È indubbio che il lascito principale del movimento Dogma ’95 sia stato quello di far ragionare sulla natura del cinema, opponendosi alla sua massificazione commerciale, per rilanciare un’ipotesi di rappresentazione e di indagine "sincera" della società, aliena da ogni facile sociologismo, in modo da fornire allo spettatore uno strumento per riflettere e riflettersi sul grande schermo. Non a caso, Susanne Bier, certamente una delle registe nordeuropee più significative, dopo il "dogmatico" Open Hearts, ha conservato in Non desiderare la donna d’altri e in questo suo nuovo, bellissimo, Dopo il matrimonio (tutte pellicole scritte da Anders Thomas Jensen, anche regista in proprio e autore, tra le altre cose, del formidabile Le mele di Adamo), quella "sincerità", che costituiva il retroterra del decalogo di Lars Von Trier e soci. "Sincerità" che lì si traduceva in una sorta di francescanesimo filmico con il rifiuto di qualsivoglia artificio formale (luce e suono naturali, nessun oggetto costruito dagli attori, nessuna colonna sonora extradiegetica), qui invece, oltre che nell’uso della camera a mano, nei numerosi primissimi piani degli attori e nelle numerose “infrazioni” alle regole del decoupage classico, nell’ansia dei personaggi di conoscere tutta la verità sui fatti, di chiarire quanto più possibile la propria condizione, di mettere alle strette ogni forma di ipocrisia. Aleggia, infatti, in tutto il film quel legame tra etica protestante e spirito del capitalismo, spiegato da Weber agli inizi del Novecento, secondo cui in virtù della dottrina della predestinazione l’uomo non ha altro mezzo per verificare di far parte del numero degli eletti di Dio, che attenersi a una condotta di vita moralmente irreprensibile, a una costanza del lavoro e a una gestione oculata del denaro guadagnato, che non va dissipato in divertimenti futili o in lussi, ma reinvestito, determinando quella accumulazione che è una caratteristica fondamentale dell’economia capitalistica.

Non a caso, in Dopo il matrimonio, i profitti del buon miliardario sembrano accompagnati dal favore di Dio. Ma viene anche sottolineato come i miliardi devoluti in beneficenza servono anche a scaricare le tasse, oltre ad essere forse in prospettiva un buon investimento. Ma più in generale, il film ci mostra come la vita dell’uomo scorre indipendentemente dal proprio volere: ogni qual volta ci si illude di controllarla, si viene richiamati all’ordine. Peraltro, ciò che a prima vista sembra negativo può alla distanza diventare positivo per le persone alle quali si vuole bene e divenire una straordinaria prova d’amore.

È l’insegnamento di un film diretto con grande maestria e con una perfetta conoscenza dei tempi e dei modi cinematografici, da Susan Bier (che ha da poco ultiminato le riprese del suo primo film hollywoodiano, Things we lost in the fire, con Halle Berry e Benicio del Toro), forte di una sceneggiatura da manuale, capace di superare sempre la trappola del sentimentalismo, di alternare con disinvoltura detto e non detto, di non eccedere in spiegazioni e di risolvere la complessità dell’intreccio senza far ricorso ad alcuna soluzione estemporanea. Se aggiungiamo un cast straordinario, capitanato da Mads Mikkelsen nel ruolo di Jacob, l’uomo da anni volontario in India, dove è riuscito a sfuggire alla sua condizione di alcolizzato e anima perduta, costretto a fare i conti, tornato in patria, con un pezzo del suo passato, che inevitabilmente gli cambierà la vita; dallo svedese Rolf Lassgård, assolutamente straordinario nella parte di Jørgen, il ricco investitore, e dalla sensibilissima Sidse Babett Knudsen in quella della moglie Melene, il risultato è uno dei film migliori del 2006.

Vito Santoro

C’è più di qualche mistero in Danimarca. Perché Jacob, ormai da anni impegnato in attività di volontariato in India a favore dei piccoli orfani, riceve una proposta da Jørgen, ricco uomo d’affari che gli offre una sostanziosa somma di denaro per continuare la sua attività a patto che lui torni in Danimarca per firmare il contratto? È perché una volta giunto a destinazione Jacob scopre che la data per la stipula del contratto è fissata il giorno dopo il matrimonio della figlia di Jørgen? Sarà poi una semplice coincidenza che Helene, la moglie di Jørgen, sia stata un tempo lontano la fiamma di Jacob?

Mentre le domande che Dopo il matrimonio pone troveranno ognuna la propria risposta (forse con qualche anticipazione di troppo…). Mentre il film marcerà verso la soluzione, mentre il disequilibrio si muoverà verso un nuovo equilibrio, a restare nella memoria sarà un certo modo radicale da parte della Bier di ricorrere all’ellissi. Esempio: un personaggio piange e impreca contro l’atroce destino che lo vede condannato a morire per una malattia letale. La moglie cerca inutilmente di consolarlo (il tutto si svolge nella camera da letto della coppia). Stacco. Funerale, bara, parenti in lacrime, sepoltura, etc. etc. Non parliamo di microellissi, (tra l’altro spalmate lungo tutto il film, piccoli pezzi che mancano nella continuità della scena, piccoli passaggi che ci aspettiamo di trovare e invece finiscono inghiottiti nelle pieghe del montaggio…), parliamo di grosse fette di narrazione. Niente sguardi altrove, niente parallissi. Molto semplicemente si sorvola del tutto sulla malattia, l’ospedale, la cura, il progressivo decadimento, le ultime parole, etc. etc.

In qualche modo affascinante.

Sergio Gualandi