Aprì gli occhi di colpo e subito incontrò l’orologio appeso alla parete che era perfettamente all’altezza del suo sguardo: le sei precise.

Capì di essersi addormentato. “Dio, ma come ho potuto dormire?” pensò, e gli parve di sentire dentro di sé una nascosta vergogna, più forte della stanchezza, del sonno, di quelle quattro ore durante le quali non si era mosso dalla scomoda sedia di quella clinica.

Si alzò e buttò un occhio fuori dalla finestra. Pioveva ancora a dirotto, una pioggia fitta e testarda che picchiava decisa dalla sera prima coprendo tutta la città che ora sembrava abbandonarsi indifesa sotto a quel bagno di cui quasi non si sentiva più il rumore; guardò lo scorcio di via Sforza, ampia e regale nel traffico rado di quell’alba estiva, rivide il semaforo all’angolo della via il cui lampeggiare intermittente gli aveva tenuto compagnia per tutta la notte, la pensilina dell’autobus, il chiosco del fioraio chiuso con il lucchetto e qualche auto che sfrecciava veloce accanto alla corsia ciclabile, lucida e deserta.

Si girò di scatto sentendo dei passi, “mia moglie?” chiese all’infermiera; quella lo guardò con un fugace bagliore di indulgenza che per un attimo le attraversò gli occhi mettendoli in uno strano contrasto con il viso ferreo, e abbassando appena le palpebre si limitò a sussurrargli “scenda a prendere una boccata d’aria… mi dia retta”.

Giù all’ingresso principale superò l’usciere mezzo addormentato dietro a un cruciverba e uscì nello spiazzo coperto.

Diluviava; osservò a lungo la strada stretta e silenziosa che pareva annaspare sotto tutta quell’acqua, sul marciapiede di fronte il giornalaio lottava contro l’ombrello e la saracinesca dell’edicola che non si voleva aprire; guardò in alto e benché fosse quasi l’alba il cielo era ancora scuro ed ostile come all’una di notte, proprio quando sua moglie aveva cominciato a stare male.

Si appoggiò alla balaustra e si accorse che sudava nonostante l’aria fresca di quei primi d’agosto piovoso lo pungesse cattiva sotto alla camicia leggera; si trovò a ricordare, quasi senza rendersene conto, gli anni della sua adolescenza non appena lo sguardo ancora un po’ intorpidito gli andò a sbattere contro i cancelli della scuola in fondo alla via dove aveva frequentato il liceo, vagò veloce tra corse in ritardo con i vocabolari in mano a partite a pallone nei campetti all’angolo, poi d’improvviso lo squarcio di un tuono lo riportò bruscamente al presente e all’agitazione che lo stringeva dalla sera prima: la concitazione, l’ansia, la corsa attraverso la città sotto a quel tempestio battente sul parabrezza; ripassò con la mente per la periferia addormentata, sotto ai palazzi eleganti del centro, fiancheggiò i giardini fradici e riattraversò idealmente la piazza con l’obelisco che, allagata, gli aveva impedito il passaggio facendogli balenare il dubbio e la paura che non fosse stato meglio chiamare un’ambulanza.

Sentì di avere freddo e decise di rientrare dopo un’ultima sigaretta, guardò l’orologio che aveva al polso: le sei e venti.

Al secondo piano si fermò alla macchinetta del caffè, era pressappoco la quinta sosta della notte, si risedette sulla scomoda sedia che ormai faceva parte di lui mentre fuori dalla finestra pioveva ancora anche se su uno sfondo meno nero. Provò a chiudere gli occhi ma subito li spalancò sentendo sua moglie lamentarsi e quelle grida, sebbene attutite, echeggiarono nel corridoio e dentro di lui come il fragore di un’esplosione, fissò l’orologio al muro: le sei e quaranta.

Si guardò di nuovo intorno perché non sapeva cos’altro fare mentre quel senso di impotenza terribile riusciva solo ad amplificare la sua agitazione, da ore la stessa scena: sedia, orologio, distributore del caffè e fuori Milano, che si purificava in silenzio.

I lamenti aumentarono fino a fargli male alle orecchie e alle mani che si torceva nervoso; poi d’un tratto sembrarono diminuire alzando la sua inquietudine, anche se da dietro la porta proveniva un tramestio nuovo e indistinto. Poi ancora silenzio.

Comparve l’infermiera il cui volto adesso sembrava di gesso, lo guardò un istante lunghissimo, poi tendendogli le braccia sussurrò: “è stato un parto difficile, ma ora va tutto bene”.

Si trovò improvvisamente con quel piccolo fagotto che gli avevano messo in braccio e rimase lì in piedi, stordito; gli parve d’essere leggero e lontano, non sentiva più niente, solo due lacrime enormi che scesero scottando sulle sue guance gelate.

Strinse sua figlia vicino a sé e cullandola piano gli sembrò di stare in quella posizione da secoli. Guardò fuori dalla finestra, l’orologio della farmacia segnava le sette in punto.

Aveva smesso di piovere.

Era spuntato il sole.