Giunto al suo terzo romanzo, Gianluca Campagna, noto agli amanti e ai professionisti del genere anche per essere il creatore di Giallo Latino, una manifestazione che da 9 anni si svolge a Latina, conferma le sue doti di narratore capace di affrontare argomenti scabrosi con la profondità del giornalista investigativo, affidata al protagonista di turno, e la leggerezza stilistica dell’ironia, ora amara ora divertita, affidata in particolare ai dialoghi su un tessuto narrativo che scorre veloce sull’onda della suspense.

Così è stato per “Molto prima del calcio di rigore” (Draw Up, 2014), che indagava sul mondo del calcio – in questo caso il campionato più magico della squadra di Latina che aveva sfiorato la serie A – con una sagacia stilistica, nel racconto delle partite, degna di Brera; poi con “Finis terrae” (Oltre Edizioni, 2016) un thriller immerso nella “palude” di traffici illeciti (immondizia, calcio, sesso) e morti misteriose della provincia di Latina, tanto vere quanto più l’autore ha dato altro nome alla città; ed ora con “Il profumo dell’ultimo tango”, edito da Historica, un titolo che lascia prefigurare orizzonti più lontani, nello specifico l’Argentina, un mondo che l’autore ama, conosce, frequenta e, pertanto, è in grado di renderlo vivo, pulsante.

Qui ancora il calcio, quello dei mondiali del 1978, in pieno regime Videla, la dittatura dei generali, vinti dall’Argentina forse con qualche forzatura di mano, necessaria alla junta militare per acquistare consenso interno più che internazionale, visto che quest’ultimo lo aveva già perso. Il campionato è importante nell’economia del romanzo perché è la filigrana attraverso la quale l’autore setaccia la brutta storia dei desaparecidos, vista però con gli occhi di oggi, 2018.

Accade infatti che, trascorsi ormai ben 40 anni da quei giorni, il fenomeno dei desaparecidos si ripresenta. E a sparire oggi sono dei ragazzini, uno qua, uno là, per cui è pure difficile al momento intuire che si tratti di un unico progetto, non di sparizioni occasionali. Il destino vuole che ad essere rapito sia pure il figlio di una donna che è stata in passato l’amante di Jose Cavalcanti, un investigatore privato di origini italiane al quale la donna si rivolge per trovarle il figlio. Da qui prende il via un’indagine che percorrerà le vie di Buenos Aires per far emergere un po’ alla volta, tra soste gastronomiche e degustazione di vini, amplessi occasionali e donne generose, tra battute irriverenti e di spicciola filosofia degna del miglior Seneca dagli echi chandleriani, le scottanti verità che stanno dietro ai rapimenti.

Innanzi tutto, al primo collage, un riscontro inquietante: i ragazzini sono tutti nipoti di gente invischiata durante il regime di Videla, piccoli gerarchi del tempo, complici di malefatte, degli sparimenti, dei crimini che hanno interessato soprattutto le madri dei desaparecidos, le madri coraggio, le madri di Plaza de Mayo.

Come non pensare alla vendetta?

Jose Cavalcanti, in sella del suo sidecar Ural, con l’aiuto-chef (da gourmet qual è) Cholo e i cani, dei dogo naturalmente, Clan&Destino, più altri personaggi di contorno che danno cornice e atmosfera a una città, a quel profumo di tango richiamato nel titolo, perverrà alla verità ultima su quei rapimenti che lasciano presagire il ritorno di un’altra stagione d’inferno. Questa volta da parte di vittime che non volevano più essere solo tali, ma a loro volta carnefici.

Le ultime pagine del romanzo hanno un ritmo serrato, ultimo girone dantesco di un romanzo che, a partire dalla prima pagine, e poi nello sviluppo dell’azione assume un’accelerazione che si fa via via sempre più veloce e concentrica per stringersi intorno a una verità che sarà forse diversa da quella che il lettore si aspetta.

Come in ogni thriller che si rispetti.