In Italia non sono moltissimi quelli che conoscono Alonso Fernández de Avellaneda, il misterioso autore di un apocrifo cervantino che nel 1614 diede un seguito alla celeberrima prima parte del Don Chisciotte. Dopo la lettura di questo godibilissimo noir storico-letterario, ciascuno di voi non solo avrà conosciuto il nome – naturalmente secondo la maliziosa interpretazione del cinquantacinquenne autore madrileno Mateo-Sagasta – di colui che cercò di vampirizzare il capolavoro narrativo del Siglo de oro, ma avrà fatto anche un’eccitante immersione in quel caleidoscopio di eccellenze artistiche e di miserie politiche e morali che è la Spagna e la Madrid dei primi anni del Seicento.

Isidoro Montemayor, ex soldato con una carriera priva di inutili eroismi, aiutante di un biscazziere, a tempo perso correttore di bozze e redattore di oscure gazzette, ci conduce, novello Virgilio, nei cerchi infernali di un mondo ritratto con una crudezza assai più gradita in quanto fa risaltare, in controluce, la grandezza letteraria e, assai spesso, la miseria privata dei giganti di quel periodo irripetibile.

Private eye ante litteram, viene incaricato dal suo datore di lavoro, editore tra l’altro di Cervantes e irritato dal successo del sequel non autorizzato di Avellaneda, di scoprire la misteriosa identità dell’autore dell’apocrifo; e, contemporaneamente, si trova a dover indagare sulla misteriosa morte di una marchesa, sicuramente ludopatica e probabilmente depressa: omicidio o suicidio?

In realtà la doppia inchiesta diventa ben presto un trasparente pretesto per far giocare protagonista e lettori coi fantasmi di autori del calibro di Lope de Vega, Tirso de Molina, Góngora e de Quevedo grazie a colti ammiccamenti all’esperto di cose letterarie spagnole: così il gioco crudele di un nobile iberico durante una partita a carte fornisce al nostro Isidoro e al suo interlocutore del momento, il frate conosciuto con lo pseudonimo di Tirso de Molina, lo spunto per il futuro Burlatore di Siviglia; ed è lo stesso Montemayor poi che suggerisce a Lope de Vega l’argomento per il suo capolavoro Fuente Ovejuna.

Ma coprotagonista a tutti gli effetti è Madrid, quella città solo dalla metà del Cinquecento elevata al rango di capitale, in cui le strade, percorse da fastosi cortei, sono in realtà delle fogne a cielo aperto dove chiunque può gettare dalla finestra orina ed escrementi; in cui si aggirano nobili annoiati e troppo ricchi, ormai privi di una funzione sociale, attori di strada, addestratori di scimmie e barbieri-chirurghi con il loro orrido armamentario professionale; in cui si può concupire senza problemi una dodicenne ed essere torturati e impiccati per furto; in cui la plebaglia corre seriamente il rischio di morir di fame e gli aristocratici curano la loro dentatura con stuzzicadenti d’argento e collutori a base di orina.

E il sesso, direte voi? C’è, ma, stranamente per un best seller dei giorni nostri, pur ambientato nel Seicento, in dosi molto limitate: innanzi tutto la promiscuità di genere è molto rappresentata, ma ben poco agita; poi – un delicato omaggio alle lettrici, tradizionalmente il target preferito dai romanzieri? – ben presto il nostro Isidoro, inutilmente proteso a ricercare a pagamento un qualche antenato nobile nel suo albero genealogico, s’imbatte in un’affascinante e sensuale contessa, donna Micaela: e qui ci fermiamo, considerando anche il fatto che, se qualcuno di voi conoscesse anche lo spagnolo, potrebbe dilettarsi nei due sequel in cui la romantica coppia riappare.

Un bel romanzo dunque? Sì, e dispiace che in Italia non abbia riscosso il successo che avrebbe meritato. Certo, chi ha frequentato la serie del Capitano Alatriste di Pérez-Reverte, riconoscerà certi caratteri comuni, ma lì la vicenda virava decisamente verso l’avventuroso-bellico, anche in considerazione del pubblico d’elezione, in gran parte adolescente; qui invece l’autore mira a un lettore adulto, senza distinzione di genere, e quindi i vari ingredienti sono stati mescolati con maggiore attenzione per rispettare gli equilibri interni della narrazione. Naturalmente la formazione accademica di Mateo-Sagasta affiora decisamente qua e là, ma senza la spocchia dell’esperto di cose storiche e letterarie che intenda ammaestrare un uditorio riottoso: che si colgano o no le dense allusioni culturali, la storia fila via con un ritmo apprezzabile sino al finale che, naturalmente, per consentire la costruzione seriale, è sufficientemente aperto.

Un appello sincero a Tropea: a quando la traduzione degli altri due romanzi della serie?

Voto: 7.5