As I walk along I wonder / what went wrong with our lives / lives that were so strong / And as I still walk on I think of / the things we’ve done together / when our hearts were young / I'm a-walking in the rain / tears are falling and I feel the pain / watching all the plays go by / some live and others die and I wonder / why I don’t walk away / and I wonder / what makes me stay / runaway.Con queste parole, cantate da Del Shannon sulle note di una sua vecchia canzone di successo (Runaway, riadattata appositamente per il telefilm), si aprivano gli episodi di una elegante serie degli anni ottanta che, per scherzo della sorte, non ottenne mai il successo che avrebbe meritato: Crime Story.

Reduce dallo straordinario successo di Miami Vice, il produttore esecutivo Michael Mann, insieme a Chuck Adamson e Gustave Reininger, crea nel 1986 una nuova serie televisiva imperniata sul crimine e la giustizia, ma che si colloca lontano mille miglia da quell’ MTV cop-show (un telefilm poliziesco alla MTV: così il presidente della NBC Brandon Tartikoff aveva ordinato che fosse Miami Vice) che lo ha reso internazionalmente celebre.

L’ambizione di Crime Story, come rileva Martin Winckler, è raccontare la storia del crimine organizzato dagli anni cinquanta agli anni ottanta, ma condensata in un arco temporale assai più breve: la prima metà degli anni sessanta.

E proprio in questo periodo storico è ambientata la serie, circa vent’anni indietro rispetto agli anni in cui viene girata. Un sapiente uso della tecnologia (luci, ombre, suoni, colori, sfondi, riprese) unito a un accurato lavoro di sceneggiatura, riesce perfettamente a calare lo spettatore in un’atmosfera perfettamente "anni 60".

Anche a livello contenutistico c’è una importante novità: la natura degli episodi non è autoconclusiva.

Ci sono, è vero, delle vicende di secondaria importanza che si sviluppano e si risolvono nel corso di singoli episodi, ma fondamentalmente le due stagioni di Crime Story raccontano una sola, lunga e tormentata storia: la epica lotta tra il tenente Mike Torello (Dennis Farina), incorruttibile poliziotto di Chicago a capo della squadra speciale anticrimine; e Ray Luca (Anthony Denison), un giovane e sveglio delinquente che in breve tempo fa carriera nella malavita organizzata fino a divenire il più ricco e potente boss di Las Vegas e a dominare il contrabbando internazionale di droga ed armi e a stringere alleanze con gli uomini di governo più potenti (e corrotti) di tutto il mondo. Tutte le strade si aprono davanti allo straordinario potere di Ray Luca, nulla e nessuno può più fermarlo, non ci sono ostacoli che egli non possa rimuovere con un semplice ordine... tranne uno, cocciuto e determinatissimo, l’unica persona che Luca teme davvero: Michael Torello.

Incastrare Ray Luca diviene ad un certo punto l’unica ossessione del tenente, e quando il criminale lascia Chicago per Las Vegas, Torello si trasferisce con tutta la sua squadra per rimanere sulle sue tracce. Ma man mano che il potere di Luca cresce, la missione di Torello diventa sempre più difficile, a momenti sembra impossibile, tanto da indurre lo stesso Torello a chiedersi se non sia tutto inutile.

L’abilissimo procuratore David Abrams (Stephen Lang), che inizialmente lavora instancabilmente al fianco di Torello anche per vendicare l’assassinio del padre, dopo una bruciante sconfitta abbandona tutto e passa dall’altra parte della barricata, per lavorare al fianco di Ray Luca.

Il personaggio di Torello è molto interessante: a giudicare dal suo modo di fare duro e violento, dal tono di voce e dallo sguardo, dal volto butterato con quei baffetti sempre impeccabili, si direbbe piuttosto un gangster. E invece si tratta di uno degli uomini più incorruttibili e determinati di tutta la polizia di Chicago, segnato dagli eventi e da una profonda esperienza. Un personaggio intenso, insomma, e a tutto tondo.

Dennis Farina, che presta il volto al tenente Torello, prima di diventare attore ha lavorato per diciotto anni nella "vera" polizia di Chicago. "Non ho mai pensato di diventare attore", spiegò una volta a TV Guide, "è successo, e diciamo che mi sono lasciato trasportare dagli eventi. Fui fortunato allora, e lo sono ancora adesso. Sono l’uomo più fortunato che conosco".

Anche Chuck Adamson, co-creatore della serie, ha lavorato a lungo nella polizia di Chicago  come diretto superiore di Farina, e ha molto attinto dalla sua esperienza di poliziotto nello scrivere i soggetti di Crime Story. "La serie", disse una volta Michael Mann, "è la storia della vita del mio migliore amico Chuck Adamson". E in un altra occasione commentò: "Qui non si tratta dell’idea partorita dalla fantasia di qualche soggettista di Hollywood sulla natura del bene e del male. Questa è la realtà".

Invece John Santucci, che veste i panni del singolare personaggio Pauli Taglia, braccio destro di Luca – non molto sveglio ma fedelissimo ed estremamente efficace quando si tratta di far fuori qualcuno - è stato nella realtà un vero criminale, tra i più famosi e ricercati di Chicago, passato alla storia per un colpo da quattro milioni di dollari in un museo. Negli anni sessanta Santucci, noto anche come "Johnny Pizza", è stato arrestato diverse volte proprio da Chuck Adamson.

 

"One of the best television series you have probably never seen" ("Probabilmente una delle migliori serie televisive che non abbiate mai visto"): così l’autorevole New York Times, a quindici anni dalla chiusura di Crime Story, ha definito ironicamente la serie.

Tra i toni cupi di Chicago e lo scintillio di Las Vegas, i colori saturi della ripresa, le scene di violenza gratuita che suscitarono alcune polemiche, il tono nichilistico che permea ogni episodio, Crime Story è uno di quei piccoli gioielli della storia della televisione, pieno di innovazione e raffinatezze stilistiche, ma che non ha mai raggiunto il successo di pubblico che avrebbe meritato. "Homicide, life on the streets", a cui si può applicare la stessa definizione, resisterà per sette stagioni. Crime Story ha chiuso i battenti dopo soli 44 episodi (con un finale degno della sua statura), anche perchè si trattava di una delle produzioni più costose di quel periodo (in media un milione e mezzo di dollari a episodio). Ma si sa, la qualità si paga. Peccato davvero.

Mi limiterò a un esempio per cercare di spiegare cosa intendo quando parlo di "raffinatezza" stilistica, ossia una piccola particolarità di regia, piuttosto che di interpretazione o di sceneggiatura o di colonna sonora, che quasi si nasconde nel corso della narrazione ma non sfugge al telespettatore più attento. Può esserlo, per esempio, una citazione cinematografica colta: l’episodio della seconda stagione Love Hurts (Colpo al cuore) cita addirittura Que viva Mexico, capolavoro incompiuto e dalla storia tormentatissima nato dal genio del maestro Sergej M. Ejzenstejn (ricordate La corazzata Potëmkin?).

La scena è una delle più belle e strazianti di tutta la storia del cinema: la famosa "punizione dei cavalli", in cui i ribelli sono sepolti vivi fino al collo e uccisi a colpi di zoccolo da una torma di cavalli imbizzarriti.

La citazione è preannunciata da un adattamento della bellissima musica di Francisco Comacho Vega, che accompagna e carica di emozione la scena originale del film di Ejzenstejn.

Quel che ne viene è un piccolo capolavoro.

Come scrive Gary Hertz: "Network television had never experienced anything quite like Crime Story. It may never again".

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