Un sacco di domande mi si affollano in testa e un sacco di risposte vengono dietro: non è certo facile intervistarsi da sé. Ma è la mia vita da scrivente quella che devo raccontare, niente di più facile, mi dico, così dovrebbe essere, ma non lo è. Non sai mai da dove cominciare. Da quando un certo Luigi Naviglio (che Dio lo abbia in gloria) mi scrisse che il mio racconto era scritto in modo professionale? Naturalmente ho conservato la lettera. Vado a cercarla, devo pur dare una data precisa. Ma non trovo la busta dove l’avevo riposta. Era una busta trasparente, ne sono sicuro. L’ho talmente ben conservata che adesso non la trovo più.  C’erano anche le lettere di Gianfranco De Turris. Mi arrabbio, me la prendo con me stesso. “Le troverò” mi dico, già ma quando? Era sul finire degli anni ’70, 1978, 1979? A quel tempo non c’era la posta elettronica. E neppure il computer, se è per questo. Scrivevo con una vecchia macchina da scrivere manuale, poi diventata elettrica. Un tasto dietro l’altro. Faticavo a riscrivere le pagine. Non per niente sono un pigro. Comunque riuscii a scrivere un po’ di racconti, così brutti che inorridisco al pensiero di averli mandati in lettura a qualcuno. Non ho trovato le lettere che ho scambiato in quegli anni, ma in compenso ho trovato degli appunti che riguardano le cose che feci, i racconti che scrissi e dove li inviai, una specie di piccolo diario. Già fin da allora avevo la sensazione che prima o poi quelle note mi sarebbero venute buone. Me lo ricordo come se fosse ieri, perché venivo dalla lettura delle note personali di Asimov, che mi avevano divertito e incuriosito quanto i suoi racconti. Le mie, ovviamente, non lo sono altrettanto. Ma è un po’ come riguardare vecchie fotografie, brutte e sbiadite, che sono però la tua vita passata e le guardi con nostalgia e con un filo di benevole commiserazione.

La prima lettera che ho ricevuto da De Turris, leggo, è datata 21 luglio 1982. Un mucchio di anni fa. Mi fa sentire quasi vecchio. Con lui era venuto il premio Tolkien.  Avevo già partecipato alle prime edizioni, senza fortuna. Mi scrisse perché era interessato a un mio racconto. Bastava che io lo riscrivessi. Lo feci. Fu pubblicato anni dopo su un’antologia intitolata “Gli eredi di Chtulhu”. Era il 1990.

Nel frattempo avevo pubblicato un racconto sulla rivista “Dimensione cosmica”, sempre con l’editore Solfanelli, e un paio di raccontini (orribili) sulla fanzine “Verso le stelle”. Negli anni successivi ho continuato a partecipare al premio Tolkien gettando le basi di quello scrivente che poi sarei diventato.

E per questo devo ringraziare Gianfranco De Turris. E prima di lui Naviglio. Ma non solo. La vita di chi scrive (e non soltanto) è fatta d’incontri più o meno fortunati. Non soltanto di fatica, disciplina, sudore, letture, scritture e riscritture (Carver diceva che soltanto con la riscrittura si riesce a comprendere ciò che si vuole dire – fu lui o il suo insegnante di scrittura?). Un altro incontro definitivo lo faccio sul finire del 2003. Nel frattempo ho fatto altre cose. Ho partecipato a alcuni corsi di scrittura, ho scritto dei buoni racconti, uno dei quali ha vinto il premio Lovecraft. E nel 2003? Che è accaduto quell’anno? Ho semplicemente vinto il premio Lama e trama e questo mi ha dato la possibilità di conoscere Luigi Bernardi, una specie di leggenda vivente per il giallo/noir italiano.

1978/2003. E’ per questo che mi piace dire che la mia gavetta è stata lunga quanto per altri è lunga una carriera. Ma è del tutto vero? In quegli anni c’è stato anche altro: una moglie, un figlio, un lavoro. Tutte cose che ancora mi occupano. Non ho scritto con la disciplina che sarebbe stata necessaria. Non sono onesto quando mi lamento.

Luigi Bernardi è uno tosto. Non si accontenta facilmente. Non è di “bocca buona”. Con lui bisogna lavorare sodo, ma nel frattempo ho imparato. Anche se sono uno pigro. Ho imparato a riscrivere fino a vomitare. Adesso sono un po’ più disciplinato. Fatico di più. Ma adesso c’è il computer, per fortuna, anche se io continuo a usare il bloc notes e soltanto in un secondo momento riporto il tutto su un file. Soltanto queste paginette, che mi riguardano da vicino, chissà perché, mi accorgo che le sto scrivendo direttamente sul computer. Un portatile, per l’esattezza.

Forse perché, in questo caso, non ho bisogno di scalette, pensamenti e ripensamenti, quello che inseguo è una specie di magia. Che parlare di me mi esalti? Di solito, però, vado avanti a spintoni. Scrivo e riscrivo. E poi riporto sul computer. E poi riscrivo. E poi vado ancora avanti. Lo faccio seduto su un divano con il bloc notes sulle gambe, mica seduto dietro a una scrivania! E ricomincio la solfa. Ma è così che si fa, mi dico. Bisogna trovare sempre la parola giusta. Lo diceva anche Calvino, e noi scriventi dobbiamo guardare ai “Grandi”, c’è poco da fare.  Albinati, che ho frequentato nel mio primo corso di scrittura (gli altri che seguii in quegli anni, furono per lo più dei laboratori fatti con gli amici della scuola di scrittura Omero, ai tempi in cui cominciavano a muovere i primi passi all’interno dell’università La Sapienza di Roma), Albinati, dicevo, si raccomandava perché guardassimo in alto, molto in alto, il più in alto possibile, perché “soltanto cercando di raggiungere (e non imitare)” diceva, “i Grandi Scrittori e non i mediocri che si può sperare di combinare qualcosa di buono”. E nella nostra letteratura di Grandi ne abbiamo in abbondanza. E’ forse per questo che mi è venuta una specie di idiosincrasia per quegli autori italiani che scimmiottano gli anglosassoni?

Un momento, un momento: ma siamo sicuri che fosse questo quello di cui avrei dovuto parlare? O, piuttosto, avrei dovuto dire di me come uomo? Delle mie preoccupazioni, dei miei interessi, dei miei disinteressi. Del mio quotidiano, insomma.

E se lo facessi adesso? E’ troppo tardi? Ho già preso troppo spazio per il me scrivente? Ma si sa, chi scrive è un narcisista.

Gli piace essere “bello” per le cose che scrive, naturalmente. E io non sono da meno.

E poi sono un eterno indeciso. Parto per una via e poi svolto per la  tangente. Non è così che si dice? Lo faccio mille volte al giorno. Per tutte le cose. Così lo faccio anche qui, anche adesso. Ho l’insicurezza degli ansiosi. E non mi decido se mi piace di più il dolce o il salato (il salato, senza dubbio, il salato, mi convinco, d’altra parte la pasta non fa parte del salato?). Sono pigro e ogni mattina, prima di andare in ufficio, faccio un’ora di piscina. Amo scrivere e quando lo faccio smanio e quando non lo faccio, smanio lo stesso e in più mi sento colpevole (di che, poi, non l’ho ancora capito). Allora per di più cerco di farlo. A volte osservo la vita dal punto di vista del bicchiere mezzo pieno. Altre da quello mezzo vuoto. A volte la “osservo”, appunto. Altre la vivo. Sono dei pesci, d‘altronde, doppia personalità. Eppure sono fermo su certi valori, quelli di una volta: l’amicizia, l’onore, il dovere, cose così, insomma, sarà forse perché sono figlio di un ex carabiniere? Il mio maresciallo Dioguardi. Lui ha l’occhio dello straniero. Osserva una cultura che non gli appartiene, ma cerca di capire, ha questo di buono.

La Sardegna sul finire degli anni ’60, un pezzo di luna caduto nel Mediterraneo, come scrisse uno dei suoi figli più grandi: Giuseppe Dessì. Mi ricordo che incrociando altre macchine in quelle lande sperdute, gli occupanti si sbracciavano a salutare, strombazzando. Come per la caccia grossa, col cinghiale sul cofano. Erano i primi anni ’70.  

La Sardegna era ancora un posto  da conquistare. Una specie di “Ultima frontiera” (sarà mica il Western cui ha alluso Bernardi parlando di ciò che verrà dopo il giallo?)

Per la scrittura non ho segreti particolari, né seguo riti scaramantici. L’idea la  rimugino per un po’, poi mi attrezzo, faccio ricerca e alla fine parto. Faccio delle scalette, che poi, puntualmente, perdo. Le rifaccio.  Mi dànno la traiettoria. Le cambio lungo la via. Le abbandono. Il romanzo lo lascio e lo riprendo. Intanto faccio altre cose.

Per lo più racconti. E intanto perdo il romanzo, almeno il file con le ultime correzioni. Ma in compenso ho scritto un mucchio di racconti. Alcuni con gran fatica, altri no. La scrittura è comunque faticosa. Di più se si è disordinati, come me. Non date retta a chi dice il contrario. Ma dà grandi soddisfazioni. E nessuno scrive per sé. Nemmeno a questa chiacchiera date retta. E’ semplicemente una favola. Si scrive per essere letti. E a proposito di leggere: io leggo moltissimo, a ogni momento in cui mi è possibile. Un consiglio che do caldamente. Tre, quattro libri contemporaneamente. (Non è un consiglio: lo faccio io!). Non amo i volumi che superano le 300/350 pagine. Mi piace cambiare autore e rifiuto quelli che mi obbligherebbero a stare su di loro per troppo tempo.

In casa sono un totale incapace, una specie di Fantozzi, insomma, così se con le mani provo ad aggiustare qualcosa, si può star certi che con i gomiti ne rompo un’altra. E mia moglie mi sopporta da ben 31 anni. In compenso mi dà un po’ del suo tempo e mi traduce le parti in dialetto sardo (a proposito: è per causa sua se scrivo noir, visto che a un certo punto si è rifiutata di leggere le mie cose di fantascienza, per cui se a qualcuno venisse in mente di reclamare, sa a chi si dovrà rivolgere).

Non ho il senso dell’orientamento e dimentico i posti dove sono stato, sicché a nessuno venga in mente di chiedermi località della Sardegna. Dimentico pure nomi e fatti e non è l’alzheimer. Almeno spero. Ma intanto sono diventato la barzelletta dei miei amici, compresi gli autori del gruppo RomaGialloFactory cui faccio parte. Un bel gruppo, vi garantisco.

Basta? Un’ultima cosa: Brahms, all’età di 57 anni, disse che era ormai abbastanza vecchio per aver detto tutto quello che aveva da dire (lasciamo stare che poi abbia, in realtà, composto qualche altro capolavoro), be’, io non sono Brahms.