John Cameron Mitchell è una delle personalità artistiche più interessanti della scena gay newyorkese, rivelatasi cinque anni fa con Hedwig - La diva con qualcosa in più, sua opera prima, di cui era anche il protagonista nei panni dell’eponima drag queen alla continua ricerca dell’amore e di una peculiare identità. Oggi, dopo una lunga gestazione – tre anni sono stati passati dal regista con alcuni attori in un workshop d’improvvisazione, necessario per lo sviluppo dello script – Mitchell ci propone Shortbus, presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes e uscito in Italia in sessanta copie invece delle cento previste, dato il rifiuto da parte degli esercenti – che hanno dato ancora una volta prova di insipienza e imbellicità – di proiettare il film per le scene hard core che lo caratterizzano. Infatti, in questa pellicola gli attori fanno sesso sul serio e non vengono risparmiati allo spettatore numerosi primi piani di genitali eretti, nonché penetrazioni, eiaculazioni, fellatio, orge etero e omosessuali.

Insomma, tutto l’armamentario di un porno, con l’aggiunta di un che di grottesco: si pensi alla autofellatio acrobatica di apertura (pratica di cui si è sempre – secondo una leggenda metropolitana – considerato un virtuoso il poeta Gabriele D'Annunzio e più di recente il pornodivo Ron Jeremy, leggendario protagonista di Gola profonda) oppure al "gruppo" omo a tre, stile Laocoonte, durante il quale uno dei partecipanti canta l’inno americano usando a mo' di megafono l’orifizio anale di un altro. Ma la differenza sostanziale con un film a luci rosse sta nel fatto che qui il sesso non è il fine ultimo della rappresentazione, ma è parte integrante della vita dei personaggi, esattamente come avviene o dovrebbe avvenire o si presume che avvenga nella vita di tutti noi.

Lo Shortbus del titolo è un locale, dove tutto è permesso – così si legge nel manifesto – luogo di incontro di una varia umanità, che ha avuto nell’attentato alle Twin Towers l’unico vero momento di vita vissuta. Una umanità "permeabile", che sente su di sé le colpe del mondo, come dice il personaggio del vecchio ex sindaco. Una umanità alla deriva, alla continua ricerca di una definizione emotiva per la propria vita e per il proprio mondo. Un insieme di volti, esperienze ed emozioni, che si dà appuntamento in questo piccolo universo, che sembra provenire dritto dritto dagli anni Sessanta: una grande alcova dove il corpo (e la mente) possono vagare liberi e conoscere e rispettare se stessi e gli altri grazie all’atto sessuale, visto utopicamente come un linguaggio capace di esprimere al meglio quanto è riposto nei meandri più profondi della psiche. Anche se nella N. Y. post 11 settembre, la maggior parte dei rapporti sessuali non possono che rivelarsi inconcludenti e insoddisfacenti ("Com’è stato il tuo ultimo orgasmo?" chiede il cliente alla prostituta dominatrix. "Fantastico – risponde la donna – mi sembrava di essere sola e al buio". "Eri triste dopo?" "Sì" "Perché?" "Perché mi sono accorta che non ero sola e al buio").

Animato da dialoghi vivaci e intelligentemente scurrili; interpretato da attori sconosciuti, ma capaci di amalgamarsi l’uno nell’altro tanto da formare un unico grande personaggio, il cui cervello è rappresentato dalle stanze e dai corridoi dello Shortbus; inframezzato dalle animazioni di John Bair, in cui si sorvola la metropoli americana a volo d’uccello, l’opera seconda di Mitchell è l’efficace affresco di un mondo ridotto a deserto del reale, popolata da fantasmi, più o meno "reali", testimoni di un’invisibilità rispetto al contesto e agli oggetti che li circondano. Fantasmi ripiegati su stessi, assenti, staccati dal tempo, che continua intorno ad essi, le cui uniche testimonianze di vitalità rimangono le prestazioni del corpo. A esso appartengono gli ultimi, inestinguibili sussulti di energia, una reattività che ha origini profonde e che, se non arresta le derive della mente, almeno rende possibile qualche avvicinamento, qualche tensione e la percezione di sé nell’urgenza imprescindibile della pulsione e del patimento. Sostiene non a caso, Justin in quella che è la battuta chiave del film: "Una volta volevo cambiare il mondo. Adesso mi basta lasciare questa stanza con un po’ di dignità".