Spagna, 1944. Ufficialmente la Guerra Civile spagnola è giunta al suo epilogo, ma un piccolo gruppo di ribelli continua a lottare asserragliato sulle montagne a nord di Navarra. La piccola Ofelia è in viaggio insieme a sua madre Carmen verso la località per raggiungere il nuovo patrigno, il Capitano Vidal…

Se c’è un film agli antipodi rispetto a Requiem, questo è Il labirinto del fauno, del messicano Guillermo Del Toro. Tanto il primo si mostrava aderente alla cruda realtà dalla cui esplorazione traeva la sua innegabile efficacia, tanto questo sceglie come cifra stilistica la frattura, scindendosi sin da subito in una dimensione storico-reale rappresentata dalla Guerra Civile Spagnola (già esplorata da Del Toro con La spina del diavolo del 2001) seppure fotografata nei suoi ultimi sussulti sanguinosi, ed una dimensione di pura fantasia.

A far la spola tra i due mondi la piccola Ofelia, forse l’unico essere vivente ancora incorrotto e destinata, nell’altro mondo annunciatole dal Fauno del titolo, al ruolo di regina.

La contrapposizione tra i due mondi non deve però trarre in inganno, giacché l’impermeabilità di ciascuno dei due all’altro è tangibile.

Ne segue che sì Ofelia si troverà a far da spola tra il primo e il secondo, ogni volta per portare a termine un compito assegnatole dal Fauno, ma nulla di quanto accade nell’uno ha effetti concreti sull’altro.

In fin dei conti Del Toro sembra più interessato al mondo reale, quello feroce e insanguinato dagli scontri tra i Republicanos e Nacionales, interesse che si traduce nel tracciare di continuo un confine oltre il quale la ferocia sembra non potersi spingere, per poi sistematicamente oltrepassarlo.

Se così non fosse non troverebbero spiegazioni gli svariati e a tratti pesantissimi momenti di crudeltà tutti sistematicamente ruotanti attorno al martirio della carne, tutti girati senza stacchi, tutti invariabilmente con una massiccia dose di compiacimento, momenti di crudeltà sulla cui funzione (denuncia, catarsi, semplice esercizio di stile?) e lecito nutrire più di qualche dubbio.

In tale clima giganteggia nella sua efferatezza Sergi Lopez, vera e propria icona trasversale di tanto cinema magari non famosissimo (e che mai lo sarà…) ma che c’è da star certi non sbaglia un personaggio che è uno (vero Nicholson/Costello?).

In concorso al 59mo Festival di Cannes (2006).