A conferma che il filone storico è negli ultimi anni uno dei più fecondi nel cinema della Corea del Sud, il FEFF 20 di Udine ha presentato in anteprima italiana Battleship Island di Ryoo Seung-wan, non incentrato sulle proteste studentesche dagli anni ’80 in poi come 1987: When the Day Comes e Courtesy to the Nation, ma su una pagina altrettanto poco conosciuta, almeno in Occidente, della Seconda Guerra Mondiale.

Mentre infatti in Europa la Germania di Hitler compiva le sue nefandezze, in Oriente il Giappone del generale Tojo attuava la propria violenta strategia espansionistica ai danni dei paesi limitrofi, fra i quali appunto la Corea, allora paese unificato ma ridotto al rango di colonia con cittadini di fatto declassati a sudditi dell’imperatore giapponese. Alcuni di loro riuscivano apparentemente a vivere una vita dignitosa cercando di ingraziarsi i favori degli ufficiali giapponesi – i musicisti, ad esempio, venivano “arruolati” nella guerra per esibirsi davanti alle truppe nipponiche – molti altri però venivano deportati in aree isolate del Giappone per “servire l’impero”, ossia nel caso degli uomini per lavorare come schiavi contribuendo ad aumentare la produzione industriale giapponese, e nel caso delle donne per diventare “donne di conforto”, ossia schiave costrette ad “alleviare” la fatica della guerra dei soldati giapponesi offrendo loro il proprio corpo. Partendo dalla vicenda di un gruppo di musicisti che spera di sottrarsi alle angherie dei soldati giapponesi recandosi a Shimonoseki per un concerto, il film parla proprio della improvvisa deportazione nel febbraio 1945 e della successiva esistenza di un gruppo di coreani in uno dei luoghi preposti allo sfruttamento, l’isola di Hashima, al largo della costa di Nagasaki, soprannominata “Isola Corazzata” poiché nessuno è in grado di fuggire.

Fra i musicisti deportati c’è anche Lee Kang-ok (Hwang Jung-min), finora riuscito abilmente a volgere l’invasione giapponese a proprio vantaggio imparando la lingua del nemico ed esibendosi con inni trionfali che celebrano la gloriosità delle imprese nipponiche. L’uomo spera di poter giocare le sue carte anche sull’isola, sottovalutando l’implacabile crudeltà dei soldati giapponesi, interessati unicamente ai pezzi di carbone prodotti dalla miniera. “Vi concedo l’onore di partecipare alla guerra dell’imperatore”, dice l’ufficiale giapponese Shimazaki Daisuke (Kim In-woo) agli uomini coreani deportati, considerati ufficialmente non come schiavi, ma sudditi, e come tali riceveranno uno “stipendio” dal quale verranno però sottratte le spese per il trasporto sull’isola, il vitto, l’alloggio, gli effetti personali e i beni di prima necessità – di fatto non percependo alla fine alcun soldo. Parallelamente, le donne vengono spogliate, vestite e truccate da geishe e “invitate” ad entrare con fierezza nel Centro di Conforto destinato ai soldati giapponesi, in quanto: “Offrirete i vostri corpi agli uomini giapponesi, dovreste esserne orgogliose”.

Fra loro, inizialmente c’è anche la figlioletta di Lee Kang-hok, So-he (Kim Su-an), che in una scena di straziante sofferenza riesce ad essere risparmiata dall’“onore” di servire i soldati nipponici ricorrendo alle sue doti da musicista. La miniera ospita anche come detenuto il capo della resistenza coreana, Yoon Hak-chul (Lee Gyoung-young), che i coreani dissidenti in Cina dell’Esercito Coreano di Liberazione vorrebbero liberare con l’aiuto del Centro di Addestramento Americano. Così, nel luglio 1945, i dissidenti inviano a tale scopo un loro emissario sull’isola, Park Mu-yong (Song Joong-ki). Ma una volta giunto sull’isola e trovato Yoon Hak-chul, Park scopre di avere a che fare con un traditore. Yoon è infatti alleato di Shimazaki, e ha un conto intestato a suo nome nel quale confluiscono le paghe dei lavoratori della miniera. Mentre gli americani cominciano a bersagliare l’isola con i bombardier, Yoon progetta di seppellire vivi tutti i “compagni” coreani sull’isola per scappare con i libri paga e occultare così le prove del proprio tradimento e dello sfruttamento giapponese ai danni dei “sudditi” coreani, ma Park e Kang-ok riescono a fermarlo e a far esplodere la miniera prima di fuggire insieme agli altri coreani – anche se pochi di loro si salveranno veramente alla fine, sullo sfondo della bomba che fiorisce nel cielo proprio sulla sponda di fronte, a Nagasaki. Come per 1987: When the Day Comes, il film ha un forte valore documentario e di recupero della memoria storica, e a tal fine vengono inserite alla fine delle annotazioni sull’evoluzione della miniera di Hashima nel corso dei secoli.

Aperta nel 1890 e destinata dal 1937 al 1945 a contribuire all’industria bellica nipponica, la miniera venne chiusa nel 1974 a seguito delle nuove politiche energetiche adottate dal governo, diventando per il Giappone un simbolo della Rivoluzione Industriale del periodo Menji e come tale degna di figurare fra i siti dell’Unesco. Nel 2015, l’ente dell’Unesco ha accordato la richiesta al Giappone, inserendo Hashima nella lista dei propri siti, con la condizione però che il governo nipponico si impegnasse a pubblicare entro il 2017 dei cartelli esplicativi sul lavoro forzato ai danni dei coreani attuato sull’isola. Ma purtroppo, il Giappone non ha ancora pubblicato nessuna notizia riguardante le deportazioni e i lavori forzati.

Complice forse la musica di Ennio Morricone, il volto straziato di So-hee e la dignità di lotta e resistenza che trasuda da ogni personaggio “positivo” coreano, Battleship Island è un efficace film di portata epica, che conferma la capacità di narrazione del cinema coreano popolare contemporaneo, riuscendo ad essere coinvolgente senza sconfinare nel pietismo compiaciuto, cercando soprattutto di evidenziare al pubblico sia coreano che straniero le nefandezze compiute dai giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. Troppo spesso, infatti, esse vengono dimenticate e oscurate da quelle di Hitler, analizzate con costanza dagli storiografi per non dimenticare quale bestialità l’animo umano possa nascondere. Complice forse lo shock che lo sgancio delle due bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto del 1945 causò nell’immaginario collettivo mondiale, si è ormai da tempo scelto di chiudere un occhio e di non indagare sulle responsabilità del Giappone e sulle torture perpetrate dai giapponesi ai danni di cinesi e coreani, tanto che in Occidente non si ricorda nemmeno il nome del generale Hideki Tojo, ma solo quello dell’imperatore Hirohito come nebulosa versione orientale del criminale Hitler (ma in realtà era più la versione orientale di Vittorio Emanuele III).

Sarebbe però anche ora, e il film sembra dirci anche questo, che l’immaginario collettivo mondiale cominciasse ad includere una visione della Seconda Guerra Mondiale non più eurocentrica, per restituire alla Storia la sua verità completa.