“Il bisogno d’amore è l’esperienza centrale della nostra esistenza. Per quanto possa sembrare insensato ci sentiamo veramente vivi solo quando abbiamo un dardo nel fianco che ci trasciniamo dietro giorno e notte, ovunque andiamo. Il bisogno d’amore spazza via ogni altro bisogno e d’altra parte motiva tutte le nostre azioni”. Così si esprimeva Elena Ferrante a proposito del suo romanzo del 2002, I giorni dell’abbandono, per poi sottolineare che “in un certo senso la sottrazione dell’amore è l’esperienza comune più vicina al mito della cacciata dal paradiso terrestre, è la fine violenta dell’illusione di avere un corpo celeste, è la scoperta della propria in essenzialità e deperibilità” (entrambe le dichiarazioni sono state ricavate dal libro La frantumaglia, sorta di zibaldone della misteriosa scrittrice napoletana, uscito nel 2003). Del resto, aggiungeva la Ferrante, di storie di destrutturazione di personaggi femminili è piena la letteratura mondiale fin dalle sue radici: basti pensare al libro IV dell’Eneide, dove “la costruzione di Cartagine si ferma quando Didone si innamora”.

Dunque, la perdita dell’amore costituisce il nucleo tematico essenziale dell’opera narrativa della scrittrice. Una perdita che conduce all’esplorazione della propria interiorità attraverso una dolorosa rilettura delle schegge del proprio passato, le cui scorie, incancellabili, continuano a intossicare il presente. Rilettura che si traduce in un racconto in prima persona, caratterizzato dall’uso continuo dell’imperfetto, cioè il tempo verbale che mette in primo piano l’aspetto durativo dell’azione.

Racconti di un io femminile destrutturato; storie di un durissimo percorso alla ricerca dell’essenza più intima e misteriosa della propria individualità, da raggiungersi anche al prezzo di sottrarsi alle leggi della morale ufficiale; narrazioni "minimali" dalla struttura geometrica, in cui attraverso pochissimi fatti viene sviluppato uno studio scientifico sui drammi dell’anima, i tre romanzi di Elena Ferrante costituiscono un corpus quanto mai omogeneo, tanto da potersi leggere come un unico libro, di cui questo La figlia oscura, da poco nelle librerie e già venduto in 15 paesi alla Fiera di Francoforte, è il terzo capitolo, che chiude il cerchio iniziato con L’amore molesto del 1992 e I Giorni dell’abbandono del 2002.

Nel suo ultimo romanzo la Ferrante racconta la storia di Leda, quarantottenne ancora molto piacente, docente universitaria di letteratura inglese, da tempo separatasi dal marito e da qualche settimana anche dalle figlie ormai adulte, che hanno raggiunto il padre in Canada. Separazione questa che non le causa alcuna sofferenza. Anzi: “Scoprii - confessa la donna - con imbarazzata meraviglia che non provavo alcun dolore, ma mi sentivo leggera come se solo allora le avessi definitivamente messe al mondo”. Rimasta sola in casa, la professoressa cambia la sua routine quotidiana, rinunciando alla donna delle pulizie e limitando i pasti a uno al giorno, per giunta in trattoria. In vacanza in una località dello Ionio con la sola compagnia dei suoi libri, Leda entra in contatto con una zotica famiglia napoletana, formata da "uomini pesanti coi visi sbiaditi, donne di brutta ricchezza, bambini obesi". “Persone cattive” le definisce il bagnino.

In particolare, l’attenzione della donna è attratta dalla giovane Nina e dalla sua bambina Elena, che sembrano diverse, quasi estranee a quel nucleo familiare. La piccola è quasi sempre triste, ed è molto legata alla madre e a una brutta bambola, tutta sporca di segni di biro, su cui riversa un affetto materno.

Leda finisce quasi con l’identificarsi con la giovane madre, la cui vicinanza sembra innescare in lei una riflessione sul rapporto ambivalente, “complicata alternanza di simpatia e antipatia”, che ha maturato negli anni con le sue stesse figlie. Infatti, la donna, dopo averle molto volute, le ha abbandonato per tre lunghi anni, quando erano piccole, senza mai farsi sentire, per poi tornare sotto il tetto familiare. Il tutto solo per amore di se stessa, per la ricerca di “un groviglio confuso di desideri e molta presunzione”. Ma, oltre a questo "peccato originale", Leda deve fronteggiare un altro fantasma del passato, quello della madre con la sua femminilità arcaica, assolutamente matriarcale, di fronte alla quale si sentiva annichilita (“Lei sprigionava un calore vitalissimo, io invece mi sentivo fredda come se avessi le vene di metallo”).

Questo continuo andirivieni tra presente e passato fa sì che la donna si trovi al centro di un gorgo emotivo, maturando nel suo intimo una “frantumaglia”, una situazione di malessere indefinibile, in cui si affollano nella testa tutta una serie di pensieri eterogenei, dalla quale si può uscire solo con un trauma, con un atto violento che in qualche modo avvicini alla morte.

“Sono morta, ma sto bene” è la frase che, non a caso, conclude il romanzo.

Un bel romanzo fatto di amore e sangue.