"Al Nome Santissimo di Dio Amen.[…]

L’Anno del nostro Signore Gesù Cristo milleottocentotrentaquattro, indizione Romana Settima, e questo dì cinque del mese di Aprile; sotto il Pontificato di Sua Santità Gregorio XVI, e Sua Altezza Imperiale e Reale il Serenissimo Leopoldo II, per la grazia di Dio, Principe Imperiale d’Austria, Principe Reale d’Ungheria e di Boemia, Arciduca d’Austria, Gran-Duca di Toscana, nostro amatissimo Sovrano felicemente dominante.

La riattivazione delle Miniere in Toscana aveva da qualche tempo fermato il pensiero del sig. Luigi Porte, il quale si era persuaso che la desistenza dalle varie escavazioni intraprese in epoche differenti inveceché all’esaurimento delle Miniere riferir si dovesse o alle distrazioni cagionate dalle calamità dei tempi o alla tenuità dei mezzi che a quest’arte apparecchiavano le scienze necessarie ausiliatrici della medesima.

Incitato da questa speranza e poiché la propostasi riattivazione di Miniere meglio che altrove avrebbe potuto, a di lui parere, incominciarsi in quelle della provincia inferiore Senese, attesa la quantità e qualità delle medesime, si rivolse ad acquistarvi quanto e come meglio gli fu possibile da diversi possessori, fra i quali si degnò concorrere l’Imperiale e Reale Governo, rispetto ai fondi di proprietà della Magona del ferro, il diritto di scavare con quei patti ed a quelle condizioni che gli riuscì di combinare coi diversi possessori suddetti.

Ciò fatto, pubblicò colla stampa in data del dì primo Ottobre 1833

Resultano da questo Prospetto di associazione in primo luogo i diversi acquisti del diritto di escavazione e le condizioni diverse nelle quali l’acquirente dové convenire: ivi "Fino dal 15 Luglio 1832 S. A. I. e R. con benigno Rescritto si degnò concedere a Luigi Porte in perpetuo la facoltà di scavare le Miniere di rame che gli riuscisse rinvenire e porre in attività nei terreni oggi pertinenti all’I. e R. Magona nella Comunità di Massa Marittima…"

[…] un progetto d’intrapresa per via di associazione in accomandita e della divisione dell’accomandita stessa in cento Azioni di scudi duecento […] onde chiunque potesse accorrervi con tenue spesa e rischio misurato.

***

Massa Marittima, dicembre 1933

L’anziano canonico era appena entrato in cattedrale dalla sagrestia, dove, seduto al tavolo che occupava buona parte della sala capitolare, aveva appena letto il brano introduttivo di un opuscolo edito nel 1834, dal titolo Pubblico Istrumento di Società in Accomandita per la riattivazione delle Miniere di Montieri, Rocca-Tederighi e Massa Marittima.

Come tutti i tardi pomeriggi, dopo la novena, si stava recando a chiudere la porta d’ingresso alla chiesa maggiore massetana ma quella volta, a differenza di altre, il suo volto era radioso. Stava infatti percorrendo la navata centrale e pensava: "Sono felicissimo di avere finalmente tra le mani il prezioso documento con il quale, cento anni fa, Luigi Porte e i suoi soci promossero la riattivazione delle miniere qui a Massa. Da anni mi dedico con passione a raccogliere libri, memorie, testimonianze che riguardano la storia massatena, e non ero mai riuscito a recuperare una copia di questo raro testo per la mia fornitissima biblioteca. Ma qualche giorno fa è morta la nobildonna Elena Ghiozzi Galliuti, una sciagurata che ha dissipato il patrimonio di famiglia (e dannato la propria anima) mantenendo, per quasi tutta la sua inutile vita, uno stuolo impressionante di amanti. Negli ultimi tempi la Messalina, ormai decrepita e in gravi difficoltà economiche, si è rivolta a me per ottenere, diciamo, qualche prestito. Poco prima di spirare, e sottoporsi all’inflessibile giudizio di Dio, la ‘signora’ ha modificato il suo testamento e, evidentemente per ricompensare il compassionevole aiuto ricevuto da un servo del Signore, ha lasciato erede il sottoscritto della sua cospicua biblioteca (nonché di qualche modesto bene immobile e di alcuni terreni non lontani dalla città). Ebbene, in mezzo agli innumerevoli volumi appartenuti alla famiglia della defunta Semiramide ho trovato proprio questo opuscolo, edito cento anni fa a Firenze con il quale si riavvia lo sfruttamento delle miniere sulle Colline Metallifere. Sono al settimo cielo! Stento a credere di essere riuscito ad avere un originale di questo importante libretto, che avevo consultato presso la biblioteca comunale prima che fosse trafugato, e non sapevo che la Ghiozzi Galliuti ne possedesse una copia. Senza considerare tutti gli altri opuscoli del secolo scorso che ho ricevuto con questo lascito! Evidentemente, con la morte di quella ostinata peccatrice, Dio ha voluto premiare il suo fedele servitore…".

Ritornato sui suoi passi, ancora immerso in questi pensieri, si era diretto verso l’altare maggiore, dove improvvisamente l’uomo fu richiamato al presente da qualcosa che era stato posto sul volume del Vangelo, aperto come ogni giorno sul leggio sopra l’altare.

- Ma che cosa…! - si sorprese a dire a voce alta. In breve appurò che si trattava di alcuni fogli dattiloscritti, cuciti insieme a mo’ di opuscolo. Le luci del crepuscolo che filtravano a malapena dalle vetrate absidali e la sua forte presbiopia non gli permisero però di realizzare subito quale ne fosse il contenuto, per questo si spostò verso il doppiere posto nella cappella absidale della navata sinistra, davanti all’altare consacrato alla Madonna delle Grazie.

Qui, alla luce delle candele, dette una scorsa veloce allo strano incartamento e poi si mise a leggerlo. Il testo recava un titolo, La strega, e dalle prime righe si rese conto che si trattava di un racconto, un racconto che di lì a poco gli avrebbe procurato un forte stato di agitazione…

Quel giorno Marianna era felice mentre lentamente risaliva lo stradello che dal Mulinpresso si inerpica sul colle fino a Massa, dove abitava. L’anziana donna si stava godendo l’ultimo sole di quel pomeriggio d’autunno del 1933 ed era visibilmente contenta, mentre i suoi passi uno dopo l’altro si piantavano lenti ma sicuri sui sassi e sulla ghiaia di quel viottolo già tante volte percorso alla ricerca di insalate di campo o di asparagi o di qualsiasi altro frutto che il susseguirsi delle stagioni poteva regalarle.

A metà costa, dopo aver attraversato l’unico binario della ferrovia Massa-Follonica, si era fermata a scambiare due parole con una contadina sua amica che abitava in un podere vicino alla strada ferrata. Appena sedutasi sotto la pergola posta all’ingresso del casolare, la donna non aveva fatto mistero del motivo di quel sorriso appena accennato che aveva stampato sulla bocca sdentata e di quello sguardo finalmente sereno dopo tanto tempo. Teresa, la sua amica contadina, sapeva che la povera Marianna, da quando era stata investita da un cavallo imbizzarrito nella piazza del Duomo, non era più tanto in sé, per questo in paese tutti si rivolgevano a lei come si tratterebbe con una persona semplice, credulona ma, ovviamente, senza cattiveria, senza mancarle di rispetto.

Quello stato di evidente beatitudine che quel giorno la pervadeva era un fatto eccezionale per Marianna e avrebbe incuriosito anche l’ultimo dei suoi compaesani. No, non era un sorriso di una persona che poteva aver perso la ragione in seguito a un incidente, era qualcosa di più forte e positivo, si sarebbe detta una vera e propria felicità interiore.

Leda, una delle figlie di Teresa, nel vederla in quello stato inusuale, fu colta dalla bramosia di saperne il motivo, ma la donna, prima che chiunque dei presenti potesse aprire bocca, si affrettò a dire alla sua amica, quasi urlando: - Oggi ho fretta! Devo correre a casa perché stasera devo preparare il mangiare pel mi’ Beppe.

- Il tu’ Beppe? O non era a Torino! – si sorprese Teresa.

- Sì, ma è tornato a casa. Ha trovato lavoro alla miniera delle Capanne -. Nel pronunciare queste ultime parole la donna si rabbuiò un poco in volto. Quante volte da giovane aveva pregato i suoi figli di non andare a lavorare in miniera: avrebbe preferito se ne fossero andati via da Massa. E come aveva accettato di buon cuore quando avevano deciso di emigrare all’estero: è vero che non li avrebbe visti tanto spesso ma almeno li sapeva al sicuro. Con i maschi erano partite anche le femmine, eccetto Maria, e per un certo periodo avevano abitato tutti insieme nei pressi di Parigi. Poi, per le diverse sopraggiunte esigenze, si erano dovuti separare. La povera Marianna di certo non immaginava che, contrariamente alle sue aspettative, Beppe, il più giovane, il suo preferito, aveva lavorato anche come minatore nelle miniere del Belgio ma, come si dice, occhio non vede, cuore non duole.

Finalmente, dopo aver peregrinato tra Belgio, Francia e Piemonte, i suoi figli si erano stabiliti a Torino e Beppe aveva trovato lavoro come magazziniere presso una fabbrica e si era fidanzato con una brava ragazza.

Però, in seguito all’incidente occorso a sua madre, questi, che ormai aveva superato la trentina, maturò il proposito di tornare a Massa. Il fatto di saperla sola in una casa in affitto non lo faceva stare tranquillo. È vero che sua sorella Maria abitava sopra a lei ma la poveretta aveva il suo da fare con quattro figli piccoli e un marito sempre ubriaco. A Beppe era stato riferito che sua madre non era più tanto in sé e aveva bisogno di una presenza costante di qualcuno in casa. Così piantò lavoro e fidanzata a Torino e, dopo dieci anni da quando era partito, ritornò al paese natio con l’intento di stabilirsi per sempre in casa di sua madre.

Trovare lavoro alla miniera delle Capanne non fu un problema per un giovane nel pieno delle forze come lui.

Per Marianna, da quando era tornato, ed era appena una settimana, la vita era cambiata, non era più la stessa. È vero che era dispiaciuta che il suo Beppe fosse finito a lavorare in miniera ma la gioia di averlo con sé era molto più forte.

Ogni giorno suo figlio faceva diversi chilometri a piedi per andare e tornare dalla miniera, impiegando tutte le ore diurne tra lavoro e viaggi: usciva la mattina con le stelle e tornava la sera con le stelle. Ma la ricompensa a questo sacrificio giornaliero era tornare a casa e vedere sua madre così felice.

Da quando Beppe era tornato, le condizioni di salute di Marianna sembravano migliorate. La donna finalmente aveva un scopo nella vita: passava tutto il giorno a pensare a cosa avrebbe preparato a suo figlio per cena. Finalmente aveva ritrovato un motivo per essere felice, dopo anni in cui sembrava che la felicità l’avesse abbandonata per sempre.

Anche quel giorno si era recata in campagna per raccogliere dell’insalata e persino la visita alla sua amica Teresa aveva lo scopo di racimolare qualcosa da cucinare al suo Beppe. Ed era riuscita nel suo intento perché l’amica le aveva regalato alcune uova e delle patate.

Dopo aver lasciato il podere di Teresa, la donna stava risalendo la parte più alta del sentiero verso Massa e sembrava lanciare sorrisi alle piante di insalata di campo che via via andava raccogliendo ai bordi dello stradello e che metteva nel capiente grembiule legato in vita, dove aveva sistemato le altre provviste. Frattanto, alle sue spalle, in direzione delle Bruscoline, il sole stava per eclissarsi dietro le colline.

Marianna da giovane era stata una bella donna. Non era molto alta, era mora di capelli, con grandi occhi neri e sopracciglia folte, una stupenda carnagione olivastra e lineamenti fini. Aveva avuto diversi pretendenti e due mariti. Rimasta vedova per la seconda volta, si era avviata verso l’inesorabile decadenza fisica, aggravata dall’inevitabile trasandatezza che accompagnavano l’avanzarsi dell’età della povera gente in Maremma. Era ingrassata, un po’ ingobbita ed era diventata quasi completamente sdentata, in più l’incidente aveva fatto il resto.

In quel corpo deturpato dal tempo e dalla povertà, avvolto da un pesante vestito scuro e da un immancabile fazzoletto scuro in capo, da alcuni giorni era cambiato qualcosa: quella bocca sdentata accennava un sorriso.

- Dove andate così di corsa, Marianna? – Le domandò una giovane conoscente che aveva incontrata poco prima di lasciare il viottolo e immettersi nella strada principale che da Massa porta a Follonica, poco distante da Porta al Salnitro.

- Devo correre a casa per far da mangiare al mi’ Beppe! Mi ha detto che stasera sarebbe venuto un po’ prima – e proseguì di fretta.

Fatti ancora pochi passi, la donna arrivò finalmente al portone di casa. Abitava in un appartamento al secondo piano di un palazzone situato proprio all’ingresso del paese, al terzo piano del quale c’era quello di sua figlia Maria. Dalle finestre della sua casa si godeva una vista stupenda sulla piana antistante Massa e sulle colline che la circondano, e più lontano si potevano raggiungere con lo sguardo i monti dell’Elba e, nei giorni più sereni, persino quelli della Corsica.

Frattanto il sole era calato e si era alzato un po’ di vento.

Arrivata in casa, come prima cosa aprì sul tavolo da cucina il grembiule con le provviste, ne tolse il contenuto e quindi si sedette un attimo per riprendere fiato. Si tolse il fazzoletto dal capo volgendo inavvertitamente la faccia verso la vecchia vetrina che aveva ereditato dalla sua prima suocera, sulla quale erano in mostra alcune brocche in rame.

In quel momento Marianna si ricordò che doveva scaldare la stanza per il suo Beppe. Non perse tempo, si diresse verso lo stanzino per prendere i trucioli di legno per accendere la stufa. Ne mise diverse manciate nel grembiule che aveva ancora indosso e tornò in cucina. Tolse i cerchi di ferro dall’apparecchio, vi pose dentro i trucioli e con un fiammifero dette loro fuoco. Nella fretta la povera donna non si accorse che un lembo del grembiule le penzolava all’interno della stufa. In un attimo il lembo prese fuoco e la donna, intenta a creare il fuoco, non si rese conto che quel fuoco oltre ai trucioli stava impossessandosi anche del suo grembiule. Quando se ne accorse, spaventata, tirò via l’indumento e gridò aiuto con quanto fiato aveva in gola ma, temendo che nessuno la sentisse, aprì la finestra di cucina nel tentativo di chiamare soccorsi all’esterno. Questo errore le fu fatale. Il fuoco, alimentato dal vento che entrava dalla finestra, lo stesso che l’aveva accompagnata nell’ultimo tratto della sua passeggiata pomeridiana, ben presto si propagò a tutti i suoi vestiti trasformando la povera donna in una torcia umana.

Quando arrivarono gli aiuti ormai era troppo tardi.

La portarono all’ospedale ancora viva nell’estremo tentativo di salvarla, e fu lì che la trovò il suo Beppe quando tornò a casa dal lavoro.

Seduto al suo capezzale, tenendole una mano con entrambe le sue, le ripeteva con la voce rotta dal pianto: - Mamma non ti preoccupare, ci sono qui io. Cerca di farcela. Resisti mamma.

Nel frattempo arrivò una loro vicina di casa che era andata ad avvertire il canonico F. in duomo affinché venisse a dare l’estrema unzione a Marianna. La donna riferì a Beppe e Maria, che l’ascoltavano allibiti, che il canonico si era rifiutato di dare l’ultimo sacramento alla loro mamma perché, essendo arsa viva, il diavolo l’aveva portata con sé all’inferno.

Beppe, su tutte le furie, ingoiò anche questo dolore e giurò davanti a sua madre in fin di vita che, se la Chiesa non aveva voluto lei, quando sarebbe giunta la sua ora non avrebbe avuto nemmeno lui.

Ma intanto Marianna non capiva, vedeva suo figlio agitarsi e piangere e continuava a sorridergli. Un sorriso che non l’abbandonò nemmeno quando, pochi istanti dopo, spirò tra le braccia di Beppe."

Appena ebbe finito di leggere il racconto, l’anziano prete si scoprì sudato fradicio: qualcuno durante la novena doveva essersi infilato in chiesa con scopi diversi da quelli dell’uomo di fede. Forse approfittando della cecità delle anziane signore che avevano assistito alla funzione appena terminata, doveva essere salito verso l’altare per depositare quell’inquietante ‘regalo’.

L’angoscia si trasformò presto in furia spaventosa: il canonico iniziò a voce alta un sermone che avrebbe voluto fare tante volte durante l’omelia e che ora gli sgorgava da dentro come un fiume in piena: - Ecco, questa è una testimonianza evidente del fatto che la città, in questi ultimi decenni, è molto cambiata! La gente mostra ormai una fede tiepida e c’è chi preferisce baloccarsi con le idee demenziali dei bolscevichi senzadio. Io sono diventato sacerdote al tempo in cui il generale Bava Beccaris rispondeva con provvidenziali cannonate a quelle masse di sovversivi che iniziavano a inalberare la bandiera rossa. Poi è venuto Giano Bifronte, il mestatore di Dronero, il meschino Giolitti, che si è calato le braghe di fronte ai socialisti.

Ma grazie a Dio, nel Ventidue la musica è mutata e l’Italia ha ricevuto in dono una guida ferma, un capo dal pugno ferreo, insomma un Duce degno di questo nome! Le squadre fasciste hanno bonificato la Maremma delle peggiori teste calde: e questa opera meritoria è stata condotta a colpi di manganello e con abbondanti libagioni di olio di ricino! Gli elementi più perniciosi sono finiti in prigione o al confino: molto è stato fatto in questi anni, ma è evidente che, sotto le pietre del paese, si nascondono ancora tanti vermi che meritano di essere schiacciati! I minatori mugugnano, sono eternamente insoddisfatti, molti disertano la messa. Nell’ombra si muovono ignobili demagoghi che continuano ad avanzare folli pretese per il proletariato. Questo ingiurioso racconto è l’ennesima prova che questi timori non sono infondati: qualche miserabile vuole gettare fango su un religioso integerrimo! De te narratur fabula! È chiaro che l’anonimo estensore di questo testo allude a un fatto accaduto, a Massa, qualche mese fa. Pensa di mettermi in imbarazzo, la canaglia rossa? Spera di screditarmi di fronte al popolino? Marianna era una squilibrata, una mezza pazza che aveva un conto aperto con l’inferno. Beppe è un tipo equivoco e di certo, quando è stato all’estero, ha bazzicato cattivi ambienti. Io, "il canonico F.!", non potevo somministrare l’estrema unzione a quella donna perduta. Pensino pure ciò che vogliono, quei senzadio: continuerò a dormire il sonno del giusto, a vivere in buona salute. Sì… a volere essere pignoli, ho qualche problema di costipazione… ma una buona purga mi rimetterà a posto. E mentre attuerò coscienziosamente la cura, dedicherò, ai sovversivi delle miniere, le mie sacrosante evacuazioni!

***

Articolo del giornalista Natale Corelli, censurato dal Direttore de "La Nazione"

"In data 20 gennaio 1934 è scomparso, in circostanze tragiche, il canonico del Duomo di Massa Marittima, padre Rolando Fortini. Al momento le cause del decesso non risultano chiare. Pare che il religioso stesse effettuando una cura a base di leggeri purganti. L’altro ieri il domestico Carlo Roggi gli ha somministrato l’enteroclisma prescritto dal medico, e il canonico è spirato tra terribili spasmi! Sembra che nel contenitore del medicamento lassativo fosse finito dell’acido muriatico (custodito in una scatola conservata in una credenza della canonica). Come è potuta accadere una cosa simile? Un errore fatale, un’incredibile svista? Il domestico, sconvolto per la morte del padrone, sostiene che qualcuno si è introdotto nell’abitazione e ha effettuato lo scambio. In effetti il Fortini si era fatto numerosi nemici a causa del suo carattere inflessibile e...".

Biglietto di censura vergato di pugno dal direttore de "La Nazione", Agenore Gamboni:

"Dico, Corelli, sei impazzito? Ti ha dato di volta il cervello? Un canonico morto in quelle circostanze? Sospetti di assassinio? Riscrivi subito il pezzo e attieniti alle direttive del Minculpop, se non vuoi che ti cacci dalla redazione a calci nel didietro!"

Articolo del giornalista Natale Corelli apparso su "La Nazione" del 22 gennaio 1934:

"Si è spenta, all’improvviso, una torcia alimentata da una fede purissima! Due giorni fa è venuto meno, fiaccato da un male incurabile, il canonico Rolando Fortini. Il gregge di fedeli massetani ha perso il suo archimandrita, il predicatore che spargeva zelo religioso e forgiava bravi cittadini obbedienti all’etica fascista. Particolarmente costernati i lavoratori delle miniere: per loro Fortini era come un padre. Il canonico li conosceva uno per uno, li sosteneva con i suoi amorevoli consigli, incoraggiava la loro dura e meritoria missione. Ma soprattutto non mancava di rivolgere, a questa gente, un pensiero intriso di affetto, in ogni momento della sua giornata operosa".

 

Tratto da: Aa. Vv. (a cura di R. Parigi & M. Sozzi),"Delitti di Massa", Laurum, Grosseto, 2007, pp. 107 - 119