Vincitore del Gelso d’Oro 2018, 1987: When the Day Comes narra uno scorcio di storia sudcoreana segnato dalle proteste contro il regime militare di Chun Doo-hwan.

Il regista Jang Joon-hwan, presente alla prima italiana al FEFF 20 di Udine, ha affermato come vi siano stati vari tentativi di trasposizione cinematografica degli eventi del giugno 1987, ma che finora nessun produttore e regista erano mai riusciti a realizzare un film su questo tema.

È dunque con grande onore che Jang ha presentato il film al Far East Film Festival, per trasmettere speranza al futuro della democrazia in tutto il mondo.

Molti dei fatti descritti nel film sono realmente accaduti e non frutto della fantasia del regista e dello sceneggiatore.

Il film si apre con una presentazione in stile gangster movie di alcuni personaggi chiave all’interno della macchina della sicurezza governativa, fra i quali spicca il Direttore Park (Kim Yun-seok), nordcoreano che ha passato il confine e che è diventato lo spietatissimo capo della sicurezza anticomunista, incaricata di stanare possibili spie nordcoreane infiltrate nel paese tramite interrogatori e detenzioni di dubbia legalità. Gli sforzi della sicurezza sono in particolare concentrati su Kim Jung-man (Seol Gyeong-gu), secondo il governo a capo di una rete di spie che mirano a distruggere il paese ma in realtà intento a svelare alla popolazione sudcoreana tutte le nefandezze del governo richiedendo a gran voce democrazia.

Mentre riflette su come poter eliminare Kim, che è ormai latitante, Park viene interpellato dai suoi collaboratori perché c’è un problema da risolvere: un teste chiave, lo studente Park Jong-chul, è stato per sbaglio ucciso da due poliziotti che lo stavano interrogando e i tentativi di rianimare il cadavere non hanno portato ad alcun esito. Il direttore Park decide di far cremare il cadavere, ma per concludere l’operazione è necessaria l’autorizzazione del Procuratore Choi (Ha Jung-woo), che però si oppone allo strapotere della Sicurezza Anticomunista e richiede l’autopsia del cadavere e che i familiari del ragazzo vengano avvertiti, intuendo che dietro tutta l’operazione si nascondano efferate torture.

Il tentennamento di Choi suscita la curiosità dei giornalisti da un lato e un braccio di ferro con Park dall’altro e la storia si trasforma così da gangster movie a film d’inchiesta dove alcuni giornalisti, fra i quali l’agguerrito Yoon (Lee Hee-joon), lottano contro la censura per farsi pubblicare articoli sulle torture perpetrate in prigione dagli uomini della sicurezza. Mentre Park dichiara pubblicamente che lo studente è morto d’infarto nel tentativo di sedare le fughe di notizie trapelate sui giornali, Choi manda avanti l’autopsia e i giornalisti riescono a strappare ai dottori la conferma che il corpo dello studente fosse pieno di ematomi e i polmoni pieni di acqua, prova certa di varie forme di tortura fra le quali il waterboarding. Nonostante le rappresaglie del governo alle sedi delle testate giornalistiche, i direttori dei quotidiani decidono di pubblicare comunque la notizia, perché la gente deve sapere, sfidando così le autorità. Messo di fronte all’impossibilità di negare le torture perpetrate sullo studente, Park decide di far ricadere la colpa sul capo della polizia Jo (Park Hui-sun), che viene condannato inizialmente all’ergastolo e poi a dieci anni, con la minaccia di essere ucciso se dovesse rivelare la verità su quanto accaduto.

E qui il film muta nuovamente pelle, trasformandosi in una storia di resistenza politica: la guardia carceraria Han (Yoo Hae-jin), incaricata di vigilare su Jo, collabora segretamente con il latitante Kim Jung-man, al quale deve comunicare la verità sulla vicenda Park Jong-chul e sulle responsabilità della polizia e del governo, ma poiché il suo lavoro lo r

ende particolarmente vulnerabile ai controlli, chiede alla giovane e spensierata nipote Yeon-hee (Kim Tae-ri) di recapitare i messaggi in codice al suo posto presso un tempio. Yeon-hee all’inizio non capisce lo scopo della missione, ma quando per caso si ritrova in mezzo ad una manifestazione di protesta organizzata in onore di Park Jong-chul e contro le violenze perpetrate dal governo, suo malgrado la ragazza viene a contatto con le idee dei giovani che lottano per la democrazia, fra i quali Lee Han-yeol (Gang Dong-won).

In un interludio che è quasi una tenera storia d’amore fra i due, Yeon-hee assiste ad un documentario girato all’estero sulla grande rivolta di Gwanju del 1980, mentre Han-yeol le dice: “dobbiamo lottare così un giorno le cose cambieranno in questo paese”, al che la ragazza risponde scettica: “questo giorno non verrà mai, smettila di sognare”. Il governo sembra risponderle direttamente reagendo alla nuova rivolta studentesca: il Presidente Chun (che il film non mostra mai direttamente se non attraverso le parole degli altri o della TV) sopprime le elezioni libere, affermando come la situazio

ne richieda stabilità e nessuna tolleranza per i nemici comunisti, Kim Jung-man in testa. Quando poi Park e i suoi arrivano a torturare lo zio perché scoprono il suo legame con Kim, Yeon-hee capisce che non c’è alcuna alternativa alla lotta e diventa anche lei una militante. Si reca di sua iniziativa da Kim, ora rifugiatosi in una chiesa cattolica, per comunicargli il coinvolgimento diretto della polizia nell’omicidio dello studente, visto che lo zio aveva nel frattempo raccolto tutte le prove in prigione.

E qui la vicenda si trasforma ancora e diventa action movie, con gli uomini di Park che accerchiano la chiesa per catturare Kim arrivando però troppo tardi perché i nomi dei responsabili della tortura sono stati ormai rivelati a tutti i presenti, cosa che scatenerà una nuova, ennesima virata di violenza ai danni della popolazione. Molti verranno uccisi dai gas lacrimogeni, fra i quali proprio Lee Han-yeol.

Ma la reazione della gente sarà ancora più forte del 1980 a Gwanju: un milione di persone si riverserà spontaneamente nelle strade inneggiando alla democrazia.

Il film si chiude con le immagini di repertorio 

della vera rivolta del 9 giugno del 1987 e del funerale del vero Lee han-yeol, con l’inno nazionale sudcoreano sullo sfondo. Scansando la facile retorica, in cui una trama del genere potrebbe scivolare da un momento all’altro, Jang Jong-hwan riesce a mescolare in maniera efficace i vari elementi presenti nel film – l’azione, la violenza, la lotta, il romance, il dramma, la riflessione politica – con la giusta dose di poeticità e un fortissimo impatto emotivo e anche i momenti che potrebbero a prima vista sembrare ingenui come il leitmotiv della scarpa persa prima da Yeon-hee e poi da Han-yeol e che

lega i due in un possibile amore misto alla lotta per un futuro migliore assumono un valore documentario di verità simbolica se visti con la lente delle immagini di repertorio, che sono lì alla fine del film a ricordarci che quello che abbiamo visto è sì frutto della fantasia, ma anche perfettamente immerso nella realtà, una realtà spietata e senza respiro a cui la popolazione ebbe la forza di reagire.

E se il ritmo incalzante e i continui passaggi da un genere all’altro danno al film una solida ossatura mai banale né scontata, la recitazione intensa degli attori, primo fra tutti uno straordinario Kim Yun-seok, rappresenta il qi e la quintessenza dell’opera, trasformandola in un vero capolavoro che non sfigurerebbe affianco di altri grandi film di denuncia quali Cry Freedom di Richard Attenborough, più famosi e cono

sciuti solo perché diretti da registi occidentali e dunque ritenuti più importanti.

Ecco che dunque il FEFF con la sua ventesima edizione in buona parte dedicata ai film a sfondo storico ha anche il merito di aprire uno spiraglio non più eurocentrico alla Storia, invitando le spettatrici e gli spettatori ad un importante riflessione sul relativismo culturale e a non dimenticare che la lotta per la libertà è universale e non circoscritta soltanto al piccolo mondo occidentale che le e li circonda. Perché il cinema, quello vero, ci insegna ad aprire gli occhi e a cambiare la realtà, oltre che a capirla.