Sembra la sceneggiatura di un film noir in bianco e nero questo Scomparsi a Urbino di Sonia Bucciarelli, giovanissima studentessa al suo esordio letterario.

La location è una cupa e misteriosa Urbino universitaria, popolata di presenze inquietanti, perfetta persino nella scelta della fortezza di Albornoz come lugubre simbolo della città.

La storia, a metà fra il romanzo nero e il giallo poliziesco, intercalata da improvvise incursioni filosofeggianti, interpreta bene la dimensione esistenziale di una generazione fragile, sospesa fra il timore del futuro e il disagio del presente.

Lo scorrere del tempo, inteso come elemento estraniante dalla vita, vissuto di volta in volta come sogno, morte, viaggio, è reso stilisticamente dalla scelta del tempo verbale presente e dai ricorrenti puntini di sospensione: il contingente diventa frammento dell’incontro fra passato e futuro, metafora dell’arresto momentaneo del tempo stesso, effimero intervallo della difficoltà di comprendere la condizione umana.

Il quotidiano si trasforma in un incubo per chi, in cerca della verità, trova intorno a sé solo finzione e alienazione. È il caso di Claudia, giovane ispettrice di polizia, incaricata di indagare sulle misteriose scomparse di studenti universitari. Traumatizzata dalla morte del suo compagno, vive ambiguamente tormentata e rassicurata dalla presenza di un’“ombra nera”; un’“anima dannata” che non vuole o non può escarnarsi del tutto la segue, le appare in sogno, le “vola” intorno, l’avvolge nel suo mantello.

Il tono cromatico ed emotivo del racconto è tutto racchiuso in un refrain vagamente lirico che sembra provenire da chissà quali altezze (o profondità?) per annunciare eventi luttuosi. Il fantasma della morte insensata e violenta aleggia sulla comunità degli studenti increduli, preoccupati dal succedersi degli eventi tragici che li coinvolge tutti più o meno direttamente.

Lontani anni luce dalla dimensione goliardica, questi giovani sono in realtà adolescenti alla ricerca di un modello di riferimento valido per edificare la propria identità e lo trovano nelle dimensioni artificiali o virtuali affidandosi alla chat, mentore moderno e confessore telematico che non concede assoluzione ma infligge penitenze crudeli. O forse, sedotti dal fascino della ritualità delle sette sataniche, sempre più numerose, cercano di soddisfare un innato bisogno di culto, nell’illusione di riconoscere in un altrove soprannaturale quel modello.

Il “doppio”, risvegliato, emerge e si manifesta come aspetto demoniaco dell’anima, prevalendo sulla parte positiva e causando la morte interiore e quindi fisica.

Nel finale la protagonista, dopo aver vissuto sulla propria pelle l’esperienza della soglia della morte e aver ucciso lei stessa nella più classica delle sparatorie, accoglie in sé l’entità del “suo” fantasma per ricominciare una nuova vita. Un epilogo, a ben guardare, a lieto fine solo dal punto di vista poliziesco: l’urlo notturno del refrain echeggia ancora e insinua nel lettore il dubbio che né Claudia né l’ombra che ormai la possiede troveranno pace.

Eppure lo sguardo rivolto verso un cielo “graffiato” o verso una natura spettrale lascia intravedere l’anelito alla redenzione, a una salvezza che è bisogno di esperire l’esistenza da un orizzonte spirituale per trasformare il senso di vuoto e l’oscurità psichica dei personaggi in un vitale, evolutivo sentimento del tempo e della vita, in una luce che ne accenda i colori.