Il romanzo Assassinio sull’Orient-Express, ristampato nel  2017 da Arnaldo Mondadori Editore nella collana Oscar absolute, è stato pubblicato dapprima a puntate nel 1933 sul settimanale americano Saturday Evening Post e quindi raccolto in volume l’anno successivo, in occasione della sua diffusione in Inghilterra.

La prima edizione italiana del romanzo, uscita con un titolo accorciato e successivamente ripristinato in seguito a una traduzione più fedele, risale invece al 1935.

Si tratta di un’opera celeberrima di Agatha Christie, portata sul grande e piccolo schermo in diverse occasioni: dal film di Sidney Lumet del 1974, che può contare su un cast di primissimo ordine, con Albert Finney nel ruolo di Hercule Poirot, fino all’ultima versione diretta e interpretata da Kenneth Branagh nel 2017, passando per l’adattamento televisivo del 2010 con protagonista David Suchet, che forse meglio di tutti si è calato nei panni del pingue detective belga.

La trama è universalmente nota: un gruppo di personaggi, tra cui lo stesso Poirot, si imbarca sull’Orient-Express in partenza da Istanbul e diretto a Calais.

Sul treno, bloccato in Iugoslavia a causa della neve, durante la notte viene commesso un delitto.

La vittima è un uomo d’affari di nome Ratchett, trafitto da dodici coltellate nella sua cuccetta.

Il signor Bouc della Compagnia dei Vagoni-Letto, presente sul treno insieme a Poirot, chiede a quest’ultimo di portare avanti le indagini che, grazie anche ai sapienti interrogatori condotti dall’investigatore, condurranno ad una soluzione brillante e originalissima.

Senza dubbio, in questo capolavoro della letteratura gialla il mistero non riguarda soltanto l’identità dell’assassino, ma anche il passato della vittima, in un continuo svelarsi di retroscena inaspettati.

E la soluzione è tra le righe fin dall’inizio, si intuisce anche se solo in sordina.

Sembra intuirla perfettamente, da subito, Poirot, che si muove lungo tutto il romanzo come se già conoscesse l’identità del colpevole, la quale tuttavia potrà essere resa nota solo alla fine di un percorso di disvelamento quasi catartico.

Tema del libro è la vendetta, come emerge fin dal ritrovamento del cadavere.

E la vendetta, come un ponte tra passato e presente, tiene i personaggi e il lettore in bilico tra due realtà diverse, quella del mondo esterno e quella, angusta sia fisicamente che psicologicamente, del vagone ferroviario isolato dalla neve, ennesima declinazione del meccanismo della camera chiusa, con cui la Christie si è cimentata più volte.

Una camera chiusa che, in questo romanzo, non ospita il ristretto ambiente della piccola/media borghesia protagonista di tanti dei suoi romanzi, ma che imprigiona, costringendoli ad una coesistenza forzata, personaggi apparentemente diversissimi tra loro per estrazione e provenienza.

Questa infatti è un'opera corale, dove i protagonisti si avvicendano e giocano il proprio ruolo quasi come entrando e uscendo da un palcoscenico, contribuendo ad inscenare quella commedia umana che la scrittrice inglese riesce a rappresentare con tanta bravura, tratteggiando sapientemente personalità e vissuti diversi.

E come il coro nella tragedia greca, i personaggi dell’Orient-Express faranno da tramite tra il “fuori” e quel piccolo microcosmo nel quale si svolge la vicenda.

Sottesa alla trama del romanzo si individua inoltre una riflessione affatto banale sulle conseguenze che il male compiuto e subìto produce tanto nella vita delle vittime quanto in quella del carnefice.

Ciò che è stato e ciò che è si rincorrono a vicenda, in un tormentoso gioco che può concludersi solo con un’altra tragedia.

L’atmosfera apparentemente distaccata in cui l’indagine si svolge, poiché la Christie evita spesso di esprimere un giudizio morale sui suoi personaggi, cela in realtà un tormentoso dilemma che il lettore non potrà non cogliere.

Il problema morale che pervade la trama, accennato ma non approfondito nel libro, è stato invece prepotentemente sottolineato negli adattamenti cinematografici e televisivi più recenti, che ci presentano un Poirot emotivamente coinvolto e dilaniato.

Infatti, se Lumet aveva raccolto in maniera quasi impeccabile il testimone narrativo di quel distacco con cui l’autrice ha raccontato questa storia drammatica e avvincente, c’è chi ha sposato una diversa interpretazione e portato alla luce nell’investigatore belga la carne viva di una dimensione intima, più fragile e agitata dal dubbio, come nell’interpretazione di Suchet in cui Poirot, da buon cattolico, addirittura stringe a sé il rosario, come a chiedere lumi sulla via da seguire.

Non si tratta di un indebito stravolgimento, ma di una legittima lettura tra le righe della narrativa della Christie che qui e altrove, pur nella sua accessibilità, è sempre stata più ricca e stratificata di quanto apparisse.

D’altra parte, il bello di un buon “giallo” è anche questo.

E nelle trame della Christie c’è spesso qualcosa in più rispetto al semplice mistero da risolvere; in questo libro, elegante come sempre nello stile ma profondamente amaro nella sostanza, si coglie una riflessione sull’impotenza dell’uomo di fronte alla sofferenza, e sull’impossibilità di discernere cosa sia giusto e cosa sbagliato.

Un’impossibilità che tuttavia si manifesta non sul piano razionale, ma solo su quello morale.

Le cellule grigie di cui Poirot è giustamente orgoglioso funzionano alla perfezione: squarciano il mistero con tagli precisi e netti, orchestrano la soluzione, passo dopo passo, con sicurezza disarmante, guidano la vicenda verso l’epilogo con scientifica diligenza.

E lì si fermano.

L’investigatore ne esce da Hercule, invincibile, mentre il Poirot uomo arriva a conoscere un confine oltre il quale l’intelletto non ha giurisdizione.

Poiché la realtà, in fondo, raramente è fatta di valori assoluti, e ogni personaggio porta in sé una prospettiva diversa.