Ci siamo, finalmente. Ci siamo nel senso che il film è bello, da vedere, da non perdere. Per di più, una volta usciti dalla sala ci sono molte probabilità che inizierà a mancare pesantemente agli occhi. Elegante, molto elegante, curatissimo (per alcuni potrebbe esserlo anche troppo…), però capace di sprigionare una ridda di sentimenti con in primis una nostalgia che si taglia a fette, nostalgia per ciò che poteva essere e non è più, per come sarebbe potuta andare e invece non è andata, una nostalgia così sincera e così sinceramente offerta a chi guarda che è impossibile fare finta di nulla. Chi si ricorda Autofocus di Paul Schrader (biopic su Bob Crane, divo TV reso celebre negli anni ’60 dalla serie TV Gli eroi di Hogan)? Be’ siamo da quelle parti, esattamente quando la carriera di George Reeves, celebre Superman televisivo negli anni ’50, una carriera mai decollata veramente la sua, si interrompe bruscamente causa la morte per suicidio dello stesso Reeves avvenuta il 16 giugno del '59, durante un party casalingo. Ad iniziare dall’evento “terminale” per eccellenza, Hollywoodland di Allen Coulter (regista di numerosi episodi di Sex and the City e dei Sopranos), imbocca due strade destinate ad intersecarsi: la prima è percorsa da chi indaga sul presunto suicidio di Reeves, il detective Louis Simo (Adrien Brody), incaricato dalla madre del defunto di far luce sulla morte del figlio, la seconda da chi ben prima della fine ha visto la sua carriera iniziare a scivolare su quel piano inclinato sul quale di solito scivolano molte carriere, tutte quelle che per colpa di un personaggio particolarmente riuscito finiscono col rendere il loro interprete non credibile in un qualsiasi altro ruolo, quel punto dove il costume di scena, qualunque esso sia, si appiccica talmente addosso da diventare una vera e propria seconda pelle (e la scena dove vediamo Reeves/Ben Affleck recitare grazie al computer con Burt Lancaster in Da qui all’eternità mentre la gente in sala recita le battute di Superman, la dice lunga sulla percezione che il pubblico ha di lui…). Date le due strade, la scelta è fondamentalmente quella di abolire dalla narrazione qualunque flash-back, preferendo semplicemente trascorrere dal piano delle indagini all’altro, quello con Reeves vivo e vegeto che tenta disperatamente di scrollarsi di dosso il ruolo di Superman. Hollywoodland come genere non può essere altro che un noir fatto e compiuto, eppure è un noir che sa cambiare pelle e connotati in corsa come poche volte s’è visto: quante volte si ricorda una tale presenza di bambini, ad esempio? Stavolta ce ne sono un fracco, tanti piccoli uomini distrutti dal dolore per la morte del loro beniamino (e va’ loro a spiegare che la finzione è finzione e la realtà è un'altra cosa…), non solo perché si è ammazzato, ma per farlo ha usato una Luger (“la pistola dei nazisti”, dice il figlioletto di Simo…). Altrettante poche volte s’era visto un detective come Simo/Brody, un private eye senza uno straccio di cappello e cravatta, con in più una pericolosa tendenza a identificarsi eccessivamente con l’oggetto della sua indagine e con un occhio lungo sulla stampa che sa piegare ai suoi scopi come il più navigato degli spin-doctor attuali. Ma è chiaro che è l’esplorazione passo dopo passo della figura di Reeves, dei suoi amori (con Toni Mannix, moglie di un tycoon hollywoodiano), dei suoi dubbi, dei suoi rimpianti, a rappresentare il cuore pulsante di Hollywoodland. È da lì che il film estrae la sua particolarissima atmosfera di dolente nostalgia, anche grazie ad una sceneggiatura che sa come fare a consegnare alla riflessione quel grumo irriducibile che accompagna ogni vita umana, dove le azioni quasi mai finiscono col corrispondere per intero ai significati esterni, esplorando quei territori dove la verità non è mai soltanto una ma sempre una più un’altra, forse non tutte possibili ma certo tutte egualmente credibili. Eppure c’è ancora qualcosa in più: quando l’agente del defunto Reeves consegna a Simo l’ultimo provino del suo assistito, un super-8 in BN dove un Reeves imbolsito, con tanto di kimono addosso vuol dimostrare che sì, è ancora perfettamente in grado di interpretare un ruolo da lottatore, e allora lo vediamo mettersi in posizione da combattimento, iniziare a sferrare colpi a vuoto, rotolarsi a terra più e più volte, finché stremato si ferma e fa cenno all’operatore di tagliare, in questa manciata di fotogrammi Hollywoodland aggiunge a quanto ha già detto il tentativo ulteriore di penetrare il mistero che circonda l’indissolubile e oscuro legame tra persona e personaggio, tra essere ed apparire. Il terreno è scivoloso, e se c’è di mezzo Hollywood Babilonia dove da sempre per uno che ce la fa, Dio solo sa come e perché, ce ne sono tanti altri che si perdono, lo è ancora di più. Coppa Volpi, al di là di ogni previsione, a Ben Affleck come migliore interpretazione maschile alla 63ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.