Una domanda d’obbligo a ogni autore: perché hai cominciato a scrivere storie gialle? E, in particolare, come è cominciata la tua “carriera” di giallista?

Non per calcolo, ma, come spesso capita, per caso: per accontentare mia moglie, mia prima lettrice, che dopo aver pazientemente letto cose per la quali provava poco interesse, mi ha espressamente chiesto un giallo, genere che predilige. In questo modo è nato il mio primo racconto, Sa morte secada, che ha poi costituito il nocciolo del mio omonimo romanzo. E visto il favore con cui è stato accolto ho insistito e nel 2003 ho partecipato al concorso Lama e Trama di Maniago vincendo il primo premio con il racconto ’O fieto e ‘o curtiello…. E’ un racconto in dialetto napoletano e ambientato in un basso. Mi piacciono i dialetti, credo siano più efficaci nella descrizione di una quotidianità. In quell’occasione conobbi Luigi Bernardi, giornalista, scrittore, saggista, sceneggiatore, critico fumettistico, in anni passati anche editore e, non ultimo, scopritore di autori (Lucarelli, Fois, Vallorani, Ferrandino e altri). Era il presidente della giuria. Il giorno dopo prendeva il mio stesso treno. Mi feci coraggio e gli parlai del romanzo che tenevo nel cassetto. Glielo mandai per posta elettronica e poco tempo dopo mi scrisse per dirmi che gli era piaciuto. E’ nata così, diciamo in treno, la pubblicazione di Sa morte secada con l’editore Dario Flaccovio di Palermo, per il quale allora Bernardi era consulente per la narrativa italiana. Come vedi, anche nella scrittura, come nella vita, occorre molta fortuna.

Fai parte di un gruppo romano di scrittori di noir?

Faccio parte di Roma giallo Factory, nata nel 2007, insieme a Biagio Proietti, Massimo Pietroselli, Giulio Leoni, Luigi De Pascalis, Maurizio Testa, Sabina Marchesi e Massimo Mongai. Se ne stanno aggiungendo altri. Il gruppo vorrebbe aprirsi anche ad autori non romani.

Perché hai ambientato entrambi i tuoi romanzi in una Sardegna degli anni sessanta, aspra, selvaggia non soltanto nel contesto naturalistico ma soprattutto nel carattere dei personaggi?

Gli anni sono quelli delle grandi trasformazioni sociali. In Sardegna, in particolare, si cercò d’imporre l’industrializzazione in un tessuto da sempre agro-pastorale, nella convinzione che, in questo modo, si potesse sradicare il banditismo. Furono gli anni delle industrie petrolchimiche. Vere e proprie “cattedrali nel deserto”, visto che non c’erano le infrastrutture necessarie. Io non so se fu una scelta dettata semplicemente dalla cecità, o da qualcosa di peggiore (un assessore regionale disse: “Non dimentichiamo che il petrolio è un olio: unge!”), o da altro, magari di più nobile, ma so per certo che ogni imposizione, brutale per giunta, non è mai giusta.

Se il noir per definizione si focalizza sul punto di vista della vittima, occorre considerare che ogni destino è sempre figlio delle circostanze sociali. Ecco, a me piaceva osservare le circostanze sociali di un popolo, quello sardo, in un momento particolare della sua storia, la fine degli anni ’60, appunto.

I personaggi sono finalizzati alle storie. Il maresciallo Dioguardi è un po’ come me, un “forestiero”, un campano, quindi per definizione un emarginato. Nonostante ciò è pieno di cliché e di pregiudizi, questo per dire che c’è sempre un Sud che sta più a Sud di ogni altro Sud. All’inizio è disorientato, non capisce la mentalità degli isolani, ma proverà a comprenderla e, tutto sommato, ciò che conta è proprio questo suo tentativo. Gli altri personaggi rispecchiano i tempi e i luoghi: sono aspri, sanguigni, spigolosi, ma certo veri, umani.

Un’umanità, quella sarda, a quel tempo guardata con sospetto e diffidenza, considerata addirittura primitiva nelle sue espressioni sociali. Erano preconcetti figli di quella teoria positivista di fine Ottocento del Niceforo che aveva stabilito che la razza sarda, almeno quella di Nuoro e dintorni (la cosiddetta “zona delinquente”), fosse destinata al banditismo per genìa. E perciò, in un certo senso, “maledetta”. Tutto questo non ci ricorda qualcosa di pericolosamente attuale?

Ai nostri lettori dobbiamo far sapere che “Sa morte secada” ha avuto un grande successo di critica e di pubblico, entrando nel 2004 fra i finalisti al prestigioso premio Scerbanenco di Courmayeur. Vuoi parlarci un po’ più diffusamente del tuo secondo libro, “Un’altra verità”, accennando anche alla tecnica di scrittura utilizzata?

Come il precedente e come l’antologia che seguirà io lo definisco un noir antropologico: onore e violenza, responsabilità e sopraffazione, religiosità profonda e indifferenza al male.

Luogo della vicenda è Bonela, un piccolo paesino sardo e il tempo del racconto è il 1969, l’ anno dell'omicidio Lavorini a Viareggio, primo caso di “omicidio mediatico”, e dei fatti di Pratobello, la rivolta popolare degli abitanti di Orgosolo contro l'occupazione militare di tredici mila ettari di pascoli. Anno di svolta, dunque. E’ una Sardegna arcaica ed occulta, lontana dalle coste, pagana e terribile, fatta di terra e di sangue. Una Sardegna che Dessì, il suo maggiore scrittore, definì poeticamente “un pezzo di luna caduto nel Mediterraneo”. Così refrattaria alle influenze esterne, che l’archeologo Lilliu, per darne l’idea, formulò una specie di postulato: “costante resistenziale sarda”. In questo contesto arcaico-pastorale il maresciallo Carmine Dioguardi si trova a indagare sull'omicidio cruento del pastore Narciso Aggius, lo “scemo del villaggio”, che però ha ricevuto dalla natura una dote particolare. Storie di quotidiana meschinità che si mescolano con quelle di antichi riti pagani. Dov’è la verità? Il maresciallo Carmine Dioguardi inizia una difficile indagine per scoprire alla fine che niente è come sembra.

Un’altra verità, infatti, è quella che sta sempre dietro l’angolo. Tema suggestivo che ha da sempre interessato la letteratura, Pirandello docet. Ma già ai tempi di Pirrone, per il quale “a ogni ragione se ne contrappone sempre un’altra di uguale valore”, per poi negare addirittura che ci possa essere una qualsiasi verità. Ignoramus et ignorabimus, motto con il quale veniva definitivamente sancita la negazione di tale possibilità.

Quanto alla tecnica di scrittura, è finalizzata alla narrazione. Più punti di vista che si alternano e che talvolta, addirittura, osservano la stessa situazione, più storie che si innestano una nell’altra e che fanno di “Un’altra verità” un romanzo corale o a “matrioska”, come qualcuno l’ha amabilmente definito. E visto che siamo in vena di definizioni, mi piace ricordarne altre due che riguardano i miei romanzi: “pongono domande e non danno risposte” (sono sempre le domande che arricchiscono); “Non hanno una struttura lineare” (ma non sono in questo modo i nostri pensieri? La vita reale?). E siccome a dare queste due definizioni è stato Luigi Bernardi, io credo che non potrebbero esserci migliori complimenti.

Cosa hai in cantiere? Un’altra storia con il maresciallo Dioguardi?

Il mio prossimo libro sarà un’antologia composta da quattro racconti e un romanzo breve in uscita a maggio con la Hobby & Work con protagonista ancora il mio Dioguardi.

Poi il mio maresciallo se ne starà tranquillo per un po’. A chiusura del ciclo ho in progetto un ultimo romanzo, ma questo più in là.

Nel frattempo sto scrivendo un romanzo ambientato a Roma negli anni ’50. Prende spunto da un fatto realmente accaduto nel ’55. Si tratta soltanto di uno spunto, tant’è che non soltanto i nomi dei protagonisti sono inventati, ma persino il luogo è immaginario. Roma fa da sfondo reale.

E se il maresciallo Dioguardi è un uomo assolutamente normale, al punto che ha esplicitamente le sembianze di Carlo Romano, un caratterista del cinema degli anni ‘50/60 che ha impersonato la figura dell’italiano medio, il commissario di questo romanzo andrà oltre la mediocritas: sarà meschino e ipocrita. Con l’aggravante di non esserne cosciente.

Sulla “normalità” del mio maresciallo voglio ricordare quanto scrisse Sciascia nel suo capolavoro A ciascuno il suo: “Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso. E un po’, soltanto un po’, l’acutezza degli inquirenti.”

Questo non certo per denigrare la polizia, ma soltanto per dire che anche i poliziotti appartengono alla categoria della gente “normale”. Nella realtà, di solito, i super-poliziotti non esistono. Per me è stata una specie di illuminazione.

Quanto al romanzo che sto scrivendo, torna, preponderante, il tema della verità nelle sue molteplici sfaccettature. Tra le molte verità ci sarà pure quella della stessa vittima, una donna trovata decapitata.

C’è l’illusione da parte mia, e forse la presunzione, del romanzo come frutto dei miei ragionamenti attorno a una domanda che si poneva Glauser, autore svizzero contemporaneo di Simenon.

“Cosa accadrebbe se si riuscisse a creare una tensione tale per cui al lettore sarebbe indifferente l’identità dell’assassino?”

Grazie per la cortesia e disponibilità. Buona fortuna per i tuoi prossimi lavori.