Cina, dinastia Han. Spronato dal suo insegnante monaco buddhista, l’ingenuo e devoto calligrafo Ho (Shi Jun) decide di rifugiarsi presso un luogo appartato nelle montagne per poter trovare la giusta tranquillità necessaria al compito che gli è stato affidato: copiare in bella calligrafia un sutra potentissimo, che permette di raggiungere uno stato di purezza infinita se recitato nella maniera giusta. Quello che Ho ancora non sa, però, è che quello stesso sutra, se giunto in possesso degli spiriti maligni, permette non solo a questi ultimi di reincarnarsi, ma anche di aprire i cancelli dell’inferno all’accesso del male, popolando il mondo di demoni maligni. Trovando rifugio presso i pochi superstiti a una violenta tragedia, che ha visto la concubina dell’imperatore togliersi la vita dopo la morte di quest’ultimo, Ho rimane colpito dai modi cortesi dei suoi ospiti, i cui modi ambigui non destano in lui alcun sospetto circa le loro reali intenzioni. Ma soprattutto, Ho sembra particolarmente “stregato” dalla bella Melody (Xu Feng), che finisce per irretirlo e sposarlo, bloccando lo studente a casa propria. Ogni tanto, però, la presenza di un monaco sembra turbare la compagnia di ospiti da cui Ho è circondato, ma la sua passione accecante per Melody non gli fa capire la vera natura di quella presenza. Finché una visita imprevista a una locanda, gestita dalla bella Cloud (Sylvia Chang) e da sua madre, non gli annebbia ulteriormente il cuore e la mente, finendo per farlo innamorare con altrettanta facilità della ragazza, che gli era apparsa spesso davanti non appena giunto sulla montagna. Cloud sembra provare dei sentimenti autentici per Ho, mentre Melody sembra nascondere qualcosa di agghiacciante, ma la lotta fra le due donne non tarderà a venire, rivelando ben più di una sorpresa su tutte le persone che hanno accolto Ho presso la loro dimora.

Diretto nel 1979, Legend of the Mountain di King Hu segnò con la sua uscita il declino della popolarità del regista, giudicato qui in particolare troppo lento e oscuro. In realtà, lungi dall’essere un film disprezzabile, Legend of the Mountain presenta molte delle caratteristiche più tipiche del regista e insieme un loro sconfinamento in possibili traiettorie diverse, in nome della creatività e dello sperimentalismo tout court, che spesso purtroppo risulta poco gradito sia ai produttori che al grande pubblico. Utlizzando nuovamente i due attori principali di A Touch of Zen, Shi Jun e Xu Feng, il primo in una variante più elaborata del personaggio già visto nel capolavoro assoluto del regista, la seconda in un ruolo altrettanto caparbio di quello della spadaccina ma molto più perverso e spietato, King Hu sembra quasi voler tornare sui suoi passi, per imbastire una storia dagli ingredienti a lui consueti: lo studente timido e debole, la donna coraggiosa e volitiva e, last but not least, la presenza non secondaria del monaco come arma salvifica definitiva. In realtà, però, se A Touch of Zen rappresenta il palese precedente illustre di molti wuxia pian di successo made in Hong Kong e non solo, fino a La tigre e il dragone che ne omaggia apertamente delle sequenze di combattimento, Legend of the Mountain assume in retrospettiva una valenza fondamentale per il filone di pellicole hongkonghesi più orientate verso le storie di fantasmi, che vede nella trilogia di Storia di Fantasmi Cinesi di Tsui Hark e Ching Siu–Tung (soprattutto il primo capitolo, il migliore) il discendente più efficace ed evidente. Il tocco caratteristico che King Hu imprime alla propria storia, e che ne determina la peculiare “lentezza” che ha fatto storcere il naso a molti, trasforma però il tono generale della narrazione, spostando l’attenzione non sull’apparizione e sull’esplicitazione della verità (che in futuro porterà il segno dell’etereo, come nella Joey Wang del già citato Storia di Fantasmi Cinesi) ma sulla vaghezza e la pura supposizione. Nulla viene mai detto a chiare lettere se non alla fine, e gli spettatori stessi possono solo intuire quello che Ho sembra incapace di sentire, perché accecato dalla stregoneria. Alla fine, quello che conta non è tanto ciò che si vede, quanto piuttosto le suture poste fra una visione e l’altra, i tagli di silenzio posti dal coro di personaggi che si coalizzano contro Ho per sottrargli la visibilità di ciò che è al di là del reale, quell’invisibile che è ben più fosco delle semplici nuvole che avvolgono la foresta e ben più assordante della musica creata dal tamburo di Melody. Il ritmo estenuante dei fatti, accentuato dagli “intervalli” erotici e naturalistici inseriti dal regista, servono in realtà ad aumentare la tensione ponendola al servizio del mistero irrisolto. Tutto si risolve nell’amarezza, e se il finale mistico di A Touch of Zen donava una speranza sulla solidità della religione e della purezza di spirito rispetto al combattimento, i mantra intonati dai monaci in Legend of the Mountain sembrano non donare alcuna certezza, ma solo malinconia.

Non disponibile in Italia, come purtroppo la maggior parte dei film del grande regista hongkonghese, Legend of the Mountain è reperibile in versione originale non restaurata (con audio pessimo) e sottotitoli (non sempre corretti) in inglese sul sito YesAsia.com:

http://global.yesasia.com/en/PrdDept.aspx/code-c/section-videos/pid-1001822308/