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Formoso, Mato Grosso, Brasile, marzo 1955

I cavalli arrancavano da più di un’ora lungo le strade invase dal fango; in tutta la zona pioveva da una settimana. La carrozza raggiunse l’edificio in stile coloniale alle porte della città e si fermò a pochi passi dalla veranda, in uno spiazzo tra gli alberi di caju. In quel punto la strada era più ordinata, la pavimentazione era in pietra e l’acqua vi rimbalzava defluendo con rapidità.

Dalla porta dell’edificio fece capolino un giovane indigeno vestito di bianco che reggeva due ombrelli, uno per sé e un altro chiuso. Il vetturino gli fece cenno oltre la cortina di pioggia, il giovane raggiunse di corsa la carrozza.

Dallo sportello uscì un uomo alto all’incirca un metro e ottanta, con un abito chiaro dal taglio impeccabile e una valigia. Il ragazzo gli porse l’ombrello aperto, prese la valigia e gli indicò la veranda, nella cui direzione l’uomo s’incamminò senza affrettarsi nonostante il diluvio. Il vetturino fu congedato e la carrozza fece manovra per allontanarsi, mentre il giovane raggiungeva l’uomo nella veranda precedendolo nell’ingresso e posando la valigia su un tavolo.

La casa era avvolta dalla penombra. L’arredamento era costituito da mobili di legno chiaro e vi aleggiava un leggero odore di heliconia. 

Il giovane factotum mise da parte l’ombrello e accese un lume. «Non ne possiamo più di questa pioggia», disse concitato. «Spero che lei abbia fatto comunque buon viaggio, signore».

L’uomo non rispose. Aveva il cappello in mano e osservava il ragazzo darsi da fare nel soggiorno.

«Avrà saputo che le signore sono in città», disse il giovane.

«Me l’avevano detto». 

«Preparano la spedizione, il convoglio per Cuiabá parte domani all’alba. Non ricordo dove ho lasciato i fiammiferi!». Aprì e chiuse varie ante di uno stipo. La pioggia crebbe d’intensità. «In verità la aspettavo un po’ più tardi. Con questo tempo Floro avrà avuto pochi clienti e forse ha saltato un paio di giri. Ecco i fiammiferi! Si accomodi sulla sedia imbottita mentre provvedo al fuoco. A proposito», sorrise, mostrando la dentatura che spiccava sul volto scuro, «io mi chiamo Rossìn. Mi consideri al suo completo servizio».

L’uomo posò il cappello sul tavolo, ben distante dalla valigia che gocciolava.

«Posso andare in bagno?», chiese.

Il ragazzo si arrestò di colpo e rivolse all’ospite uno sguardo imbarazzato.

«Oh, che stupido che sono! Dopo un così lungo viaggio si capisce che ne senta il bisogno. Abbia la pazienza di seguirmi».

Lo guidò in un corridoio fino a un piccolo bagno immacolato. Quando l’uomo ne uscì, dieci minuti dopo, il fuoco riscaldava il soggiorno.

«Torneranno presto le padrone?»

«Domani stesso, non appena avranno spedito la merce in Ungheria», rispose Rossìn trascinando la poltrona vicino al caminetto, dove era comparso anche un paio di pantofole. «Nel caso voglia togliere le scarpe e far riposare i piedi», spiegò. «Le ho portato anche una bottiglia di cachaça. La cena sarà pronta tra un’ora».

L’uomo si avvicinò per osservare il giovane. Non era più alto di un metro e sessanta, con una corporatura di tipologia amazzonide, poco robusta ma con gambe solide. Prese il ragazzo per un braccio, arrestando il suo moto perpetuo, e lo osservò alla luce del camino. La carnagione non mostrava segni di anemia, anzi la sua dieta doveva essere ricca di proteine. Con ogni probabilità i suoi antenati, o magari gli stessi contemporanei delle tribù nell’interno dovevano essere stati dediti al cannibalismo. Rossìn sorrise, scambiando il gesto dell’uomo per un ringraziamento, e riprese le operazioni per mettere a suo agio l’ospite.

«Se lo desidera posso mostrarle la sua camera e lo studio. È stato preparato tutto secondo le sue disposizioni. Vuole che le porti la valigia di sopra?».

«No. E lasciami solo per un po’».

Rossìn obbedì e se ne andò al piano superiore. L’uomo attese alcuni istanti, ascoltando i passi del giovane svanire in qualche stanza, quindi aprì la valigia. Da una tasca interna sfilò una busta gialla da cui estrasse dei documenti scritti a mano, a caratteri fittissimi, infarciti di grafici e formule matematiche. Sul dorso della busta c’era scritto “Tipi razziali”. Scorse le pagine fino a un capitolo che aveva intitolato Indigeni Brasile e ne lesse velocemente alcuni paragrafi. Nel frattempo prestava attenzione ai rumori del factotum, impegnato probabilmente a riordinare la casa. Il fuoco scoppiettava nel camino. Un orologio a molla spandeva i suoi ticchettii nella stanza. E la sua mente associò quel ragazzo, e tutta la genia di cui era degno rappresentante, ai nani, agli zingari e agli ebrei che aveva preso in consegna al campo. Forme anomale, ma perfettamente adatte per i suoi esperimenti.

Del resto l’attesa stava per finire. Grazie all’appoggio delle sorelle ungheresi avrebbe presto ricominciato il lavoro interrotto nel 1945. Un’opera condotta fino all’ultima ora, inviando puntualmente le sue relazioni quotidiane a Butenandt e Von Verschuer, persino quando ormai ignorava la sorte dei due colleghi.