Quello ha una faccia che mi significa, dico.

Dev'essere sui settant'anni, è entrato nel bar da una decina di minuti e si è seduto a un tavolo. Ernesto gli ha portato qualcosa da bere, un bianco mi pare, ma non è questo il punto. È che da qualche parte, chissà quando, l'ho già visto.

Chiedo a Ernesto se lo conosce, lui fa spallucce. Non parla tanto, Ernesto, ma è chiaro che non l'ha mai visto prima. Questo è il bello della città, entri in un bar dove non hai messo mai piede e non sei più nessuno, non hai un nome, una storia; dalle mie parti, al mio paese, la storia ti rimane appiccicata alla faccia, e anche il nome. Solo che in genere non è quello che t'hanno dato tuo padre e il prete ma quello che ti hanno rifilato i compaesani, e spesso non è nemmeno il tuo, è quello che i loro nonni avevano dato a tuo nonno. È per questo che me ne sono andato dal mio paese, tanto tempo fa: lì non potevi entrare in un bar e nessuno sapeva chi eri.

Questo qui non lo so se voleva rimanere uno sconosciuto quando è entrato, ma se è così gli è andata male, perché più ci penso più sono convinto di averlo già visto.

Ha la faccia di uno che ne ha passate parecchie, e molte avrebbe preferito non passarle; i capelli, bianchi di un bianco giallastro, sono scomposti e lucidi, dev'essere un bel po' che non vede un barbiere. Il viso sembra sfregiato a rasoiate da quante rughe ha, è la pelle di un contadino, uno che ha passato la vita all'aria; e anche gli occhi, sono chiari e infossati tra zigomi e sopracciglia, hanno la stessa intelligenza scaltra e spiccia.

Il bianco va via anche troppo velocemente, e il gesto che quello fa a Ernesto per ordinarne un altro ha la noncuranza di un'abitudine inveterata. Ernesto deve aver notato che i vestiti del tipo non sono più puliti dei suoi capelli e più che altro paiono raccattati davanti a una chiesa, perché i due bianchi se li è fatti pagare subito.

Con me è diverso, Ernesto mi conosce e si fida; anche se i miei vestiti non sono in condizioni molto migliori di quelli del tipo seduto al tavolino, non mi chiede i soldi finché non ho finito di bere, e qualche volta mi fa anche credito. Non sempre, però, e non credo che gli faccia molto piacere. Non fa piacere nemmeno a me, non mi va di avere conti in sospeso, e per fortuna non capita spesso; ma ogni tanto succede che le cose non girino per il verso giusto.

A un certo punto quello dei due bianchi fa una cosa: si tira su dritto, e si guarda intorno. Detta così sembra una fesseria, ma è il modo come l'ha fatto, a farmelo riconoscere.

Non si è alzato in piedi, ha solo raddrizzato il busto, e l'occhiata che ha fatto girare per il bar è durata pochi istanti, la testa s'è mossa di pochi millimetri; però in quell'attimo il tipo ha dominato la sala. E in quell'attimo l'ho riconosciuto: come se con quel gesto si fosse scrollato di dosso gli anni e le rughe, ho visto il suo volto come lo ricordavo, sotto la scorza che gli è cresciuta attorno col tempo. Lo chiamavano Aquilotto, proprio per quel modo che aveva di tirarsi su e guardarsi intorno, che si capiva che aveva visto tutto, il campo e il gioco.

Mi avvicino al suo tavolo; lui mi guarda ma non dice niente. Gli faccio "Posso?" e lui ancora non dice niente, ma storce un po' le labbra in giù e muove il mento, come a dire "Fa' un po' tu". Mentre mi siedo allungo due dita in direzione Ernesto e poi le piego verso di noi. Altri due bianchi, vuol dire.

"Tu sei l'Aquilotto, vero?" dico. Ci pensa un po' prima di rispondere "Manfredi Gianfranco. L'Aquilotto è roba di troppo tempo fa. Ci conosciamo?"

Non sembra diffidente, è che proprio non si spiega che l'abbia riconosciuto; da quando ha smesso saranno passati più di trent'anni, e non credo che abbia più fatto niente dopo. A dire la verità, anche quando giocava non è che fosse famosissimo. Bravo, sì, ma non è mai andato oltre la B, e anche lì per poco. Scuoto la testa "No, ti ho visto giocare".

Ernesto arriva con i due bianchi. Glieli pago subito anche io, un po' per non mettere in imbarazzo l'Aquilotto un po' perché così è chiaro che io pago 'sti due e basta.

"Dovevi essere in fasce quando mi hai visto" dice lui. Anche se non è che sia messo benissimo, lo so che i miei quaranta li porto bene. Sarà per via degli occhi e che ho tutti i capelli, neri. "In che squadra giocavo?" mi chiede.

"Gribaudense" dico io. Lui scuote un po' la testa. "Ah, be' allora…".