E’ una perversione psichica. E’ violenza, abuso, sottomissione e morte.

Gli psicologi definiscono la pedofilia un disturbo, riconducibile all’ambito delle parafilie, dell’eccitazione sessuale provocata da particolari stimoli ritenuti socialmente anomali e alimentata dal piacere per la trasgressione.

Lo “strumento” di piacere del pedofilo è il bambino, indotto a compiere o subire una serie di comportamenti finalizzati alla soddisfazione del desiderio sessuale del soggetto anziano, giovane, benestante, indigente, colto o incolto che sia. Egli guarda il bambino mentre si spoglia, si masturba in sua presenza, lo accarezza e lo persuade a toccarlo a sua volta.

L’attrazione, o meglio l’ossessione, che l’abusante prova per i piccoli non riguarda la sola questione fisica, ma, a suo modo, egli nutre dei sentimenti, che gli impediscono di maltrattare le sue giovani vittime in modo tale che queste non parlino e mantengano segreto il crimine.

Di contro, però, i pedofili così detti attivi, sono in grado di assoggettare il bambino con metodi invasivi e devastanti fisicamente e mentalmente, stando ben attenti a non lasciare segni visibili.

Altri, invece, chiamati latenti, si limitano alla consultazione di materiale pedopornografico diffuso nella rete.

Di certo più pericolosi sono coloro che praticano il pedosadismo, in cui l’eccitazione è associata a una forma di sesso sadico e amorale che ha come conseguenza, ma non come regola, la morte del fanciullo per tentare di occultare l’accaduto.

Stando sempre alle affermazioni di alcuni psicologi il pedofilo è un individuo dalla personalità immatura e con gravi problemi relazionali che lo rendono incapace di vivere un normale e adulto rapporto amoroso.

Sono narcisisti, hanno scarsa stima di se stessi e scaricano sull’infante il loro costante bisogno di potere e controllo mettendo in gioco molti aspetti mentali, istituzionali, di educazione sessuale e violenza che contribuiscono a definire alcune fra le caratteristiche entro cui riconoscere un pedofilo e, nel contempo, le possibili motivazioni che portano ad esserlo.

Per esempio l’essere stati a loro volta dei bambini abusati, magari dai genitori, potrebbe far nascere nel soggetto il senso di rivalsa e la conseguente emulazione di atteggiamenti simili, intesi come modelli di detenzione del potere con i quali sottomettere facilmente il bambino.

E’ causa di un sentimento di rivalsa anche l’essere stato un bambino isolato e deriso o l’aver vissuto in un ambiente famigliare contraddittorio e disgregato. Infine, altrettanto determinante, è l’aver assistito a episodi di violenza ai danni di un famigliare senza avere la possibilità di intervenire.

Diversamente da altri loro colleghi, alcuni studiosi della pedofilia in chiave patologica hanno elaborato una teoria in cui racchiudere e analizzare tre particolari tipi di soggetti:

- Gli ansiosi resistenti hanno scarsa stima in loro stessi e si negano all’amore perché indegni; sono persone insicure dedite alla costante ricerca dell’approvazione altrui e riescono ad acquisire sicurezza solo in presenza di un compagno su cui possono esercitare controllo. Raramente usano eccessiva violenza od atti coercitivi contro i bambini.

- Gli evitanti timorosi desiderano il contatto intimo con un adulto, ma, allo stesso tempo, sono terrorizzati da un rifiuto e quando abusano sul minore non si fanno scrupoli ad usare la forza.

- Ultimi sono coloro che ricercano rapporti e relazioni impersonali caratterizzati da un alto tasso di aggressività e da comportamenti addirittura sadici.

DOVE E COME

Ideale, per l’attività del pedofilo, è l’ambiente domestico. Un lupo travestito da agnello, un abusante travestito da padre, madre, zio, nonno, fratello, cugino.

Un tratto tipico del maltrattamento entro l’ambito famigliare, incombente come una nuvola tossica, è il silenzio a cui la vittima viene costretta per impedire la distruzione della famiglia a seguito di un’eventuale denuncia alle autorità.

In linea di massima il principale autore di incesti e abusi è il padre o il patrigno impegnato ad ostacolare ogni tentativo di socializzazione dei componenti della famiglia, mentre la vittima, al contrario, si dimostra socievole e ben disposta a rapportarsi con gli altri.

Il carnefice, inoltre, è solito ricompensare con regali e privilegi di sorta l’oggetto delle sue perversioni per comprarne la complicità e celare lo sfruttamento sessuale.

La madre, il più delle volte assente, sceglie di abbandonare il suo ruolo di donna di casa addossando tutti i doveri richiesti dallo status, compresi quelli sessuali, sulla figlia coprendosi il volto e l’animo con una maschera d’indifferenza.

Lontano dalle mura domestiche il pedofilo presenta una personalità creativa in grado di utilizzare raffinate tecniche di approccio. Egli può corteggiare la madre per arrivare al bambino; conquistare la fiducia dei genitori che lo accolgono nella loro casa come un amico e ottenendo, così, libero accesso. Meschino, può prendere di mira bambini sofferenti o con carenze affettive facendoli sentire importanti e amati.

Altri, i classici frequentatori del turismo sessuale in vigore soprattutto in Asia e in Africa, agiscono senza premeditazione.

LA TERAPIA

Per il pedofilo, parlare di patologia o di ossessione recidiva in riferimento alla sua condizione, è un errore. Egli sostiene di amare il bambino e quindi inevitabile, nell’amore, è l’attrazione per il partner e il contatto fisico.

Le sedute di analisi psichiatriche puntano l’obiettivo sulla rielaborazione dell’infanzia dell’individuo, sminuzzando simultaneamente la sua personalità e richiedendo perciò la massima collaborazione da parte del paziente che di raro accetta.

L’alternativa è rappresentata da una cura farmacologia a base di antidepressivi, antiossessivi e antifobici che inibiscono le pulsioni, calmano l’ansia e diminuiscono il desiderio stabilizzando l’umore. Drastica ma non risolutiva è la castrazione chimica. Essa agisce limitando la secrezione del testosterone, l’ormone maschile che regola lo sviluppo e le pulsioni sessuali, attraverso l’assunzione di antiandrogeni.

IL PARADOSSO

E’ un dato di fatto che la maggior parte dei pedofili rifiuta le terapie rivendicando la legittimità dei loro abusi, forti della convinzione secondo cui il bambino ha la facoltà di accettare o meno le avance dell’adulto.

Naturalmente le cronache al riguardo affermano l’esatto opposto.

La sessualità, a loro avviso, è un aspetto gradevole e fondamentale nella vita delle persone e non è da considerarsi ne maligna ne amorale.

Proprio per questo nascono le associazioni a tutela del “Diritto di libertà sessuale del bambino”,a loro avviso, oppresso da una società sessuofobica.

Secondo tali associazioni i veri danni provocati al bambino sono l’ansia di dover tener nascosti i “giochi” che fanno con gli adulti, i processi penali a seguito delle denunce e il comportamento dei genitori di eccessiva protezione verso i pedofili, che insegnano al bambino a ribellarsi condannandolo a morte.

Indebolire l’influenza dei genitori sui loro figli si pone, allora, come scopo essenziale.

L’associazione pro-pedofilia “The Slurp” ha stilato a tal proposito una lettera idealmente rivolta a tutti i bambini per convincerli a non aver paura e ad abbandonare ogni remissività.

Eccone brevi stralci.

“[…]Probabilmente qualcuno ti ha detto che puoi dire di no. […] Se qualche adulto ti chiede di fare delle “cose”, non devi farle. Questo, ovviamente, non si riferisce al fatto che tua madre ti dice di lavarti i denti. […]

Bene ricorda solo una cosa: se puoi dire no, puoi anche dire sì. Questo significa che se ti senti di fare qualche cosa, tu hai il diritto di farlo. Non importa quello che hanno detto i tuoi genitori. Perché è un diritto. Sei tu che puoi scegliere.”

E ancora.

“Talvolta gli amici con i quali ti diverti ti dicono di non raccontare agli altri quello che avete fatto insieme. […] Il motivo di ciò è semplice: se la gente scopre che hai fatto delle cose con un amico adulto, questo può farlo andare in prigione e rovinargli la vita.”

Risulta qui chiaro il punto su cui far leva. L’ingenua sensibilità del bambino e i sensi di colpa in lui generati. Il bambino, spinto dal timore di far accadere “qualcosa di brutto”, cede all’abuso. Si lancia, vittima sacrificale, fra le braccia dell’orco che lo ha ingannato con subdole parole e chiude, dietro di sé, la porta al dolce paradiso della tenera età.

I BAMBINI DI BARBABLÙ

L’esperto scrittore in scienze occulte Eliphas Lèvi nel suo libro del 1860, “De la Magia”, narra di come, secondo leggenda, trovarono fine i crimini di uno degli uomini più importanti della Francia quattrocentesca proprio per mano di sua moglie Catherine.

La donna, infatti, approfittando dell’assenza del marito e accompagnata dalla sorella Anna, decise di andare alla ricerca della porta di accesso alla piccola e misteriosa torre del castello di Machecoul, di proprietà del marito, incuriosita dalle luci rossastre che ogni notte vedeva muoversi all’interno di essa.

Un bottone di rame, dietro all’altare della cappella di famiglia, rivelò alle due sorelle i bui e sotterranei scalini che conducevano ai tre diversi livelli della torre.

Al primo livello vi era una piccola cappella con una croce capovolta, dei ceri neri e, sull’altare, una figura. Il demonio. Al secondo livello trovarono solo alcuni tipici strumenti alchemici, alambicchi, fornelli e carbone; mentre al terzo e ultimo piano l’aria era fetida, irrespirabile e l’oscurità profonda.

Catherine urtò inavvertitamente un vaso sporcandosi l’abito con una sostanza viscosa. Sangue.

Una volta abituata all’oscurità potè scorgere dei recipienti di rame datati e il cadavere sgozzato di un bambino adagiato su una lastra di marmo nero al centro della stanza. L’orrore fu agghiacciante e la fuga breve. Catherine si trovò faccia a faccia con il marito e il suo fidato seguace rientrato in anticipo al castello. A quel punto, Anna, intuite le intenzioni del cognato di uccidere la moglie, attirò l’attenzione di un gruppo di cavalieri chiedendo loro aiuto.

L’uomo, insieme ai suoi complici, fu quindi smascherato e portato alla forca.

La realtà storica, al contrario, vuole che furono le insistenti voci popolari a smascherare il colpevole convincendo il vescovo di Nantes ad inviare degli investigatori nelle dimore del signore di Rais. Giles de Rais, aiutato dalla sua corte, tentò di occultare il maggior numero di cadaveri, ma presto si rese conto che era inutile: i cadaveri erano troppi.

Il 14 settembre 1440 Giles venne arrestato con l’accusa di eresia, satanismo, sodomia e omicidio. Giles de Rais confessò il massacro di centoquarantanove bambini, per lo più maschi, in soli otto anni, dal 1432 al 1440.

Giles de Laval signore di Rais nacque nel 1404 come erede d’immense fortune, trascorrendo l’ adolescenza al fianco del cinico nonno paterno dopo la morte dei genitori. Appassionato lettore, soprattutto di ciò che riguardava

la Roma antica stimava e ammirava Caligola, riconoscendolo come un exemplum da seguire. Particolarmente dedito all’arte della guerra fu un generale degli eserciti impegnati nella lotta contro gli inglesi al fianco di Giovanna D’Arco, imparava velocemente le migliori tecniche per uccidere sfruttando i punti deboli degli avversari, assistiva personalmente ad ogni esecuzione cogliendo e gustando tutti i singoli attimi di sofferenza della vittima.

Attraverso la guerra egli poteva soddisfare il suo desiderio di morte e dolore.

Quando, nel 1424, Giles de Rais, entrò in possesso del suo intero patrimonio si dedicò al lusso sfrenato e alla collezione di reliquie ed oggetti sacri, crocefissi, calici,vasellame e posate d’oro, fece ricoprire l’armatura e gli strumenti bellici di perle e smalti, e arrivò persino a prestare del denaro al delfino Carlo VI senza mai chiederne la restituzione.

Punto d’incontro tra la ragione e la pazzia, Giles fu un cristiano praticante e nel contempo fautore di feroci crimini in nome di Satana.

Il primo bambino a scomparire nell’oscurità delle tenute di Rais fu Jean Jeudon, di appena dodici anni. Il bambino venne prelevato dalla bottega in cui lavorava come apprendista pellaio con la promessa di un futuro migliore alle dipendenze del signore, ma non fece più ritorno.

Al calare delle tenebre il signore di Rais, seguito dai suoi complici, tra i quali l’ufficiere delle messe nere e messaggero del demone Barron, Francesco Prelati, si chiudeva nelle sue stanze e dava il via a riti satanici, abusi sessuali su minori, torture, sevizie e uccisioni. All’alba Giles si recava in chiesa per assistere alla Santa Messa.

Il processo si concluse con la condanna a morte per Giles e i suoi complici. L’imputato chiese ed ottenne la scomunica, tenendo però nascosto il vero motivo che lo portò a spargere tanto sangue innocente: la ricerca della vita eterna e della pietra filosofale.

I suoi resti, infine, vennero sepolti nella chiesa di Notre Dame des Carmes.

Il tempo, si sa, cancella e modifica il ricordo così come per la gente di Nantes la figura di Giles de Rais si confuse e sovrappose con il protagonista di un’altra fiaba dell’orrore, non più l’uxoricida ma l’infanticida Barbablù.