Negli ultimi mesi della sua vita Pier Paolo Pasolini stava diventando sempre più scomodo. Lo era sempre stato, fin da quando prendeva posizione contro gli scontri tra studenti e poliziotti a Valle Giulia, scomodo come intellettuale, scomodo come regista da censurare, scomodo come poeta morale e anche scomodo come omosessuale dichiarato.

Ma negli ultimi mesi lo stava diventando ancora di più, fino al punto da diventare anche qualcos’altro, fino al punto di diventare pericoloso. La sua analisi dei cambiamenti e delle contraddizioni della società italiana si era fatta più acuta e più lucida ma anche più cattiva, più arrabbiata quasi disgustata. Negli ultimi scritti e nelle interviste concesse in quegli ultimi mesi, Pier Paolo Pasolini sembra affermare con decisione la necessità morale di mettere sotto processo la classe politica italiana e i meccanismi che fino a quel momento hanno gestito le economie del potere. Responsabilità precise, puntualmente identificate, che vanno dal mancato sviluppo morale e sociale di un popolo all’omicidio politico e all’uso della violenza stragista come forma di governo.

Tutte queste cose Pasolini le stava dicendo e soprattutto le stava scrivendo, sia in articoli come Il romanzo delle stragi, che esce nel 1974, sia in un libro che resterà incompiuto, e che si chiama Petrolio. Parla di tante cose, Petrolio, è una specie di summa poetica della sua narrativa, uno strano romanzo destrutturato, privo di un narratore e con uno sviluppo previsto di duemila pagine, di cui quattrocento già scritte. Parla di tante cose, e parla anche dell’omicidio di Enrico Mattei, degli intrighi e dei giochi di potere che si sono sviluppati attorno all’ENI, parla di un uomo potente come Eugenio Cefis, anche se ne cambia il nome, parla delle società finanziare che fanno capo al potere politico, parla della democrazia cristiana, parla dei neofascisti, della democrazia cristiana e della strategia della tensione, con una puntualità, una precisione, un’analisi così lucida e così acuta che gli fa prevedere perfino una strage come quella di Bologna.

Vogliamo dire che l’hanno ucciso per questo? No, anche se c’è qualcuno che lo pensa. In Italia gli scrittori non muoiono per quello che sanno, neanche se lo scrivono, non sono mai così importanti. Possono diventarlo se la loro opera serve a qualcuno, non la gente, che raramente si mobilita fino al punto di cambiare le cose, ma un altro gruppo di potere che per opportunità politica può cavalcare la denuncia. Oppure ammazzare lo scrittore per mandare un segnale a qualcuno.

Forse non è stato ammazzato per questo, Pier Paolo Pasolini, ma la sua morte ha avuto lo stesso effetto.

Seppellire sotto un silenzio durato trent’anni le sue analisi e la sua denuncia, coprendole sotto l’imbarazzante e completamente falsa immagine di un omosessuale violento ucciso da un ragazzino di cui stava abusando. Interrompere di colpo la sua spinta a una letteratura civile che potesse dire “io so, ma non ho le prove” e mettere in scena i meccanismi di un potere violento e senza scrupoli. Come sarebbe stata la nostra letteratura, come saremmo stati noi, anche noi autori di noir, se trent’anni fa avessimo potuto contare su un modello di narrativa impegnata e civile come Petrolio? Quanto avremmo rotto le scatole a quel potere anche noi scrittori?

Ecco perché Pier Paolo Pasolini, in quegli ultimi mesi, stava diventando pericoloso, e molto.

Anche se dubito che da questo punto di vista quel potere se ne fosse accorto.