Confesso di aver letto il romanzo Orchidea di Alessandro Maiucchi, edito da Traccediverse, sotto la pesante influenza di un (inconscio) pregiudizio, del quale mi sono reso conto solo alla fine, dopo averlo definitivamente (spero) debellato. Il fatto è che io sono molto, molto provinciale: come tipo di vita, come gusti e soprattutto come ambiente in cui mi trovo meglio. È vero che lavoro in una città, anzi una metropoli (Roma), e vivo solo part-time in provincia (dintorni dell’Orvietano), ma la cosa potrebbe non essere così significativa. Conosco infatti persone che abitano in quartieri di Roma, che conoscono menadito, ma non si sono mai avventurati oltre i confini della loro regione, quando va bene, se non addirittura dal perimetro della città. E in provincia questa particolare forma di pigrizia assume talvolta contorni quasi da commedia all’italiana degli anni ’50. Cosa c’entra questo con il romanzo di Alessandro Maiucchi? C’entra, c’entra, e spiega quel pregiudizio (inconscio) che ho vinto anche grazie a lui. Insomma, qui siamo alle prese con uno scrittore italiano che vive, a più riprese, un’esperienza di vita formativa in alcune città degli Stati Uniti e si immerge in maniera così totalizzante nello spirito e nella cultura locali da subire un influsso irresistibile e prenderne lo spunto per scrivere un romanzo ambientato proprio lì, a migliaia di chilometri (o è più appropriato miglia?) da casa. Con questi presupposti, ho letto Orchidea, ripromettendomi di finirlo in tempo utile per parlarne con l’autore, nel corso della prossima presentazione dell’opera. Ma ho fatto male i calcoli, perché quando ho cominciato a leggerne qualche pagina, un venerdì sera, ho capito rapidamente che mi sarebbe stato difficile interrompere la lettura. Perché Orchidea si rivela una fusione quasi perfetta (il quasi solo perché per me la perfezione non è di questo mondo): un po’ come se Amelia fosse finalmente riuscita a fondere nel suo crogiuolo immerso nella lava del Vesuvio il primo decino di Paperone. La trama è sostanziosa, ben strutturata anche quando scorre su due binari paralleli che sembra debbano incontrarsi, se non che senso avrebbero, e invece no. E non c’è la minima delusione perché il congegno a orologeria di Maiucchi ha tutte le rotelline, ma proprio tutte, al loro posto, e gli ingranaggi girano a dovere, cioè ogni dettaglio va infine al suo posto. Tutti i personaggi svolgono il ruolo che è stato assegnato loro dalla sorte (leggi: dallo scrittore), vista come una sequenza di eventi inarrestabili dal sapore vagamente mitologico: vagamente perché l’evoluzione della storia ha una scansione logica, ben diversa da quella disordinata della tradizione classica, dove quei nullafacenti degli dei bivaccavano sul Parnaso e si giocavano ai dadi, per capriccio, il destino dei poveri mortali che si sbattevano qualche miglio (o è più appropriato dire leghe?) più sotto. Il tutto con una descrizione dei luoghi soffice e gradevole, come un dolce che coniuga gusto e sostanza, sazia ma non appesantisce. In che senso? Nel senso che l’autore non infligge al lettore, che non è tenuto a conoscere nel dettaglio urbanistica, stili di vita, ecc. di una città della East Cost, una descrizione minuziosa ma lascia cadere qua e là un’immagine, un’istantanea che ha il potere di rendere viva e realistica, come se comparisse su uno schermo cinematografico, la scena descritta. Così Annapolis, che conoscevo solo come la location di un film di Dario Argento (Trauma, 1993), e qui esce fuori la mia passione per il cinema thrilling, diventa il palcoscenico delle gesta compiute da una inafferrabile, sgusciante, abilissima assassina, che io esiterei a definire serial-killer. Esiterei perché nell’accezione che conosco (ma non sono né pretendo di essere un esperto dei meccanismi da UACV o FBI) il serial-killer miete vittime che non c’entrano niente con le sue pulsioni omicide, sono solo sfortunati e occasionali (o meno) bersagli di una furia malata e spesso indefinibile. Qui, invece, abbiamo a che fare con una dark lady indimenticabile, che esce letteralmente dalle pagine per la sua tormentata personalità, che punisce solo coloro che considera responsabili di un lontano (ma non troppo), crudele e inaccettabile dolore. Così la sinfonia composta, orchestrata e diretta da Alessandro Maiucchi si rivela un giallo dai contorni classicheggianti, con sfumature thrilling e noir, pieno di personaggi complessi, le cui sfaccettature caratteriali hanno un ruolo ben definito nell’economia della trama: lo sceriffo con i suoi aiutanti, il medico legale che si porta appresso scalfitture sull’anima molto simili a quelle della collega Kay Scarpetta, lo scrittore la cui crisi esistenziale dovuta a una adolescenza orfana, in ogni senso, di affetto viene complicata dalla scarica di violenza subita da una moglie ferocemente e violentemente psicopatica. E poi una galleria di donne, sempre bellissime, che popolano l’assolata Annapolis, in una storia che potrebbe ricordare, ovviamente attualizzata, qualche giallo “gotico” di Cornell Woolrich, da La sposa in nero ad Appuntamenti in nero, passando per tanti altri. Un accostamento forse azzardato, ma sicuramente impegnativo: un impegno che Alessandro Maiucchi onorerà al meglio con il suo prossimo romanzo. Un romanzo che aspetto già da adesso: inizierò a leggerlo calcolando mentalmente quando finirlo per poterne parlare con l’autore alla prossima occasione, e poi mi accorgerò, dopo averne sfogliate poche pagine, che non riesco più a staccarmene, anche se è notte fonda.