Alle sette si alzò di scatto quasi come una molla, quasi come se il trillo feroce di quella sveglia fosse stato una liberazione. Non aveva dormito che poche ore, come sempre le accadeva prima di una partenza, di un viaggio o di qualche cosa di importante.

Scostò le tende della camera da letto e i tetti di Milano erano lì come sempre, immobili ed eterni, gelosamente avvolti in uno strato di nebbia densa che a quell’ora sembrava si potesse masticare, come lei testimoni muti e impotenti di giorni lunghissimi.

Si vestì con cura la signora Giuliana perché si era convinta che quel viaggio fosse importante, fondamentale, sentiva dentro di sé che quella strada da percorrere, a piedi perché di auto o mezzi in quei giorni non c’era nemmeno da parlarne, magari al freddo, avrebbe potuto, anzi dovuto darle le risposte che cercava da tempo, e se così non fosse stato…no! non ce la fece ad arrivare in fondo al suo pensiero; si calcò in testa il cestino di feltro verde scuro, si infilò i guanti, e con la fretta disperata e caparbia di chi ha poco tempo e troppa paura per permettere alla propria ragione di parlare, si precipitò verso la porta.

Ferma sull’ingresso esitò un istante, si voltò piano e realizzò d’un tratto che era ormai da tre anni che non usciva più di casa se non per la spesa quotidiana e che comunque non si era mai spinta oltre il mercato all’angolo o la bottega del droghiere, e soprattutto la raggiunse il pensiero, violento come uno schiaffo, che quello era il primo viaggio che faceva senza suo marito al fianco, il primo da quella sera di febbraio di tre anni prima quando sulla porta, dalla stessa identica posizione in cui si trovava lei ora, con una piccola borsa tra le mani e i due smeraldi di sua suocera cuciti nel risvolto dei calzoni, lui l’aveva salutata raccomandandole di non preoccuparsi ed era fuggito cercando salvezza alle volte della Svizzera.

Riosservò allora per un attimo casa sua, come si fa d’istinto prima di uno spostamento importante; accarezzò con lo sguardo il salotto con i tendaggi pesanti, i velluti sbiaditi delle poltrone, la sagoma del vecchio pianoforte contro la tappezzeria cremisi, silenzioso testimone di quel benessere e di quella normalità che erano spariti anni prima, inghiottiti nella nebbia fumosa di una sera di febbraio, insieme al suo Luigi ed al resto della sua vita.

Chiuse in fretta la porta serrando gli occhi in un’espressione contratta e scese le scale.

Già dal ballatoio del primo piano la raggiunse un tramestio scomposto che proveniva dalla strada, si fermò un attimo come se improvvisamente tutte le sue certezze sul viaggio di quella mattina vacillassero pericolosamente come un’impalcatura travolta dal vento, ed ebbe l’istinto di reggersi più forte al corrimano di ottone, trasalì  al “buongiorno” sguaiato della signora Bassi che rientrava curva sotto al peso di borse stracolme; questa la guardò con aria che sembrava cercare una complicità che non c’era, e accennando con la testa alla porta del podestà Ruffini ghignò soddisfatta: “oggi mi sa che non escono neh?!”, e nella voce di quella donna colse una volgarità indefinita e molesta che si colorò di osceno, e che le fece quasi paura.

Si precipitò fuori dal portone senza rispondere.

Si incamminò per Corso XXVIII Ottobre cercando di allontanare dalla sua mente tutto, la signora Bassi, il podestà Ruffini, tutta quella squallida miseria che aveva ormai corroso uomini e cose; svoltò in una traversa laterale per evitare la ressa di persone che le rallentasse il cammino ed avanzò spedita mentre la città rimbombava di uno strano fervore che sembrava voler bucare quella coltre rigida e fredda che ancora la imbrigliava; il sole era alto e chiaro ma respinto a tratti da un’aria pungente nonostante fosse ormai aprile avanzato, quasi faticasse a lasciarsi alle spalle quell’inverno terribile che durava ormai da troppi anni.

Camminava calma ma decisa la signora Giuliana, pareva non accorgersi nemmeno della tanta gente che ingombrava le strade muovendosi qua e là disordinatamente: non li vedeva, passava loro accanto con gli occhi fissi e severi sopra il naso aquilino che sembrava sferzare il vento in un’espressione quasi immobile e camminava… e camminava.

Milano dolente le si srotolava accanto, mostrando ad ogni suo passo le ferite ancora aperte di quella guerra; accanto a lei la gente si accalcava, davanti alle case con i tetti colpiti e le facciate annerite, davanti ai cumuli di macerie ancora accatastati agli angoli delle vie, e pareva quasi felice.

I segni di quegli anni erano tutti lì, in faccia alla città come profonde rughe di dolore, erano i segni della paura e delle bombe, delle sirene continue e delle corse in cantina, e più cupi ancora erano i segni della morte e delle deportazioni, di quei rastrellamenti che nei casi più fortunati, come il suo, volevano dire fuga, fuga in una speranza che giorno dopo giorno si era deformata però in ansia, angoscia e solitudine.

Accelerò il passo la signora Giuliana, sentiva che quei pensieri battenti stavano diventando insopportabili, doveva sbrigarsi ed arrivare a destinazione, doveva quel suo viaggio servire a qualche cosa, no? doveva restituire un senso, una speranza, doveva…. doveva e basta.

Si strinse il piccolo collo di pelliccia come a proteggersi dal freddo di quella mattina e dal gelo dei suoi pensieri e continuò ad attraversare la città percorrendo le stesse vie in cui sognava ogni sera, da più tre anni, di vedere ad un tratto suo marito svoltare l’angolo e salutarla, con il sorriso pacato e timido sul quel volto che ormai si stava appannando anche nei suoi ricordi.

Un camioncino sovraccarico di uomini e bambini urlanti le tagliò la strada obbligandola a fermarsi; cominciò a sentirsi stanca ma proseguì girando l’angolo di Viale Padova, la sua meta si stava avvicinando e i suoi tacchi volavano sopra il porfido sbrecciato, camminò ancora, poi si accorse che cominciava a sudare sotto al collo di lapin gualcito e si sentì d’un tratto inspiegabilmente invasa da un’emozione indefinita e squassante che le deflagrò dentro paralizzandola.

Era paura.

Era arrivata.

Piazzale Loreto era invaso da una folla irreale, lei cercò di fare breccia in quel muro di corpi ed in quella sensazione di tacita impotenza che sentiva tentare di sopraffarla, si spinse avanti quanto più poteva e riuscì con fatica a scorgere sul lato opposto le pompe del distributore di benzina, brillanti sotto al sole placido; vagò un po’ intorno con lo sguardo come a cercare qualcosa, poi li vide.

I corpi pendevano pesanti oscillando solo lievemente, umano simbolo di una disumana storia; restò a guardarli a lungo immobile la signora Giuliana con le labbra strette e i pugni serrati, quasi dovessero dirle qualcosa: ecco le sue mute risposte, ecco il senso del suo viaggio e della tortura di tutti quegli anni, eccola infine giunta a quell’atteso appuntamento con se stessa da cui cominciava ad intravedere i tratti di una devastante definitezza.

La sfiorò come un accenno di stupore nell’accorgersi che tutto intorno a lei si muoveva ancora e che il tempo continuava a scorrere, irrispettoso e indifferente anche di fronte alla disperata importanza del suo viaggio.

“E adesso?” le sussurrò spietato in testa un pensiero.

Esitò.

“…Adesso deve essere finita” pensò poi, “…e Luigi tornerà… salvo… e felice, sarà solo questione di giorni… pochi giorni…, sì, è senz’altro così…”, e con la risolutezza caparbia che solo il bisogno più cieco può generare, si fece largo tra la gente.

Si aggiustò il cappello con un gesto delicato e istintivo, e riprese il suo viaggio verso casa.