In apertura uno sfottò al cinema di (de)genere pseudo-irreggimentato. Margherita Buy è l'attrice feticcio del regista di film di nicchia (alla Tarantino per intenderci ma prima di Tarantino si specifica) Silvio Orlando.

L'eroina dei suoi film e dei racconti serali ai figli - nella vita sono una coppia vera sull'orlo della separazione e il lavoro non va meglio, la sua casa di produzione ha le casse vuote - infilza neomariti con le bandiere rosse, inforca l'esperto gastronomico che non gradisce i suoi piatti, creandosi gli anticorpi al cinema d'autore sterile e fine a se stesso.

Da dieci anni cerca di realizzare un film su Cristoforo Colombo. Incontra una regista esordiente, Jasmine Trinca, che gli appioppa una sceneggiatura. Comincia a leggerla con passione per poi scoprire che è incentrata sulla figura di un certo capitalista riciclatosi in politica che da dodici anni sta manipolando in Italia tutto e tutti per non finire in galera (cosa si fa per non andarci: o si scende in campo o si fa i buffoni). Comincia la girandola per mettere in moto la macchina produttiva, trovare l'attore, far digerire il materiale narrativo così profondamente radicato nella realtà.

Nanni Moretti cuce pezzi di repertorio (vedere la faccia di Fini alla famigerata gaffe quando l'attuale presidente del consiglio apostrofò il capo della delegazione tedesca dandogli del "Kapò" nel parlamento europeo) a vari piani narrativi cercando di amalgamarli. Ne esce un ottimo collage di situazioni e battute. Eccelle quando s'indigna dalle profondità. Racconta come ci vedono gli altri attraverso gli occhi di un  produttore polacco che ci definisce Italietta, continuamente oscillante tra l'orrore e il folclore. Si salmodia come una preghiera la domanda chiave: da dove vengono tutti questi soldi?

Ogni battuta ("Oddio vuoi fare un film sul capo del governo? Ma allora è un film di sinistra. Politicizzato. E pensare che l'ho pure votato!") nasconde una bastonata sonora. Un attore che rifiuta la parte dice: "Ma cosa c'è da ridere? Tutti a ridere. Non c'è proprio niente da ridere".

Chi sia il vero caimano non ve lo diciamo, sveliamo solo che è antipatico in modo sublime e perfetto, dotato di magniloquente spocchia, elegante maleducazione al seguito e grisaglia di rito. Quando appare alla fine si riappropria dell'attenzione persa per strada durante una seconda parte della pellicola un po' sfilacciata, annegata nei toni da commedia. Effetto azzeccato: se l'assunto è che agli italiani non importa nulla di sapere quello che è loro portata di mano perché raccontarglielo? Meglio dar loro una commedia. In chiusa la zampata d'orgoglio. Di Il caimano alla fine si gira una scena: c'è finalmente un attore disponibile dopo il forfait dell'ultimo. Si ipotizza una sua condanna dopo un processo infinito: ma lui è tranquillo avrà gli applausi del pubblico mentre il fuoco brucia il tribunale.

Come? Di chi stiamo parlando?