti sempre il senso della misura. A volte, certi autori, oltrepassano volutamente il confine per ottenere un effetto comico-grottesco. Pensiamo a Gadda o a Savinio, i cui esiti sapidamente satirici sono il risultato di un’ipertrofia della lingua e nel suo uso esageratamente (e magistralmente) solenne (‘Portava in testa un cappello che avrebbe fatto invidia al generale Alfonso Lamarmora’, Gadda).