E’ sulle voci del verbo mostrare che si modula la meravigliosa fiaba nera “Lo zoo”, ultimo mirabolante romanzo di Marilù Oliva. Nella tenuta salentina delle Pescoluse, isolata dall’abitato e metafora di un mondo ristretto, intrecciano le loro vicende carcerieri e reclusi. I primi, un’anziana contessa sfigurata dagli innumerevoli ritocchi, il suo amante chirurgo plastico velleitario e incapace, e i loro amici collusi (un sindaco, un politico, un accademico e una soubrette) hanno edificato la propria esistenza ossessionati dal bisogno di popolarità, grandiosità, avvenenza e controllo. I secondi, creature grottesche rapite e recluse nelle gabbie di uno zoo surreale sorvegliato da un ripugnante guardiano, sono esposti agli sguardi della padrona e della sua accolita di complici. Costretti a esibire la propria deformità. Tra questi due schieramenti, dinamiche variegate. Molto diversi tra loro i prigionieri, la donna anfora, l’uomo scimmia, il ciclope, la sirena, la strega, l’uomo più piccolo del mondo e l’angelo ermafrodita. Su ognuno di essi il chirurgo plastico è intervenuto con ritocchi, innesti e tatuaggi per accentuare la malformazione. I prigionieri saranno infatti materiale vivente per gli esperimenti del medico che intende dimostrare la propria abilità e onnipotenza a una congrega di colleghi pervertiti dediti a una chirurgia plastica estrema, da cui sogna di essere cooptato. Cellulari, telecamere nascoste, specchi, e persino le pagine patinate di una rivista scientifica proibita immortalano e riflettono il risultato finale di un’abusante e spregiudicata manipolazione dei corpi. Pare, questo zoo concepito dal genio visionario di Marilù Oliva, una trasposizione in chiave fantastica, onirica, delle dinamiche narcisistiche del nostro presente cibernetico e multimediale, rappresentabile come un megaschermo deformante montato sull’umanità. Un presente semplificato dalla perentorietà di un’immanenza fondata sulla sopraffazione e la reificazione del prossimo, in cui non solo la bellezza ma anche la bruttezza deve essere eclatante. E’ evidente che in un simile contesto stabilire cosa sia la normalità divenga prioritario. Ma la normalità è sempre avvinghiata al suo corrispettivo: la diversità. E’ su questi temi che si interroga l’autrice, come sa fare solo un grande scrittore, senza giudicare o pontificare, ma mettendo in scena, raccontando. E in un momento in cui, oltretutto, da fronti diversi ma sempre integralisti si sferrano attacchi alle diversità. Attacchi acritici, impulsivi e talvolta francamente ridicoli, come la recente censura di alcuni capolavori della narrativa per l’infanzia. Scrivere di freaks è una scommessa ardua e un atto di coraggio. Scriverne come fa Marilù Oliva, con una tenerezza e una partecipazione che rifuggono dalla retorica e dal buonismo, un’impresa per pochi. Scabro e impietoso lo sguardo sui predatori. Perplesso sulle figure intermedie dei guardiani, di cui si sottolineano la correità ma anche la possibilità di fare ammenda. Vellutato e compassionevole sulle vittime di abuso. Di ogni personaggio sono raccontate la storia irripetibile e la geografia interiore. Emergono così spaccati di bieco opportunismo, e inqualificabile narcisismo. Ma anche di grande bellezza, come nel caso della donna anfora, che rintuzza le tremende disgrazie subite non cessando mai di interrogarsi con indulgenza e lucidità. L’assoluta maestria nell’uso della lingua, strumento duttile e affilato, ha permesso a Marilù Oliva di maneggiare una trama che imponeva estrema cautela. L’intreccio complesso, che a un certo punto precipita nel noir, si fa rarefatto quando indugia nelle descrizioni degli amori che divampano. Come a sottolineare che le unioni profonde possono svestirsi della corporeità. E che la bellezza è appannaggio anche dei corpi deformi, capolavori immanenti dell’imprevisto.