Ron Howard adempie eccelso al compito di trasformare un caso editoriale (Dan Brown e consorte gongolino soddisfatti) in immagini onorevoli e ci riesce. Dipana in linea retta la trama (ma i continui riferimenti al passato obbligano l’inserimento di flashback) e dirige gli attori, Tom Hanks, Audrey Tautou, Ian McKellen, Alfred Molina, Jean Reno e Paul Bettany (il migliore, un’anima prestata alla recitazione) piegandoli allo scopo di non scontentare nessuno. E dunque nessun guizzo inventivo o da genialode ma bensì buon mestiere registico e lavoro attoriale mai sopra le righe.

Assente di virtuosismi, ben orchestrato, lungo e a tratti noiosetto, Il Codice da Vinci nasce infarcito di rimandi evocativi e girandole narrative condite da dosi massicce (sin dall’origine) di maliziosa capacità manipolativa. Suggerire che siamo vittime di un complotto o che qualcuno ci abbia nascosto la “Verità” per alcuni ha un potere dirompente: fa scattare il desiderio di alzare il sipario e si guadagna subito l’attenzione che anela.

Thrillerone ben confezionato, impeccabile e divulgativo per forza di cose: come altro poter concentrare nozioni, ipotesi e tesi in dialoghi che suonino il meno possibile accademici? Chi urla allo scandalo, è un novello e ingenuo Don Chisciotte al cospetto di due ore e mezzo più o meno volanti di ingarbugliate teorie che raccontano (in soldoni) l’esistenza di una discendenza femminile generata nientemeno che dall’amore tra Gesù e Maddalena (forse il Santo Graal non è cosa ma chi), arricchendo l’immaginazione e accendendo interesse (non polemichette inutili) alla finzione. Gli animi infervorati e/o timorosi, dunque, dormano sonni paciosi. That’s enterteinment.